2016/set - Maestro Cornelius - di A. Trono

                                                      MAESTRO CORNELIUS,
                                                            L’AVARO CHE,
                                         AL FINE DI ACCRESCERE I SUOI TESORI,
                                                           SE LI DERUBAVA.
                                                                    di
                                                           Antonio TRONO

A me piace riesumare le remote vicende che la Storia, attraverso gli antichi scrittori, ci hanno tramandato.
Questo perché attraverso la loro narrazione, si possono conoscere e se si vuole, si possono anche rivivere le usanze, i costumi, le tradizioni, le angosce, le paure e le disuguaglianze, che il potere feudale imponeva e condizionava la società civile di quel lontano tempo.
Ormai siamo abituati dalle nuove generazioni a vivere la nostra vita come meglio ci aggrada, nella piena libertà delle nostre azioni, privi di qualsiasi remora, complice anche la globalizzazione che ha imposto le sue ferree leggi di mercato sia sulle persone, che sulle merci ed ha stravolto la vita sociale, economica e lavorativa, soprattutto dei giovani, che dipendono sino alla matura età, dai vecchi genitori che ancora li mantengono e li sostengono.
 Per  cui,   rimaniamo molto perplessi, nel confrontare quei tempi molto lontani con gli attuali e veniamo colti da un senso di smarrimento e di frustrazione, che sul momento, confonde le idee della nostra mente e la sospende nel vuoto, ma poi pian piano si acquieta e si equilibra in quanto ci si rende conto che i tempi cambiano, che le ere si susseguono con vertiginosa velocità, che i miti degli uomini si susseguono con i tempi e che, sia l’uomo più mite, che quello più deleterio, continuano a vivere la vita come nel passato.
Di tutto ciò, non resta altra soluzione se non quella di vivere il presente, per ciò, questo il racconto, serve solo alla memoria dell’uomo moderno, perché non dimentichi, quello che furono i nostri predecessori, la loro misera e negletta vita, vissuta tra le angherie ed i patimenti subiti ed infine di essere sempre coscienti della continuità e della tradizione, che permane.
L’ho tratto dalla sterminata opera “La commedia Umana” del grande e prolifico scrittore ottocentesco, Honorè De Balzac, che con i suoi eroi, le sue battaglie ed i suoi personaggi, riepiloga con chiarezza e misura, un largo lembo della Storia di Francia.
Sono stato colpito dalla veridicità del documento, dalla precisione del particolare, del linguaggio usato, del realismo e dalla intuizione nella sistematica fedeltà nella descrizione di una concreta e completa visione della società dell’epoca, in cui i fatti vennero da Lui descritti.
Ed ora passo a narrare della modesta visione ricevuta dalla lettura dell’episodio storico tramandatoci.
Consapevole dell’ardua impresa che mi attende, cercherò di raccontarla solo suffragandola con la mia sensibilità, la mia fantasia e la mia perspicacia, solo ed esclusivamente per una migliore comprensione dei fatti.
Nella tarda serata del primo novembre del 1479, festa di Ogni Santi, mentre le funzioni religiose nella cattedrale di Tours stanno per terminare, scocca il big-beng, con cui la narrazione ha inizio.
L’ Arcivescovo Hellie de Bourdeilles, si era alzato dal suo scanno pontificale, per impartire la Santa benedizione ai fedeli che gremivano la cattedrale di Tours.
La cerimonia religiosa era giunta al suo epilogo. L’oscurità della sera, ormai regnava sovrana nelle tre navate della Chiesa e le luci delle migliaia di candele dei candelabri posti sia sugli altari che di quelli disseminati lungo le navate, rischiaravano in maniera inefficiente l’immenso interno.
La folla dei fedeli si delineava vagamente nel chiaroscuro, tanto da sembrare fantasmi.
Le statue parevano animate, mentre gli uomini sembravano pietrificati.
Lo scenario che offriva quella massa di popolo orante era maestoso, perché solo quando la spiritualità prende il sopravento sulla materia, si è esaltati dalla mistica che reagisce in ognuno di noi, ed anche il più misero si sente coinvolto in quel mare di fede e di amore che solo la univoca preghiera può dare.
Ed ecco perché nel Medioevo, molti amori fiorivano in chiesa, il sentimento religioso, allora, aveva delle affinità con l’amore.
Le costumanze dell’epoca spiegano molto bene l’alleanza della religione e dell’amore.
A ben dire, la società dell’epoca era sempre dinanzi all’altare. Signori e Vassalli, uomini e donne solo in chiesa erano uguali.
Lì soltanto gli amanti potevano vedersi e colloquiare.
I giovani frequentavano la chiesa, come oggi i nostri frequentano le discoteche.
Poi vi erano le processioni, le feste religiose che costituivano lo spettacolo del tempo.
La religione era entrata dappertutto, nella scienza, nella politica e nella vita sociale in genere.
Così, quando il canto dei sacerdoti ebbe fine e l’Amen finale venne cantato, la massa dei fedeli, lentamente iniziò a muoversi e fu in quel momento che un borghese, o perché avesse fretta di uscire per primo, o perché temesse di essere derubato nella calca all’uscita, pian piano si allontanò.
Un gentiluomo, subito si affrettò a prendere il suo posto.
Giuntovi, si nascose il viso nelle penne che ornavano il suo berretto rosso, si inginocchiò ed assunse un’aria da vero penitente.
I vicini, incuriositi, lo guardarono fissamente e sembrò loro di riconoscerlo e compreso il motivo per il quale egli era lì, dopo essersi lasciato sfuggire uno sguardo di muta maldicenza, ripresero a pregare.
Il posto, occupato dal giovane si trovava vicino ad una cappella laterale della terza navata, racchiusa da due pilastri ed un cancelletto in ferro.
Era usanza dell’epoca, concedere mediante la corresponsione di un alto canone, ad alcune famiglie nobili
ed anche a ricchi borghesi, il diritto di assistere alle funzioni religiose, l’uso delle cappelle e vicino al cancello, una giovane donna era inginocchiata su un cuscino foderato di velluto e nappe d’oro, proprio vicino al posto occupato ora dal giovane gentiluomo.
Ella aveva tra le mani un libro di preghiere che iniziò a sussultare, quando il giovane si inginocchiò vicino a lei.
A lei vicino, vi era seduto un vecchio gobbo, quasi calvo, dall’aspetto truce, con una lunga barba di colore bianco sporco, tagliata a ventaglio, la croce di San Michele gli brillava sul petto, le mani nude che in un primo momento aveva tenute congiunte, si erano poi allentate a causa del sonno a cui, molto imprudentemente si era abbandonato.
Quando i due giovani, si guardarono, i loro visi, sembravano trasfigurati dall’amore che infiammava i loro cuori.
Entrambi si amavano da lungo tempo e stanchi delle continue lotte, non potevano più resistere a stare lontani l’uno dall’altro.
La donna, di una bellezza mediocre, aveva un aspetto distinto ed i più bei capelli del mondo, ma l’aspetto pallido, manifestava un’intima sofferenza che la rendeva interessante.
Il giovane innamorato ebbe solo il tempo di dire a bassa voce: “non abbiate alcun timore uscendo, lasciate fare a me”, quando il vecchio si destò di soprassalto dal sonno profondo in cui era caduto; la sua mano toccò il pomo della spada e con il freddo contatto, i suoi occhi gialli si rivolsero verso la moglie.
Contemporaneamente il giovane cavaliere, accortosi del risveglio del vecchio, si alzò in fretta e si nascose dietro un pilastro e poi scomparve.
La dama abbassò gli occhi e finse di leggere, ma non poteva evitare che il suo viso arrossisse.
Il vecchio signore si accorse di ciò, ma non vedendo alcuno da cui poter diffidare le disse: “a che pensate, amica mia?” “L’odore dell’incenso mi fa male”, ella rispose. “Proprio quello di oggi?” replicò il signore.
Intanto, senza attendere la fine del Secula Seculorum, la folla, come un torrente si riversò verso le porte della Cattedrale.
Il vecchio Signore, attese che la folla si diradasse, poi facendosi precedere dalla governante e da un paggio munito di lanterna, diede il braccio alla moglie e seguito dall’altro paggio, si avviò verso l’uscita.
Ma nel momento in cui stava per raggiungere la porta laterale aperta, dalla quale era solito uscire, una folla di gente si distaccò dalla porta centrale ed in massa si spostò verso quella laterale, circondando la coppia.
Entrambi i coniugi vennero travolti e nel frangente la moglie le fu strappata dal braccio e fu trascinato violentemente dalla massa.
Il giovane gentiluomo, prese l’amata e la condusse via rapidamente.
Un grido acuto ed altisonante pari al ruggito di un leone, si levò dalla gola del vecchio marito, che gridava: “A me Poitiers! Al portale, gente del conte di Saint-Vallier! Qui!”.
Egli, il conte Aymar de Poitiers, Sire di Saint-Vallier, cercò di sfoderare la spada e farsi largo, ma si vide circondato da trenta o quaranta gentiluomini che sarebbe stato pericoloso ferire. Anzi molti di loro, del più alto rango, lo schernivano con delle battute derisorie, mentre lo trascinavano verso il passaggio del chiostro.
Il rapitore, con la rapidità che solo l’amore sa infondere, condusse la contessa in una cappella di un suo amico canonico, dove la fece sedere.
Poi le disse: “Volete fuggire con me negli Stati vicini?  Ho qui, presso di me, due ginnetti (cavalli) d’Inghilterra che fanno trenta leghe in un sol tratto”. Ed ella, mestamente gli rispose che in nessun luogo del mondo, avrebbe trovato asilo una figlia del re Luigi XI. “E’ vero”, rispose il giovane, resosi conto della dura realtà.
Tra i due amanti ne seguì un dialogo durante il quale, lei lamentava i molti maltrattamenti, le molteplici minacce e le angherie che il suo vecchio marito quotidianamente le infliggeva e lo pregava di rivolgersi al re per denunciarne le sofferenze patite.
Udendo ciò, egli l’avvertì che nessuno, poteva parlare con il re, anche se lui era il nipote del gran maestro dei balestrieri, ma la rassicurò dicendole di rimanere tranquilla, perché il suo conoscente canonico l’avrebbe consegnata al marito, dicendogli di averla sottratta dalla confusione e di averla posta sotto sua protezione in quella cappella, aggiungendo che quella stessa sera, egli sarebbe andato da lei.
“E, come?”, rispose lei.
“Questa sera andrò ad offrirmi in qualità di apprendista a maestro Cornelius, il tesoriere del re. Mi sono procurate delle lettere di raccomandazione che mi faranno ricevere da lui.
La sua abitazione è vicina alla vostra, ed una volta ospitato in quella casa, con una scala di seta, che ho con me, saprò trovare la strada del vostro appartamento”.
La contessa, nel sentire nominare Maestro Cornelius rabbrividì dal terrore e lo pregò ardentemente di non scegliere quella strada.  “Ma come” disse, “non sapete che tutti i suoi apprendisti sono stati impiccati?”, riprese a dire ridendo il gentiluomo: “credete che i suoi tesori mi interessino?”
“Voi venite”, riprese a dire la contessa “e mio marito?”
 A questo punto, il giovane gentiluomo, tirò fuori tasca una fiala e disse: “lo faremo dormire”. “Non venite” le rispose la contessa ed aggiunse “il conte ha il sonno leggero”, “ah!”, esclamò il gentiluomo, “comandatemelo, lo ucciderò, signora”. Questa sera, mi vedrete.
 Subito dopo, giunse il paggio, suo amico che gridò “ecco il mio signore”.
Sorpreso dal sollecito sopraggiungere del conte, rubò un bacio che l’amante, non ebbe il coraggio di rifiutargli e fuggendo dalla cappella le disse “a questa sera”.
Favorito dall’oscurità, si dileguò attraverso la cattedrale, mentre un anziano canonico uscì dal confessionale, si pose accanto alla contessa, mentre il paggio si pose a camminare su e giù con importanza ed all’arrivo del padrone disse: “mio signore, la signora è lì”.
Il Sire di Saint-Vallier, trovò la moglie inginocchiata ai piedi dell’altare, mentre il canonico leggeva il Breviario.
Quando vide giungere il conte con la spada sguainata nella mano, gli disse: “cosa volete con quella spada?! Al ché la contessa disse: “Padre, il signore è mio marito” e rivolta al marito esclamò: “signore, dovete ringraziare questo reverendo canonico che mi ha dato ricovero qui”.
Il Sire di Saint-Vallier, impallidì per la collera repressa e di rimando rispose: “Grazie a Dio, Padre, avrò modo di ricompensarvi”. Poi prese la moglie per un braccio, fece cenno ai suoi ed uscì dalla chiesa.
Mentre la comitiva del Sire di Saint-Vallier, lasciava la cattedrale, addentrandosi tra i tortuosi e stretti vicoli dell’antica Tours, giunta al borgo di Choteauneuf, preceduta dal portafiaccole, dove aveva la sua dimora, in prossimità della Loire, dal campanile del sobborgo di Saint Martin, nella quale tutti i re di Francia furono dei semplici canonici, suonarono le ore sette di sera.
 Mezz’ora dopo, l’innamorato della contessa passò dinanzi al Palazzo di Poitiers, si fermò un minuto e senti nella sala a piano terra il rumore che facevano i familiari del conte, cenando.
Dopo aver dato uno sguardo alla stanza ove immaginava ci fosse la sua amata, passò oltre, oltrepassò lo stabile di fronte, dove erano rinchiusi i criminali di Stato ed ora titubante si trovava di fronte alla casa di Maestro Cornelius, che era adiacente a quella in cui alloggiava la sua donna.
Rimase assorto nel meditare su tutte le storie di cui era ricca la vita del proprietario di quella casa, che aveva
causato il terrore della contessa.
A quell’epoca, anche un uomo d’armi, tremava alla semplice parola: “magia”.
L’amante della contessa di Saint-Vallier, una delle figlie che Luigi XI aveva avuto dalla Signora di Sassenage, nel Dauphine, per quanto coraggioso potesse essere, doveva pensarci due volte prima di entrare in una casa stregata.
La storia di maestro Cornelius Hoogvorst, spiegava in maniera esaustiva la fiducia che aveva ispirato al Sire di Saint-Vallier, il timore manifestato dalla contessa e l’esitazione dell’amante.
Ma per far comprendere meglio, ai lettori del XXI secolo, come eventi banali ed insignificanti in apparenza fossero divenuti soprannaturali e per far loro rivivere il tenore del tempo antico è necessario dare un rapido sguardo alla vita ed alle avventure nefaste di maestro Cornelius.
Cornelius Hoogwost, ricchissimo commerciante di Gand, essendosi inimicato il benvolere di Charles, duca di Borgogna, aveva trovato rifugio e protezione alla corte di Luigi XI.
Il re di Francia lo accolse con piacere, in quanto sapeva molto bene quanto valesse ed i molti vantaggi che ne poteva trarre, conosceva i suoi rapporti con le principali Case di Fiandra, di Venezia e del Levante.
Quindi lo adulò, conferendogli un titolo nobiliare e lo naturalizzò.
Tra i due, nacque, una simpatia reciproca, perché entrambi erano astuti, diffidenti, avari, politici e di una cultura superiore alla media di quell’epoca.
Cornelius abitava a Tours da nove anni, durante i quali nella sua casa si erano verificati, degli eventi criminosi che lo avevano reso odioso alla popolazione del luogo.
Spese somme considerevoli, allo scopo di munire di difese le stanze del suo palazzo, che custodivano i suoi tesori, tanto da scatenare la fantasia della popolazione che attribuivano a maestro Cornelius, stanze ricolme di oro e gioielli, ottenuti grazie all’aiuto di poteri magici.
Aveva condotto con sé due valletti fiamminghi, una vecchia donna, che era sua sorella ed un giovane apprendista che assolveva le mansioni di segretario, di cassiere, di factotum e di corriere.
Già, nel primo anno del suo soggiorno in Tours, si verificò nella sua abitazione un furto considerevole di gioielli e preziosi.
Le indagini svolte portarono a far credere che il furto era stato commesso da un inquilino della casa.
Il giovane apprendista, già malandato in salute, morì sotto la tortura, pur protestandosi innocente.
I due valletti, sotto tortura, confessarono il crimine commesso, furono giudicati colpevoli e condannati all’impiccagione, ma quando il giudice chiese loro dove fosse il bottino, non seppero rispondere e quindi furono sottoposti nuovamente a tortura, condannati ed impiccati. Anche loro, però, andando alla forca, continuarono a dichiararsi innocenti.
 Poiché i poveretti erano Fiamminghi, l’interesse della popolazione fu di breve durata, in quanto in quei tempi di continue guerre e contese, il dramma del giorno seguente, faceva dimenticare quello avvenuto il giorno precedente.
Così, egli rimase solo a governare le sue ricchezze, sino a quando il re Luigi XI gli procurò un altro apprendista, nella persona di un giovane orfano, di buoni e sani principi.
Questi, si diede a servire maestro Cornelius con l’onestà del buon apprendista quale era, sino a che in una notte d’inverno, non scomparvero dalla stanza ove erano racchiusi, i diamanti, consegnati a garanzia dal re d’Inghilterra, per un valore di centomila scudi e di conseguenza i sospetti caddero sul misero giovane.
Il re, si dimostrò molto più severo nei confronti del derelitto giovane, questo perché, egli stesso lo aveva affidato, per la sua onestà a maestro Cornelius.
Di conseguenza lo sfortunato giovane venne impiccato, dopo un interrogatorio sommario fatto dal Gran Prevosto su incarico del re.
A questo punto nessun giovane voleva andare a fare l’apprendista in casa del maestro Cornelius, per timore di finire impiccato.
Ma ciò, non durò a lungo, in quanto due giovani di Tours, di sani principi ed in cerca di fortuna, si fecero assumere.
Nel corso del loro tirocinio si verificarono furti notevoli e le circostanze ed il modo attraverso il quale furono consumati, provarono nuovamente che i ladri non potevano essere che loro.
Divenuto sempre più sospettoso e vendicativo maestro Cornelius si rivolse quindi al re per avere giustizia.
Questi, incaricò il Gran Prevosto di procedere di conseguenza.
Il processo venne istruito e subito concluso.
Furono anch’essi impiccati e dopo quest’altra tragedia, il popolo di Tours si ribellò e così i giovani innocenti o colpevoli, passarono per vittime e maestro Cornelius per un carnefice.
Molti di loro sostenevano che il crudele avaro, imitasse il re che cercava di porre il terrore e le forche tra la gente e lui; che egli non era stato mai derubato e che quelle tristi e sconvolgenti esecuzioni erano il risultato di un freddo calcolo, volendo egli vivere tranquillo nella sicurezza dei suoi tesori.
L’effetto di questo vociferare fu l’isolamento di maestro Cornelius trattato come un appestato chiamandolo il “torturatore” e la sua casa la “Malacasa”.
Dopo tali eventi tragici, l’opinione più favorevole a Maestro Cornelius era quella di coloro che lo consideravano un uomo funesto.
Agli uni ispirava un terrore istintivo, mentre ad altri ispirava l’attrattività del mostro.
Su di lui, nacquero dei racconti che avevano del fantasioso e del fantastico. Egli rappresentava il male nella sua vera essenza, che come effetto produceva crudeltà e morte.
Dopo la morte del suo persecutore, il duca di Borgogna, egli si recava spesso all’estero e durante le sue assenze il re faceva sorvegliare dalle sue guardie Scozzesi l’alloggio del banchiere e se non ci fosse stato il potere di Luigi XI, alla più piccola occasione il popolo, avrebbe demolito la “Malacasa”.
Da due anni, maestro Cornelius viveva solo con la vecchia sorella, che passava per una strega.
Cornelius, l’eterno derubato temendo di essere ingannato dagli uomini, li odiava tutti, ad eccezione del re, che stimava molto.
Il suo attaccamento e la sua passione per l’oro, come in tutti gli avari, era l’assimilazione di questo metallo con se stesso, era divenuta sempre più intensa e che con gli anni cresceva sempre di più di intensità, tanto da poterlo paragonare, facendo un esempio comprensibile a molti di oggi, a zio Paperone, mentre fa il bagno nel suo oro, per come ce lo presenta Walt- Disney nei suoi fumetti.
Anche la sorella gli dava sospetto, sebbene fosse più avara di lui, perciò la loro esistenza aveva qualcosa di problematico e misterioso.
La sorella acquistava molto di rado il pane dal fornaio e la si vedeva così poco al mercato che gli osservatori più ostinati, avevano finito per attribuire a quei due esseri la conoscenza di qualche oscuro segreto per la conservazione della vita.
Gli alchimisti, ritenevano che sapeva fare l’oro e gli scienziati sostenevano che egli avesse trovata la panacea universale ed infine per i campagnoli, egli era un essere chimerico e la facciata del suo palazzo era divenuta una attrattiva per i molti curiosi che andavano a vederla.
Ora, tralasciamo per il momento le vicende della vita di maestro Cornelius e torniamo al prosieguo della missione amorosa intrapresa dal giovane gentiluomo.
Era il momento in cui le campane della città di Tours suonavano l’ora del coprifuoco, legge caduta in disuso ma che nelle provincie era rimasta ancora vigente, una luna piena illuminava la terra e quella luce bianca, illuminava in maniera sinistra i due palazzi, quello di Poitiers e quello della “Malacasa”, donando un aspetto ancora più lucubre a quest’ultima, rendendo maggiore forza alla superstizione esistente su quella dimora.
Seduto su una panca, prospicente i due palazzi, sedeva un giovane che vestiva i modesti abiti del popolano dell’epoca, mentre in effetti era il giovane gentiluomo, travestito così per introdursi nella casa di maestro Cornelius.
Egli aveva lasciato i fastosi abiti, con cui abitualmente vestiva, nel tentativo di essere assunto, quale apprendista in quella mortifera casa.
Era assorto a guardare quei due palazzi, riversando a quello di Poitiers, dove alloggiava il suo sospirato amore, le fantasticherie per la realizzazione e il coronamento del suo sogno d’amore, mentre guardando l’altro, veniva colto dal terrore, nel ricordare ad una ad una tutte le storie dei furti e delle impiccagioni dei giovani apprendisti che lo avevano preceduto nell’incarico.
Entrava a rischiare la vita, pur sapendo che l’avrebbe fatto.
Sapeva bene che nel caso in cui qualcosa sarebbe andata storta, entrando nell’abitazione di Cornelius, egli doveva spogliarsi del suo nome, come aveva fatto del vestito di nobiluomo.
Inoltre, gli sarebbe stato vietato di invocare i privilegi spettanti al suo casato e la protezione degli amici, a meno che non volesse rovinare per sempre la contessa di Saint-Vallier.
Meditava ancora sui rischi che correva il suo amore, perché sicuramente, se il conte avesse sospettato minimamente la visita notturna dell’amante, sarebbe stato capace di farla morire tra atroci tormenti, rinchiudendola in una gabbia di ferro nel fondo di qualche sua fortezza.
E guardando il misero stato nel quale si era travestito, ebbe vergogna di sé.
Ma mentre era assorto in quei tristi pensieri, improvvisamente si vide osservato da due vecchi e rugosi visi, illuminati dalla biancastra luce della luna, che lo spiavano da due feritoie poste al lato della porta di ingresso del palazzo della “Malacasa”.
Immaginando chi fossero, assunse una aria disinvolta e preso un pezzo di carta dalla tasca, si pose a studiarla.
Poi si diresse deciso la porta dell’usuraio e batté tre colpi che risuonarono all’interno dell’abitazione.
Una debole luce di una candela, passò sotto il porticato e da una piccola grata, uscì una voce che chiese: “chi è?” “Un amico mandato da Oosterlink di Bruges” rispose.
Attraverso una sequenza di domande e risposte, il giovane gentiluomo, disse di chiamarsi Philippe Goulenoire, che aveva con sé delle lettere di credito del suo protettore e che le consegnava attraverso una fessura di una cassetta di ferro a maestro Cornelius.
Questi, una volta accertatosi dell’autenticità delle lettere di credito fece entrare in casa il nuovo apprendista.
Quando lo ebbe fatto accomodare in una stanza, ove maestro Cornelius e la sorella, stavano cenando con un misero uovo lesso, nel quale a turno immergevano dei crostini di pane raffermo, questi d’improvviso gli chiese: “qual è il tasso degli zecchini di Venezia?” “Tre quarti a Burges, uno a Gand”, rispose il giovane e poi “quanto si paga il nolo sulla Schelda? “Tre parigini” fu la risposta. E poi “niente di nuovo a Gand ?” “Il fratello di Lievin-Herde ha fallito”. “Ah!” concluse maestro Cornelius che non fece altre domande, facendo così acquietare l’animo di Philippe, che tremava nel terrore di essere sottoposto ad altre interrogazioni.
Ben sapendo che non le avrebbe potuto conoscere, in quanto solo quelle risposte le erano state impartite da un Ebreo, cui egli in altre circostanze aveva salvato la vita.
Gli fu chiesto se avesse cenato, al che rispose di si, ma aggiunse che non conosceva nessuno a Tours e che pertanto non sapeva dove alloggiare per la notte per cui maestro Cornelius, lo condusse in una stanza, che poi era quella destinata agli apprendisti e si trovava sotto il tetto a punta della torre, nella quale si giungeva attraverso una scala a chiocciola ed era una cameretta rotonda, tutta in pietra, fredda e disadorna.
La torre dava sulla facciata interna del cortile, mentre in fondo, attraverso arcate munite di inferriate, si vedeva un misero giardino dove vi erano delle piante di gelsi.
Un lettuccio, uno sgabello, una brocca ed una sconnessa cassa costituivano l’arredamento. “Ecco il vostro alloggio”, disse maestro Cornelius, augurandogli la buona notte.
Rimasto solo, si diede spasmodicamente alla ricerca della stanza nella quale si trovava la finestra che dava su di una specie di selletta formata dai tetti del palazzo di Poitiers e della “Malacasa”, i quali a quel punto si congiungevano. Intanto nella ricerca di essa, ad un tratto vide maestro Cornelius, in vestaglia, con una lanterna in mano, gli occhi ben aperti e lo sguardo fisso sul corridoio e quando si trovò proprio dinanzi a lui, mentre egli si nascondeva dietro un angolo, Cornelius, borbottò vaghe parole ed una bestemmia in Olandese e fece dietro fronte.
Il giovane, allora finalmente libero dall’oppressione e dalla paura subita, ritornò   sui suoi passi e trovata la stanza con quella benedetta finestra, l’aprì pian piano e saltò sul tetto.
Poi iniziò, a   mezzo  della scala di seta, la discesa verso la casa dell’amata.
Non sapeva se Saint- Vallier fosse desto o addormentato, ma era certo che avrebbe abbracciato la sua tanto sospirata amante. Discese attraverso il fumaiolo, senza tremore, confidando nella sua buona stella.
Giunse infine a posare i piedi sulle ceneri calde, si abbassò e vide la contessa seduta su una poltrona.
Alla luce di una lampada, felice e palpitante, la timorosa donna gli indicò il conte di Saint- Valliera a letto a dieci passi da lei.
Silenziosamente si abbracciarono e si baciarono, questo fu l’epilogo del loro tanto avventuroso e movimentato incontro.
L’indomani mattina, verso le ore nove, nel momento in cui il re Luigi XI, usciva dalla cappella, dopo aver ascoltato la messa, si imbatté con maestro Cornelius.
Il re gli augurò una buona giornata, al che Cornelius lo pregò di dargli ascolto, in quanto aveva individuato il ladro della collana di rubini e di altri tesori.
“Avremo allora, un altro dei tuoi impiccati”, rispose il re, che seguito dai suoi più vicini collaboratori, si pose a sedere su di una panca che era posta sotto un albero e chiamò il Gran Prevosto. “Sire” riprese a dire Cornelius “un sedicente Fiammingo mi ha derubato dei gioielli dell’elettore di Baviera” e continuò dicendo che aveva le prove di chi fosse l’autore del furto, che egli aveva sotto custodia nella sua casa.
Ed aggiungeva: “questo perché sono salito alla camera dove avevo ospitato l’apprendista ed ho trovato per terra una vite della serratura, che egli per uscire, aveva svitato, ma nel rientrare, non essendoci più la luna, non l’ha potuta più ritrovare. Fortunatamente entrando, ho sentito una vite sotto il piede, il vagabondo dormiva e dorme ancora e le vostre guardie lo potranno trovare. Ha con sé una corda di seta ed il suo vestito è sporco di fuliggine che dimostra il percorso che ha fatto”.
Il re, udito ciò, rivolto al Gran Prevosto disse: “la cosa riguarda te, compare, va tu a sbrogliare quest’affare”.
Intanto il falso Philippe, esausto dalla stanchezza della notte precedente, dormiva profondamente, ignaro del pericolo cui andava incontro.
E mentre ancora sognava la sua amata Maria, si sentì afferrare da un braccio di ferro e la voce tuonante del Gran Prevosto gli urlò: “Suvvia, mio bravo Signor libertino, svegliatevi”.
Il brusco risveglio lo rese furioso e cercò di prendere il suo pugnale per difendersi, ma fu prevenuto dalle guardie che lo bloccarono
Venne riconosciuto dal Gran Prevosto che disse: “mi sembra di vedere George d’Estoteville, il nipote del Gran Maestro dei Balestrieri.
Condotto via dalle guardie, durante il tragitto, vi fu una parziale sommossa da parte del popolo, ormai stanco delle continue e ripetute impiccagioni dei miseri apprendisti di maestro Cornelius.
E mentre le guardie domavano la nascente sommossa, egli vide la contessa di Saint-Vallier affacciata alla finestra che gli gridava: “veglio su di te”. Queste tre parole, ridiedero al giovane, la speranza e con passo lieve si avviò verso il supplizio che l’attendeva.
Quando poi il triste corteo stava per lasciare la via du Murier, le guardie si fermarono alla vista di un ufficiale delle guardie Scozzesi, che veniva a briglia sciolta. “Cosa c’è?” domandò il Prevosto. “Nulla che vi riguardi”, rispose l’ufficiale. Il re mi ha incaricato di andare a prendere il conte e la contessa di Saint-Vallier, che ha invitato a pranzo.
Lungo il percorso che seguiva ben legato ad una cinghia che una guardia lo traeva a sé, egli vide passare il conte e la moglie, lei a cavallo di una mula bianca e lui sulla propria cavalcatura, seguito da due paggi, che avevano raggiunto gli arcieri e che ora entravano nel castello di Plessis-les-Tours, dove si trovava l’alloggio del re e le prigioni, dove era condotto il giovane.
Maggiormente egli si tranquillizzò, venendo portato nelle segrete del castello, mentre la sua amata ed il vecchio marito, giungevano alla presenza del re Luigi XI.
Ella abbracciando suo padre le disse di volergli parlare in segreto.
 Quindi il re, insospettito da tale richiesta, con una scusa allontanò dalla stanza da pranzo, in cui si trovava il conte di Saint-Vallier e rimasto solo con lei, questa le narrò delle sofferenze cui era stata sottoposta dal marito, sin dall’inizio del suo matrimonio, poi proclamò l’innocenza del giovane gentiluomo arrestato e così avvenne che quest’ultimo su ordine del re, venne liberato ed il marito, inviato a Venezia, quale suo ambasciatore.
Ma la lunga storia, non finisce qui, oh miei lettori, perché il re stesso volle prendere in mano le redini delle indagini, per scoprire chi fosse l’autore dei furti e che fine avessero fatto i gioielli ed i tesori, che maestro Cornelius aveva denunciato e per i quali molti apprendisti erano stati accusati ed impiccati. Si chiedeva inoltre, attraverso un calcolo preciso dove era finita la somma di centoventimila scudi che era stata rubata al suo compare Cornelius, per cui, munito da una scorta si recò nella “Malacasa”, per fare luce sulla triste farsa che si recitava in quella abitazione e per scoprire i segreti dei ladri.
Cornelius alla vista del re e dei suoi uomini armati, venne preso dal panico e domandò il perché della sua venuta.
 Al che, il re gli rispose sorridendo: “Compare mio, stà tranquillo, son venuto per trovare il colpevole”.                           Poi, si fece portare nello studio, dove Cornelius aveva riposto i tesori.     
Lì re Luigi, dopo essersi fatto mostrare la cassetta ove erano custoditi i gioielli dell’Elettore di Baviera, poi il fumaiolo attraverso il quale il presunto ladro, sarebbe disceso, convinse Cornelius, della falsità delle sue asserzioni, in quanto nel fumaiolo non vi era traccia di fuliggine, essendo stato acceso il fuoco solo raramente e la mancanza di altre prove che denunciassero il passaggio del presunto ladro.
Infine, dopo due buone ore di indagini compiute al re, risultò chiaro che nessuno avrebbe potuto introdursi per rubare il tesoro del compare.                                           
Non vi erano segni di effrazione all’interno delle stanze né sui cofanetti di ferro che custodivano l’oro, l’argento ed i pegni in preziosi che i ricchi debitori gli avevano consegnato.
A questo punto il re si rese conto che i furti che maestro Cornelius aveva subìto, erano stati commessi dallo stesso Cornelius o dalla vecchia e decrepita sua sorella.
Per cui si fece portare della farina che fece spandere in modo compatto sul pavimento, come a formare uno strato di neve; poi quando arrivarono all’uscio, chiese che la porta venisse rinchiusa e la chiave la tenesse Cornelius.
Infine il re fece venire Tristan, il Gran Prevosto, al quale ordinò di porre di notte in agguato qualcuno dei suoi, sulle grondaie della case vicine e di radunare tutta la scorta per recarsi al suo castello, onde far credere che egli non avrebbe cenato in casa di Cornelius, al quale chiese di chiudere le finestre e di preparargli un pasto alla buona, per non dare a credere che egli l’ospitasse durante quella notte.
In gran pompa uscì da quella casa, per farvi ritorno in segreto subito dopo poco tempo.
Un silenzio assoluto scese sulla “Malacasa”, tanto che ai passanti, sembrava disabitata, mentre il re, lì rimasto disse fra se sorridendo: “spero che il mio compare questa notte sia derubato”.
L’indomani mattina, re Luigi, levatosi alle prime luci, uscì dal suo appartamento e si diresse verso quello di Cornelius, ma rimase non poco stupito nel vedere, bene evidenziate sulla farina sparsa la sera precedente, delle orme di un largo piede per la scala e per il corridoio della casa. Esaminò la direzione dei passi, li seguì fino a che scomparvero e fu impossibile scoprire dove erano diretti. Incontrato maestro Cornelius, gli disse: “compare mio, sei stato derubato proprio per bene!”.
A queste parole il vecchio fu preso da un visibile spavento ed il re lo condusse a fargli vedere le orme sul pavimento, senonché mentre lo stava nuovamente osservando, dando uno sguardo casuale alle pantofole dell’avaro, si accorse che lasciavano uguali orme sul pavimento.                               
 Si rese immediatamente conto, che l’autore dei furti perpetrati sia negli anni precedenti, per i quali erano stati impiccati tanti innocenti, che a quello recente, altri non era che lo stesso maestro Cornelius.                                        Tacque e lasciò che l’avaro si dirigesse verso il suo tesoro ed una volta lì giunto disse: “mi manca la collana di perle, qui ci deve essere qualche stregoneria”.
Il re allora, resosi conto dell’apparente buona fede del suo tesoriere, fece introdurre nella stanza gli uomini che erano stati posti di guardia e chiese loro cosa avessero visto durante la notte.                                                                                 Al che il Luogotenente rispose: “un vero spettacolo di magia. Abbiamo visto il vostro tesoriere che è sceso come un gatto lungo i muri ed era così veloce che lo abbiamo preso per un fantasma”.
A tale accusa, Cornelius, rimase impietrito e dalla sua bocca uscì solo il proprio pronome personale “Io?”.                                                                                                 Il re, mandò via i suoi armigeri e rivolto freddamente all’avaro assassino così lo apostrofò: “tu meriti la pena di morte, hai almeno dieci giovani innocenti impiccati, sulla coscienza e visto il pallore diffuso sul viso dell’avaro, aggiunse: “ma rassicurati, sono del parere che è meglio svenarti che ucciderti. E così, versando una grossa ammenda a profitto dei miei risparmi, diciamo la somma di milleduecentotrenta e ottantasette scudi, ti salverai dalle grinfie della mia giustizia, ma se non fai costruire a tue spese almeno una cappella in onore della Vergine, sei bello e pronto per essere impiccato”.         
“Milletrecentodiciassette scudi sottratti” disse macchinalmente Cornelius.                
In quel frattempo, sopraggiunse il medico personale del re che gli raccontava l’accaduto. “Sire,” disse: “non vi è nulla di sovrannaturale in questa faccenda.
Il nostro avaro, ha la proprietà di camminare durante il sonno. I sonnamboli fanno i loro affari dormendo e poiché costui, non disdegna mai di tesorizzare, si è dato pian piano alla sua più cara abitudine, quindi rubava a se stesso e nasconde sempre nel sonno, i gioielli in qualche luogo della casa, che, egli nemmeno rammenta, in quanto quando si sveglia non ha alcun ricordo dei fatti e delle azioni”.      
 Senza portare molto a lungo il racconto,  giungo  all’epilogo di questa lunga storia,  narrando,  per quanto appreso dal testo,  che maestro Corneluis,  lasciò in eredità al re, tutti i suoi averi, che la vecchia e decrepita sorella, per lo spavento e la paura, morì nella circostanza in cui avveniva il precedente colloquio e di lì a pochi anni, morì anche maestro Cornelius, i cui ingenti beni vennero incamerati alla corona del re di Francia, che a sua volta dopo pochi mesi ebbe anche lui a decedere.
Ma i gioielli ed i tesori rubati e nascosti da Cornelius, non vennero mai più ritrovati, mentre il giovane gentiluomo Georges d’Estouteville e la contessa de Saint-Vallier, dopo che quest’ultima ebbe ad ottenere dal Papa Sisto Primo l’annullamento del matrimonio, si sposarono e vissero felici e contenti, per i restanti anni della loro esistenza.