La tragica fine di un giocatore d'azzardo

 

Il veloce trascorrere del tempo,che incide in maniera immutabile sulla vita di tutti gli esseri umani, la rimembranza di vecchie letture ed essenzialmente l’esperienza di vita vissuta, mi riportano alla memoria William Shakespeare, allorquando descrive con dovizia di particolari, nel quinto atto del suo dramma “ Amleto”, il colloquio intercorso tra i due becchini nell’interno del cimitero di Elsinore. Il perno centrale del loro discutere è quello “ se bisogna dare sepoltura cristiana anche a colei che ha cercato volontariamente la morte”, riferendosi al suicidio per annegamento di Ofelia, figlia di Polonio, ciambellano di Claudio, re di Danimarca, innamoratissima  del finto pazzo principe Amleto. Il colloquio verte sul principio della volontà di chi si uccide e che decide di propria coscienza di suicidarsi. Infatti il primo becchino così si esprime: “ Lasciami parlare; qui c’è l’acqua; bene. E qui c’è l’uomo; bene. Se l’uomo se ne va verso questa acqua e si annega, volere o volare, ci và. Sei stato attento? Ma se invece è l’acqua che va da lui e lo annega, vuol dire che non è lui ad annegarsi. Ergo, colui che non è colpevole della propria morte, non abbrevia la sua vita. Gli risponde il secondo becchino:” e questa sarebbe la legge? Al ché il primo replica: “ perbacco se non è; è l’inchiesta del giudice.. Nel corso del colloquio, entrambi concludono, “ che se la suicida non fosse stata una nobildonna, non avrebbero consentito a darle sepoltura cristiana. Il quinto atto del dramma continua e coinvolge il principe Amleto, che è giunto in quel luogo, per assistere, non visto dal re e dalla corte, alla sepoltura della misera Ofelia. E quando egli si fa consegnare dal primo becchino il teschio di Yorich, buffone di corte del regno, che egli ha conosciuto da fanciullo e dal quale era stato molto vezzeggiato ed amato, rivolgendosi al suo amico Orazio, paragona il teschio di Yorich con quello di Alessandro il Grande e così si esprime: “ Credi tu che Alessandro il Grande, sotterra, avesse anche lui questo aspetto? Ed  Orazio gli risponde: “ ma certo , mio Signore. Ed Amleto di rimando conclude: “ a quali umili usi possiamo essere ridotti, Orazio. La fantasia non potrebbe forse seguire il cammino della nobile polvere di Alessandro e scoprire che è servito a turare le falle di una botte.

Dopo aver menzionato pochi passi del grande filosofo e drammaturgo William Shakespeare, nei quali egli sanziona e definisce i termini della caducità della vita dell’essere umano. Egli attraverso l’analisi, passa ad eguagliare il teschio di Yorich, buffone di corte a quello di Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, che dal 334 al 323 a. C., dopo aver consolidato il potere Macedone alle frontiere e nella stessa Grecia, sbarcato nel 334 in Asia Minore, si impadronì di tutto l’Impero Persiano,  oltrepassò l’Indo e ritornato indietro con il suo esercito, formato da uomini,tutti valorosi ed eroici, attraversò un deserto aspro e difficile  andò a morire a Babilonia a trentatre anni d’età; passa infine per definire tutta l’umanità che cessa di respirare e muore, a polvere buona solo per concimare i fiori ed a divenire, mischiata all’acqua, il tappo per chiudere un barile di birra.

Considerato ciò e nell’incontrovertibile convinzione dell’assioma tanto evidente, che è la verità in assoluto per se stessa, quindi un richiamo alla realtà effettiva della materia, prima di passare innanzi con il narrarvi della tragica storia di un giocatore d’azzardo che assimilo a quel suicidio di Ofelia, avvenuto certamente per motivi diversi, desiderò esporvi la teoria dello spirito e dell’animo che in noi convive, secondo la quale, in effetti nulla muore e tutto esiste sempre; nessuna forza può annullare ciò che una volta era. Ogni azione, ogni parola, ogni forma, ogni pensiero caduto nell’Oceano universale delle cose, produce cerchi concentrici che vanno allargandosi sempre di più, sino a raggiungere i confini dell’eternità e ciò che facciamo in vita riecheggia per i secoli ed i millenni a venire. E questo sia di grande conforto e sostegno per tutti noi.

Ed ora passo a raccontarvi i fatti e vi dirò, come, quando, dove e perché ebbi ad esserne coinvolto, in virtù del Servizio e del Dovere che me ne derivava.

Come già  detto in altro mio precedente racconto, rivestivo un grado nella gloriosa Arma dei Carabinieri ed avevo le funzioni di Comandante di Squadra di Polizia Giudiziaria nella Pretura di un grosso centro abitato della Sicilia Occidentale. Svolgevo l’attività investigativa sui fatti delinquenziali che avvenivano in quel centro, allo scopo di assicurare alla giustizia i responsabili. Per tale motivo disponevo di un buon ufficio ed avevo alle mie dipendenze alcuni militari, che mi collaboravano nelle investigazioni.

Nelle tali funzioni trascorrevo le giornate della mia giovane età ed una mattina, come tutte le altre mattine, quel giorno del mese di dicembre del 1965, mi recai nel mio ufficio, dove trovai in attesa una guardia giurata del luogo, che mi informava che nelle prime ore dell’alba , nel fare un giro di ispezione nel bosco di eucalipti, sito nella parte Nord-Ovest della periferia del paese, zona collinosa da un decennio rimboscata a cura della Guardia forestale, aveva rinvenuto impiccato ad un ramo di un albero, un giovane di sesso maschile, dall’apparente età di 30-35 anni e che il luogo ove lo aveva rinvenuto, era stato da lui ispezionato e vigilato il pomeriggio del giorno precedente e che nulla vi aveva notato, per cui riteneva che tale gesto inconsulto compiuto dall’ignoto giovane, fosse stato portato a  compimento nella tarda serata del dì precedente o tutto al più nelle primissime ore che precedevano l’alba di quel mattino.

Appreso quanto riferitomi,comunicai telefonicamente l’accaduto al Vice Pretore, dato che il Pretore si trovava fuori sede ed informai anche il medico legale di tenersi pronto perché di lì a poco, un mio collaboratore lo avrebbe prelevato per i dovuti accertamenti medico legali da effettuare sul cadavere. Nel contempo avevo già inviato il mio collaboratore più stretto, l’Appuntato Sanfilippo, perché con l’auto di servizio prelevasse entrambi e  così dopo appena dieci minuti l’auto fu di ritorno e salito anch’io sull’automezzo, ci dirigemmo verso il luogo ove era avvenuto l’apparente suicidio.

Rammento ancora oggi, a distanza di svariati decenni, come quella giornata fosse grigia, plumbea ed a tratti scrosciava la pioggia, mentre nuvole sempre più gravide sembravano addensarsi oltre le colline, verso Nord- Ovest, dove eravamo diretti.

Poi apparvero i primi alberi del bosco che ricopriva la collina. Erano alberi di eucalipto frammisti a pochi pini da pinolo, cresciuti spontaneamente, circondati da rovi e sterpaglia ben alti. Scesi dall’auto ci incamminammo in un sentiero, preceduti dalla guardia giurata, che ci faceva da guida, giungendo così in una piazzola dove alto vegetava un albero di eucalipto, i cui rami più bassi distavano dal suolo circa un metro e ottanta centimetri. Intanto il vento che soffiava faceva stormire  i giovani  rami come anime in pena e da uno di quelli più bassi, penzolava il corpo dello sconosciuto presunto suicida, con il cappio di una corda che gli serrava la gola, mentre l’estremità era legata al ramo dell’albero.

Per terra, leggermente distaccato dai piedi del cadavere, vi era una grossa pietra, sulla quale, sicuramente in vita si era poggiato , per legare la corda al ramo, poi aveva fatto un nodo scorsoio e se lo era infilato dalla testa facendolo aderire alla gola ed infine allontanando con i piedi il masso, era rimasto appeso. Questo è quanto ne dedussi sulla dinamica dello svolgersi del suo suicidio.

Notai ancora che a poca distanza dalla pietra vi erano delle evidenti tracce di carte e documenti date alle fiamme, le cui ceneri, la pioggia ed il vento aveva nella gran parte disperso.

Mentre l’Appuntato Sanfilippo, eseguiva i dovuti rilievi fotografici sul cadavere e sulla zona immediatamente circostante ad esso, ebbi modo di osservare quel corpo penzolante, che sino a poche ore prima era stato un essere vivo, pulsante e pensante, capace di riordinare le sue idee, i suoi pensieri, i suoi sentimenti e di dirigere nel senso giusto o sbagliato per il suo modo di far valere le proprie azioni ed ora invece stava lì inerte e senza vita, a penzolare  con il viso cianotico, la lingua che gli spuntava tra le labbra semiaperte, le braccia distese e tutto il corpo, alto in vita metri uno e sessantacinque centimetri circa, che dondolava a secondo lo spirare del vento che a sbalzi si faceva sempre di più impetuoso ed ululante.

Sull’aspetto fisico del defunto, non intendo più indulgere nel descriverne  i suoi tratti somatici o l’espressione del volto, perché come  il filosofo e letterato Boezio, vissuto dal 480 al 526 d.C., giustiziato a Pavia dal re Teodorico, del quale era consigliere, disse: “ nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo nell’apparire dell’autunno”.  Ed interpretando il suo pensiero aggiungerei  che senso avrebbe oggi dire che aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi, quando ormai lui e molti altri di coloro che lo attorniavano sono ombre e polvere e della polvere il loro corpo ha ormai il grigiore della morte e che solo la luce dell’animo, risplenderà per sempre e non si spegnerà ma

Dopo che il medico legale ebbe constatato il decesso, il Vice Pretore, diede disposizioni perché il cadavere venisse rimosso da quella incomoda posizione.

Così, due operai di una Ditta di pompe funebri, giunta nel frattempo sul luogo, provvidero a tagliare la corda che lo legava al ramo dell’albero ed adagiarono il corpo nella relativa cassa che avevano portato per le bisogna.

Dalla perquisizione effettuata sui vestiti che il defunto coprivano, non venne trovato alcun documento di riconoscimento o altre carte che testimoniassero chi egli era, ma frugando bene nelle tasche dell’impermeabile che sopra i vestiti indossava , in una tasca interna, rinvenni una penna stilografica marca Parker con il pennino d’oro ed accartocciato nel fondo, un foglio di carta che una volta dispiegato riportava un massaggio d’addio che testualmente trascrivo:” Alla mia diletta moglie Anna ed ai miei due infelici figlioli Totò e Carmela, ai quali nel corso della mia vita coniugale, ho dato con passione e tenerezza, tutto il mio amore. Solo ora che mi trovo ad un passo dal liberarmi di questo mio ingrato, malsano ed infelice corpo, rivolgo il pensiero a voi, miei diletti, perché voi solo, siete stati color o che mi avete tenuto in vita sino ad oggi, divorato come sono stato dalla febbre del gioco che sin da ragazzo mi ha sempre accompagnato e dalla sfortuna che mai mi ha abbandonato. Solo il vostro pensiero mi ha allontanato per tanti anni dall’insano gesto che ora sto per compiere. Ieri, nel circolo di…………., ho davvero toccato il fondo. Infatti ho perduto ancora ed ancora, tanto da mettere in dubbio anche la vostra esistenza economica e sociale. Vi voglio un mondo di bene, vi abbraccio teneramente con tanto amore e vi chiedo umilmente perdono. Vi do la certezza che da lassù veglierò sul vostro avvenire, pregando il Signore che vi dia una lunga vita ed un migliore destino e quando sarà la vostra dipartita da questa terra malvagia e ciò avvenga il più lontano possibile, sarò lì in attesa aspettandovi, per poi condurvi, mano nella mano, con gioia a vagare felici nei sempre verdi prati dell’immenso al di là. Seguiva uno scarabocchio per firma e la data del giorno in cui egli venne ritrovato privo di vita.

Sul posto svolsi le prime indagini allo scopo di conoscere se egli appartenesse alla comunità del paese e da quanto risultò, avvalorato anche dal parere dell’esimio Vice Pretore e dal dotto medico legale, mi condussero a supporre con certezza che non fosse originario del luogo, per cui prelevai dalle mani del defunto, le impronte digitali, necessarie per la scheda segnaletica che di lì a poco, nel mio ufficio avrei compilata.

Dopo di che, con il carro funebre che ci precedeva, contenente il cadavere, facemmo rientro in paese  mentre il carro proseguiva per raggiungere la camera mortuaria del cimitero. Una volta giunto in ufficio, avviai le indagini per la scoperta dell’identità del defunto. Feci sviluppare d’urgenza le foto rilevate ed attraverso fonogrammi e fotogrammi diramai le ricerche a tutte le Stazioni Carabinieri dell’Arma e delle Questure dell’isola.

Trascorsero i giorni ed il silenzio incombente scendeva sulla vicenda, mentre gli accertamenti svolti in luogo, avevano dato un assenso negativo. Poi la mattina del quinto giorno successivo al ritrovamento, si presentò nel mio ufficio una giovane signora, aggraziata, minuta, dall’aspetto timido e riservato, accompagnata da due bellissimi frugoletti, l’uno maschio e l’altra femmina dell’età di quattro e otto anni, che le stavano attorno come due pulcini impauriti.

Feci accomodare gli stessi e chiesi il motivo della visita. Ella, allora, con gli occhi velati di pianto, tirò fuori dalla borsetta una copia del fotogramma che giorni prima avevo trasmesso ai Comandi dell’Arma e con voce tremante, interrotta da singhiozzi, che a stento riusciva a trattenere, mi disse che l’immagine della foto riprodotta, era quella di Rosario, suo marito.

Fu una scena straziante, che ancora oggi, a distanza di tanto tempo trascorso, mi sovviene alla memoria e rivedo davanti a me, quella giovane e graziosa donna di nero vestita, che singhiozzando si torceva le mani, malgrado, i due figlioletti, pure loto in lacrime, tentassero inutilmente di aggrapparsi a quelle mani, cercando, povere creature, nella loro mamma conforto e consolazione. Poi con il trascorrere dei minuti e con l’ausilio dei militari presenti, riuscì a fare ricomporre quella misera vedova e ad acquietare quegli infelici orfanelli.

Riconobbe la penna stilografica e la scrittura del foglio di addio che le consegnai, per quella di suo marito. E man mano che ella leggeva, nuovi singhiozzi la scuotevano tutta e con entrambe le mani stringeva al suo petto i due figlioli, che piangevano a dirotto. Infine dopo averla letta ed averla amorosamente baciata, con cura la ripiegò e la custodì gelosamente, assieme alla penna, nella borsetta. Quando poi si riebbe nuovamente rasserenata, provvidi ad accompagnare lei ed i suoi,   presso l’obitorio del cimitero, per il riconoscimento ufficiale del cadavere.

Durante il tragitto, sotto lo spruzzare incessante di una lenta pioggerellina, ebbe a narrarmi brevemente dell’amore che l’aveva legata a quel suo marito, tanto infelice. Così, appresi frammenti di notizie della sua adolescenza, di come aveva conosciuto ed amato il marito, dal quale aveva avuto i due figlioli; del demone del gioco che lo aveva sin da giovane pervaso, di come egli più volte alla settimana, si allontanava dalla famiglia, per recarsi nei vari circoli cittadini di mezza isola, dove egli sperperava nel gioco, le sostanze economiche, inizialmente ben floride, che i suoi genitori defunti, gli avevano lasciati in eredità. Come egli, aveva inculcato nella mente, il vizio del gioco della zacchinetta, del poker, del baccarà e di altri e di altri ancora , tutti d’azzardo,che egli espletava nei luoghi che abitualmente frequentava e da dove  usciva con le sostanze economico-finanziarie sempre di più assottigliate, in quanto la dea bendata il più delle volte gli era contraria.

Questa era stata la sua vera, dolorosa e piena di ansie Via Crucis, che aveva dovuta sopportare quotidianamente , sin dalle prime settimane della loro unione. A nulla erano mai serviti i pianti ed i rimproveri che ella gli rivolgeva ogni giorno. Egli, quotidianamente le prometteva che avrebbe abbandonato quel vizio nefando che maledettamente e letteralmente lo attanagliava e lo rendeva schiavo, ma non era mai riuscito ad uscirne fuori. Ella era sempre vissuta con il triste presentimento che una disgrazia del genere le sarebbe prima o poi capitata e rendeva grazie al Signore di essere una maestra di scuola elementare di ruolo, e ciò, le consentiva di sicuro di provvedere alle necessità dei propri figlioli, facendoli crescere sani e lontani mille miglia dai giochi di azzardo.

Una volta constatato il riconoscimento del cadavere, che avvenne nella desolata e triste sala dell’obitorio,illuminata elettricamente a giorno, presi congedo da quella gentile e sfortunata signora, augurando a lei ed ai suoi figli, pace e serenità per l’avvenire.

Ora giunto al termine del racconto, desidero fare delle riflessioni, che le Istituzioni ed il Monopolio di Stato italiano, da indignato quale sono, mi spingono a fare, considerato che il territorio nazionale, ai nostri giorni, è divenuto una bisca legalizzata a cielo aperto. Tanti anni fa,  al contrario di oggi, quando le bische clandestine venivano perseguite ed i giochi d’azzardo e le lotterie, erano legalmente illegali, lo Stato, inviava nelle fiere,nelle feste patronali e nei circoli privati, i suoi operatori di ogni organo di Polizia, perché queste sane e giuste leggi, venissero rispettate, in quanto adatte, a salvaguardare sia il singolo individuo che le famiglie dal degrado economico-finanziario, cui  andavano incontro,attraverso tali frequentazioni., oggi,invece è proprio lo Stato ed il suo Monopolio, che al solo scopo di riempire di maggiori entrate le sue casse o quelle dei suoi favoriti delegati a rappresentarlo, sempre più avide di maggiori guadagni, promuove mediante una caterva di giochi, macchine comunemente denominate “ mangia soldi “ o lotterie popolari, tipo “ Gratta e Vinci “ ed altri, che spingono i più poveri ad acquistare tali prodotti ingannevoli, privandoli il più delle volte anche del necessario. Inoltre, attraverso campagne pubblicitarie promuove giochi sempre d’azzardo on – line, attraendo i più deboli, come fa il ragno con la sua ragnatela, per attirare, milioni di individui che soggiogati dalla mania del gioco  e mossi dalla voglia di poter tentare di vincere, sempre di più giocano e man mano che si accaniscono, sempre di più perdono portando alla rovina se stessi e le loro famiglie, creando così sempre maggiore miseria e desolazione nella compagine di questo nostro infelice e mal governato Stato.

Ed ora alla maniera di quel narratore che vuole chiudere il suo racconto, concludo nell’esortare coloro che leggeranno queste mie poche righe , a tenere bene in mente quanto di quello sventurato giocatore,della cui violenta fine vi ho narrato, perché  sia di monito e di insegnamento, in quanto ritengo che la vita più semplice è, e più bella è da essere vissuta, lontana dal gioco d’azzardo o da altre anomalie, tipo la droga, che oggi impazza nei nostri quartieri e nelle nostre città al pari del  gioco d’azzardo.

 

Brindisi,01 marzo 2012.

 

Antonio TRONO