L’apporto dei partigiani Meridionali nella Liberazione delle città del Nord dalle orde Nazifasciste

L’Unità d’Italia, ha ormai compiuto oltre centocinquanta anni.
Nei precedenti racconti, ho narrato della vita, le gesta, la morte di quegli uomini, denominati “Briganti” che rivendicarono come propria¬, la terra d’origine, il re, la vita e la religione.
Questi racconti, perché vorrei tanto risvegliare, tutti noi, dal torpore profondo in cui siamo caduti da quell’ infausto giorno in cui, tra lo spargimento di sangue, venne compiuta l’Unità d’Italia.
Riportare alla memoria, con questo scritto, storie di uomini legati alla lotta al nazifascismo, sembrerà a qualcuno, una contraddizione, un non senso, al meglio, di difficile comprensione.
Il senso logico, è tutto dentro la convinzione che la memoria rimembrata, preservi i ricordi dall’oblìo.
Mi corre rammentare, alle giovani generazioni, che quegli uomini, dei quali ho narrato, sono la base e la consistenza del nostro vivere quotidiano, al pari delle migliaia e migliaia di partigiani meridionali che presero parte alla guerra di liberazione delle città del Nord dalle forze Nazifasciste, con la differenza che, mentre i primi lottarono sino alla morte per la difesa della propria terra meridionale, in favore della sovranità dell’Italia Patria, perché non venisse spogliata dalle sue notevoli ricchezze che hanno arricchito il Nord, lasciando il sud, come un deserto di desolante povertà, i secondi, hanno combattuto e difeso quel tanto allora odiato Piemonte, che aveva asservito gli avi, dalle orde nazifasciste, perché quanto avvenne oltre centocinquanta anni fa nel Sud, non si verificasse anche nel Nord.
Intanto, da quell’infausto momento storico, ebbe inizio il triste destino del Sud, in quanto l’agricoltura, una volta rigogliosa e fertile, venne abbandonata a causa della mancanza di mano d’opera giovanile, costretta ad emigrare chi in America e chi tra i più poveri verso quel Nord Italia che, arricchitosi con le sostanze usurpate, aveva aperto quelle fabbriche e quegli opifici con i macchinari trasferiti dal Sud verso il Nord, quali bottino di guerra, nei quali l’impiego dalla mano d’opera d’entrambi i sessi, principalmente meridionali era necessaria.
A tal proposito, significativo è l’episodio che viene rappresentato nel films “I compagni” di Mario Monicelli, ambientato attorno agli anni 1880, con la partecipazione  del  grande attore, Marcello Mastroianni, nella figura del  “professore di liceo”, disoccupato e sindacalista, specificatamente nel dialogo che si svolge tra un giovane piemontese ed una giovane siciliana, emigrata nei sobborghi fatiscenti di Torino, durante il quale, lui le dice: “prima che voi siciliani veniste qui in cerca di lavoro, la vita qui era più facile”, al che lei risponde:  “dice mio padre, che prima che voi piemontesi arrivaste in Sicilia, stavamo molto bene, perché voi ci avete impoveriti”.
Ora, a distanza di tanto tempo, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti della memoria, noi Meridionali, orgogliosi della nostra Storia, del nostro passato, che non vuole essere separatista, delle nostre tradizioni e dei nostri costumi che i nostri avi ci hanno tramandato, stanchi di rimanere al Nord a tempo indeterminato vediamo ridotta la “Questione Meridionale”, ad ingrediente per condire la retorica, tacitare e condizionare  ogni possibile via di sviluppo sociale, culturale ed economico del Meridione.
Non sopportando più l’alterigia e l’insolenza di quegli uomini del Nord, dai quali noi siamo sì diversi, ma non più mai divisi, con questo mio scritto, intendo rimarcare, affinché non vada smarrita la memoria, ricordando le migliaia e migliaia di partigiani meridionali che hanno combattuto ed offerto il loro sangue e la loro vita nella guerra di liberazione delle città settentrionali, i territori del nord, dalla furia omicida e devastatrice delle forze Nazifasciste.
In proposito, Claudio Dellavalle, Presidente dell’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza, e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti” in un suo saggio, affermava: “Nella storia della Resistenza piemontese è stato presentato a più riprese, in chiave evocativa il fatto che numerosi partigiani (tra i 6-7 mila) combatterono nelle formazioni partigiane e nell’insieme delle varie aree della Regione, sono nate e spesso cresciute nelle città e nelle campagne dell’Italia Meridionale e che il loro contributo non è certo di poca rilevanza sui processi che hanno portato alla nascita di una nuova Italia dopo il fascismo e la guerra. Alla Resistenza in armi parteciparono uomini provenienti da tutte le Regioni Italiane e nella quantità, quelle del Sud sono ben rappresentate, il che incide tra l’altro lo stereotipo del Meridionale poco o nulla toccato dall’impegno nella lotta armata al Nazifascismo, anche se il contributo alla Resistenza nel Nord dei combattenti meridionali non sempre a casa loro e specialmente nel Nord, ha avuto adeguato riconoscimento nel dopoguerra.
Tale presenza è certamente nota da sempre, ma le sue effettive dimensioni e le sue peculiarità, sono state per lo più trattate in maniera episodica ed approssimativa.
I Meridionali che diventano partigiani sono molto spesso, soldati o ufficiali, a cui l ’otto settembre toglie ogni possibilità di fuga verso casa e che per evitare la deportazione in Germania, entrano nelle bande partigiane, che vanno costituendosi nelle vallate del Piemonte, quando addirittura in maniera decisiva essi stessi alla loro nascita.
In altri casi si trattò di lavoratori emigrati da tempo più o meno lunghi nelle fabbriche della Regione e che troviamo ad un certo punto impegnati nella Sap e nella rete di supporto alla lotta che si sviluppa in tanti luoghi di lavoro.
Tra l’altro, alcuni dei partigiani meridionali assumono nella Resistenza piemontese, importanti funzioni di comando e godono di un ampio prestigio ed influenza. Basti pensare a casi come quelli del siciliano Pompeo Colajanni (Barbato) nella valle del Po e aree circonvicine o del calabrese Guido Nicoletta che comandò ad un certo punto la Resistenza in Val Sempione.
Le storie sono molte e diverse, ma rimane questo saldarsi di relazioni forti tra partigiani piemontesi e meridionali, che ha nel cruciale passaggio 1943¬-1945 e poi nel secondo dopo guerra, un suo peso indubbio sul rapporto Nord-Sud e pertanto sulla storia dell’Unificazione del Pese, e che vale la pena di richiamare ed anche quantificare con attenzione, in quanto il ricordo di essi va sempre più a diluirsi nel tempo, nella mente di coloro che del sacrificio di essi ne han beneficato.”
Ed ancora, Roberto Placido, Vice Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte in un suo volume dal titolo: “Il contributo del Sud alla lotta di liberazione  in Piemonte 1943-1945”, scritto con l’obiettivo di promuovere un’indagine sull’apporto di tanti giovani o meno giovani dell’Italia del Sud, che presero parte, con rischi e responsabilità diverse del Movimento di Liberazione, fa il punto sulla documentata ricerca che nel Nord, indica seimila partigiani meridionali, di cui mille calabresi.
Ed afferma, per come la Storia ci tramanda, che la Resistenza è stata vista come un fenomeno circoscritto al Centro-Nord del Paese, ma che riscontri tangibili hanno dimostrato ed evidenziato che, sono molto numerosi i meridionali che, partecipando alla Resistenza in Piemonte, hanno pagato prezzi elevati per quelle scelte e verso i quali il Paese ha un enorme debito di riconoscenza.
Non c’è l’imbarazzo della scelta, perché nelle formazioni piemontesi, entrarono molti giovani meridionali, di diversa estrazione sociale, di diversa formazione, in altre parole una parte significativa della migliore gioventù meridionale.
Il loro aggregarsi nel Movimento di Liberazione del Piemonte, è dovuto a due percorsi. Il primo è costituito da quei meridionali che vengono sorpresi dall’8 settembre 1943, mentre stanno svolgendo il loro servizio militare in Piemonte, da quando riescono a sfuggire ai tentativi di cattura da parte dei tedeschi, hanno due scelte: nascondersi o aggregarsi alle formazioni partigiane che si stanno costituendo.
Il secondo percorso riguarda i meridionali che sono già in Piemonte, o perché emigrati negli anni precedenti o perché nati in Piemonte da famiglie di meridionali immigrati, mal grado gli ostacoli frapposti dal regime fascista, i flussi d’immigrati dal Sud, un’anticipazione del massiccio esodo che si produrrà negli anni ’50.
Dei partigiani meridionali che combatterono per la liberazione del Nord-Italia, gli storici hanno censito 1266 pugliesi su oltre seimila, provenienti da tutto il Mezzogiorno d’Italia, direttamente coinvolti nell’attività resistenziale tra il settembre 1943 ed il marzo 1945.
La Puglia dopo la Sicilia fu la Regione del Sud con il maggior numero di partigiani caduti in combattimento, fucilati e deportati. Gli aderenti alla lotta di liberazione, originari della provincia di Bari, furono 505 (il numero più alto tra le provincie meridionali), subito dopo ritroviamo Foggia con 308, Brindisi con 146, Lecce con 134 ed infine Taranto con 111. Tra i residenti della Terra di Bari si contarono circa 20 donne, operaie, impiegate, casalinghe, provenienti da famiglie emigrate tra le due guerre mondiali da Barletta, Santeramo in Colle, Conversano, Canosa, Molfetta e soprattutto da Corato. Tra queste ultime, tre sorelle, Arcangela De Palma (nome di battaglia Emily), Antonietta (Nucci) e Luisa (Primula), la prima insegnante e le altre impiegate, tutte residenti in Torino che collaborarono con la Terza Divisione “Alpi Servizi X”.
Un gruppo consistente d’immigrati ebbe un ruolo rilevante nelle iniziative più rischiose, tra cui Dante di Nanni, Eroe Nazionale e Medaglia d’oro al valor militare (nato a Torino nel 1925, subito dopo il trasferimento della sua famiglia da Andria, che dopo una serie di azioni coraggiose nel cuore della capitale piemontese fu sopraffatto ed ucciso il 18 maggio 1944 nell’angolo di via San Bernardino (Borgo San Paolo), i fratelli Vincenzo ed Antonio Biscotti, originari di Pisticci, il primo Medaglia d’Argento al valor militare (nome di battaglia Mitra Uno), emigrato nel Biellese, che al comando della Brigata “Matteotti”, dopo un rastrellamento messo in atto da Tedeschi e Fascisti furono uccisi in combattimento nel febbraio 1945, presso Pollone (Biella).
Molti altri pugliesi, soprattutto militari, caddero in combattimento o furono deportati per rappresaglia in Germania, tra cui Giovanni Barbarosso, originario di Corato di Puglia, deceduto in campo di concentramento nel marzo 1944.
Dopo un lungo, appassionante e minuzioso dissertare sull’argomento, che sta molto a cuore di noi meridionali, ritengo che solo riportando il loro ricordo alla nostra memoria, possa essere compiuto, finalmente, un atto di giustizia nei confronti del Mezzogiorno d’Italia.
La storia, la vita e la morte di Angelo Colajanni detto “Nicola Barbato”.
 Fu sicuramente una fulgida stella nel firmamento della Partigianeria Meridionale che operò in Piemonte.
Nacque a Caltanissetta il 4 gennaio 1906 e morì a Palermo l’8 dicembre 1987. Fu un partigiano, un politico e un antifascista Italiano. Ufficiale di complemento divenne Comandante delle Brigate Garibaldine della valle del Po, distinguendosi con il nome di battaglia di “Nicola Barbato”, per capacità e combattività durante tutto il corso della guerra partigiana. Nella parte finale del conflitto divenne il responsabile generale delle formazioni Garibaldine dell’8^ Zona partigiana del Piemonte.
Avvocato, negli anni venti, antifascista convinto e militante del P.C.I. clandestino, si adoperò per la costituzione di una organizzazione nella quale si ritrovarono i giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti, per questa attività subì perquisizioni e venne arrestato.
L’8 settembre del 1943, era in Piemonte inquadrato nel Reggimento “Nizza Cavalleria”, come Tenente di complemento a Pinerolo, essendogli stato negato, per i suoi precedenti antifascisti il grado di Capitano.
Entrato in contatto con un gruppo di politici comunisti a Barge nella valle del Po, avevano costituito un primo nucleo di Resistenza, da cui avrebbero preso forma le Brigate Garibaldi del Piemonte con Ludovico Geymonali, Antonio Giolitti e Gian Carlo Pajetta, Colajanni si aggregò a questo gruppo con una parte dei militari del proprio Reggimento, contribuendo ad organizzare ed armare una delle prime formazioni partigiane attive, denominata Primo Battaglione “Carlo Pisacane”. Portò con sé in montagna una quindicina di membri del suo Squadrone di cavalleria, tra cui i Tenenti Carlo Conti ed Antonio Crua ed i sottotenenti Vincenzo Modica “Petralia”, Giovanni Latilla “Nanni” e Massimo Trani “Max” che divennero i suoi luogotenenti ed i capi delle formazioni Garibaldine piemontesi durante la Resistenza.
Attivo e popolare tra i partigiani Garibaldini, Colajanni, prese il nome di battaglia di “Barbato”, in onore del medico socialista Nicola Barbato, protagonista dell’esperienza dei Fasci Siciliani e guidò attivamente la lotta partigiana, esponendosi spesso direttamente nelle operazioni di guerriglia: Barbato divenne comandante della IV Brigata Garibaldi Cuneo e il 22 maggio 1944 assunse il Comando militare della Prima Divisione Garibaldi Piemonte.
Dopo aver resistito ad una serie di operazioni di repressione Nazifasciste in Val Varaita, nel marzo e luglio 1944, le formazioni Garibaldine di Colajanni mantennero la loro efficienza di combattimento e in parte vennero disperse a valle secondo la strategia ideata dallo stesso “Barbato” della “pianurizzazione”.
Con la crescita delle formazioni Garibaldine piemontesi e la costituzione di una seconda Divisione, Colajanni lasciò il comando della Prima Divisione Garibaldi Piemonte a Vincenzo Modica e divenne responsabile superiore dell’8^ Zona partigiana piemontese (Monferrato). Nell’aprile 1945, Barbato organizzò la marcia delle formazioni partigiane su Torino da varie direzioni, l’attacco ebbe inizio il 19 aprile 1945, con l’assalto delle formazioni di Modica contro il presidio fascista repubblicano di Chieri che venne sconfitto dopo uno scontro a cui presero parte anche reparti dell’’Undicesima Divisione Garibaldi e del Gruppo Operativo Mobile di Giustizia e Libertà.
 A questo punto la situazione divenne confusa per il tentativo del Colonnello Britannico John Stevens, Capo della locale Missione Alleata, di arrestare la marcia dei partigiani e favorire l’arrivo per primi a Torino delle truppe Anglo- Americane. Un falso messaggio del C.M.R.P. (Comitato Militare Regione Piemonte) venne inviato ai partigiani di Colajanni ordinando di sospendere l’irruzione nel capoluogo piemontese. Subodorando un inganno, “Barbato” invece, il 26 aprile diede ordine di continuare la marcia ed entrare a Torino, il 28 aprile 1945 i partigiani delle formazioni di Modica e Latilla entrarono in città dove, con la collaborazione degli Autonomi di “Mauri” e dei Giellisti, superarono la resistenza delle Brigate Nere e liberarono l’abitato. Colajanni, Vice Comandante dei C.M.R.P., dopo la liberazione venne designato quale Vice Questore di Torino.
 Pochi mesi dopo divenne sottosegretario alla Difesa nel Governo di Francesco Parri, e successivamente nel primo Governo di Alcide De Gasperi.
 Inviato subito dopo in Sicilia, divenne consigliere comunale di Palermo. Nel 1947 venne eletto Deputato Regionale in Sicilia per il Blocco del Popolo. Rimase per sei legislature sino a quando si dimise nel marzo 1969, ricoprendo anche la carica di Vice Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana. Fu eletto poi nel 1975 alla Camera dei Deputati a Torino, dove rimase sino al 1976. Il suo impegno politico durò sino alla morte, ricoprendo diversi altri incarichi.
 Nel giardino Inglese di Palermo, accanto ai caduti di Cefalonia è stato eretto un cippo in sua memoria sul quale è inciso: Pompeo Colajanni, Comandante “Nicola Barbato” 1906-1987, partigiano, contribuì alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti e al riscatto della Sicilia. Il comune di Grugliasco gli ha dedicato un Largo nel quartiere San Giacomo – Fabrichetta. Anche Torino gli ha dedicato una via nel quartiere Madonna di Campagna.
Nunzio Di Francesco nacque a Linguaglossa (Catania) il 3 febbraio 1924, deceduto a Catania il 21 luglio 2011, agricoltore, sopravvissuto alla deportazione a Mauthausen. Studente Universitario in Agraria, nel 1943 di Francesco, era militare di leva. Sorpreso dall’armistizio a Venaria Reale (Torino dove stava seguendo il Corso di Allievo Ufficiale, scelse subito di raggiungere le prime formazioni partigiane che, sulle montagne piemontesi andava organizzando il siciliano Pompeo Colajanni. Fu proprio il “Comandante Barbato” a dargli il nome di “Athos”, con il quale si batté contro i nazifascisti al comando di una squadra della IV Brigata Garibaldi sino a quando, nel dicembre del 1944 non fu catturato dal nemico, nei pressi di Brusacco (To). Deportato nel campo di Bolzano, dopo due settimane nel Blocco E, il giovane partigiano fu trasferito a Mauthausen, dove riuscì a sopravvivere sino a che, il 5 maggio 1945. Gli Alleati non lo liberarono. Tornato in Sicilia Di Francesco riprese l’attività di agricoltore, prendendo parte alle lotte sociali del dopoguerra nell’isola. E’ stato presidente dell’A.N.P.I. e Presidente dell’Istituto Siciliano per la Storia Contemporanea. Sino a quando ha potuto, come Consigliere dell’Associazione  Nazionale Ex Deportati, ha dedicato il suo poco tempo a raccontare agli studenti le ragioni che hanno portato tanti italiani a combattere il nazifascismo. E’ morto nell’età di ottantasette anni, lasciando un grande rimpianto.
Nicola Ficco, questo è il suo nome, nasce a Cerignola in provincia di Foggia il 2 gennaio del 1923.
La famiglia numerosa si trasferisce nel 1929 prima nelle vicinanze di Torino, a Nichelino e poi in città in Barriera di Nizza, un quartiere operaio sorto attorno alla fabbrica del Lingotto. A 19 anni Michele entra in fabbrica, alla Fiat, come tornitore e viene assegnato all’officina 19 della Mirafiori, dove è raccolta l’èlite degli operai di mestiere della grande azienda. Poco dopo venne chiamato alle armi come artigliere ed assegnato al 3° Reggimento di artiglieria celere nella caserma Baggio di Milano. Qui lo sorprende l’8 settembre e a fatica riesce a sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi che occupano la città.
Ecco come Egli stesso descrive la sua fuga dalla caserma per sottrarsi alla cattura: “Abbiamo scavalcato il muro di cinta e ci siamo dispersi per la zona. Alcuni amici di Gallarate mi avevano accompagnato a Domodossola, pensando a mia madre, sola a casa con diversi fratelli. Mio padre era sceso in Puglia a prendere le due figlie più giovani, ed era stato bloccato dalla guerra, al di là del fronte, con noi dall’altra parte, mia mamma con quattro figli, allora ero tornato a casa a Torino”. Michele rientra in fabbrica finché i bandi della Repubblica Sociale non lo chiamano a prendere servizio nel nuovo esercito fascista. Trascorso qualche tempo inattivo in caserma, decide di disertare e nel febbraio del 1944, attraverso un contatto della sua fabbrica sale in montagna tra le formazioni della Val Sangone, una Valle ad Ovest di Torino.   La banda di cui fa parte Morelli cresce rapidamente e avrà come comandante il Marchese Felice Cordero di Pamparato (il Campana), un ufficiale monarchico ed antifascista, che guiderà la Brigata fino alla sua morte per impiccagione a Giaveno il 17 agosto 1944. Il comando della formazione passerà al Comando del prof.re Universitario e medico, Guido Usseglio (il Profe) e come tutte le formazioni della Val Sangone avrà un’intensa attività militare per contrastare tedeschi e fascisti, che non potevano accettare che una valle vicino a Torino fosse controllata dai partigiani. Michele si distingue per coraggio e capacità così da assumere il comando di una delle cinque squadre della Brigata.  Il violento rastrellamento della fine di novembre 1944 costringerà le formazioni a scendere in pianura e suddividersi ed a mimetizzarsi. Michele rimane per un periodo in città nascosto in varie case. Ristabiliti i contatti si decide di spostare il grosso della formazione nel Monferrato, nel territorio di Chieri, dove la Brigata si riorganizza, cresce di numero e per l’attività del Comandante Usseglio si costituisce in Divisione legata a Giustizia e libertà.
 La nuova formazione che prende il nome di Campana in onore del suo primo Comandante, partecipa alla liberazione di Torino, occupando in centro la sede del Fascio, il Palazzo che da allora sarà per tutti Palazzo Campana e che diventerà la sede dell’Università nota pe le vicende del Movimento Studentesco Torinese nel ‘68. Michele riprenderà il suo mestiere in fabbrica finché verrà chiamato in seguito ad una vicenda che aveva coinvolto un suo partigiano, dal Questore di Torino, Giorgio Agosti, a svolgere attività presso il gabinetto della Questura. Riprenderà gli studi e infine si dedicherà ad attività commerciali, mantenendo sempre i collegamenti con i compagni di quella che era stata per lui una scelta di vita.
Pietro Parisi, nato a Cisternino nel 1924, contadino, partigiano con il nome di battaglia “Brindisi”, lottò nella Brigata Garibaldi dal 1°novembre 1943 al 7 giugno 1945, del quale riporto la sua verbale testimonianza: “Avevo 19 anni quando fui chiamato alle armi per combattere una guerra di cui non capivo né il senso e né lo scopo. Tralascio di ricordare le formalità comuni a tutti i soldati, vi racconterò i fatti così come si svolsero a partire dall’8 settembre 1943, giorno passato alla Storia come data che segnò l’armistizio tra l’Italia e gli Anglo-Americani. La mia istruzione era ed è molto limitata: il fascismo non consentiva ai figli delle famiglie povere di frequentare la scuola. L’unico esempio luminoso che resta nella mia memoria è quello di mia madre, donna coraggiosa e piena di intuito. Lei aveva capito cosa era il fascismo, io ancora no, per ciò il mio racconto non potrà essere forbito e formalmente corretto, ma la sostanza dei fatti è quella che conta. Quell’8 settembre in tutta la caserma, fra tutti i militari la confusione fu enorme. Soldati sbandati spesso prendevano decisioni personali, ma altrettanto spesso finivano per cadere nelle mani dei tedeschi che li deportavano in Germania. Sarebbe stata anche la mia sorte se non mi fossi deciso a nascondermi ed a vivere di espedienti aiutando i contadini nei loro lavori. Ma non dovevo soltanto guardarmi dai tedeschi perché anche i fascisti ci braccavano e talora ci prendevano con l’inganno per consegnarci ai tedeschi. Dall’Astigiano dove in un primo momento mi nascosi, passai nella Valle d’Aosta dove cominciò la mia vera e propria azione partigiana.
 Svolgevo col nome di battaglia “Brindisi” il ruolo di staffetta, presto rivelai delle qualità insospettate tanto che mi proposero di fare il Comandante della 17*Brigata Garibaldi, incarico che io decisamente rifiutai. Il nostro compito era quello di tenere a bada i fascisti e i tedeschi, aspettando l’arrivo delle truppe regolari con le quali operare la definitiva liberazione dell’Italia. Le nostre azioni quotidiane consistevano nel procurarci le armi, sottraendole ai tedeschi, nel rifornire i viveri ai compagni che in montagna organizzavano imboscate al nemico. Tra gli altri episodi mi ricordo uno in particolare: la Guardia di Finanza aveva multato alcuni contadini e custodiva in Caserma gli avvisi che sarebbero stati presto recapitati per la riscossione. La nostra Brigata assaltò la caserma e bruciò quegli avvisi liberando dal pagamento quei contadini che spesso ci avevano rifornito di cibo durante la nostra permanenza in montagna, dove dormivamo allo scoperto, spesso sulla neve. Quando giunsero le truppe regolari, noi potemmo congiungerci a loro, liberare definitivamente l’Italia e grazie alla nostra opera di partigiani potemmo riscattarci da una sicura condizione di umiliazione e ottenere il riconoscimento dell’apporto decisivo e determinante alla ricostruzione dell’Italia democratica che di lì a qualche anno doveva trovare la sanzione nel primo articolo della Costituzione Repubblicana”.
Questa è la storia del nostro partigiano Pietro che con il suo
attraversare  l’Italia, salire sulle montagne e farsi partigiano con il nome di battaglia “ Brindisi”.
La sua storia ci ha fatto capire il vero significato del senso dell’onore che lo ha sostenuto. Ed è questa sua Onorabilità, che non dobbiamo mai dimenticare, anzi abbiamo il dovere di ricordare. Perché ricordare è veramente il modo di affrontare il passato, ma è anche certamente un modo di affrontare il futuro. Dopo questo mio lungo e faticoso pellegrinare tra le pagine della Storia, nella ricerca e nella certezza di illuminare di luce propria, gli uomini che l’hanno scritta con il proprio sacrificio,  offrendo la propria vita, vorrei riaffermare la  concretezza di un pensiero nella stretta ed intima convinzione che quel legame indissolubile e di quella affinità, che ha in comune il sangue versato, di quei Patrioti, denominati “Briganti”, nella loro veste di difensori dagli invasori della Loro e nostra terra d’origine e dei partigiani Meridionali che lottarono e versarono il loro sangue per liberare dalle Forze nazifasciste, proprio quel territorio, che a suo tempo aveva invaso il nostro, che unito a quello, da oltre 150 anni è unico territorio Nazionale per noi tutti.
 Mi sia consentito, però, di fare una osservazione in forma di domanda: “di quali e quanti benefici, noi Meridionali, abbiamo usufruito, dalla tanto decantata Unità d’Italia?”
 Nessuno, mi verrebbe di sostenere se, l’unificazione ha solo apportato maggiore miseria e povertà che col trascorrere del tempo ha accumulato sul nostro destino  arretratezza sociale, economica e culturale. Non dal lettore, mi aspetto la risposta! Ma, perché non rimanga la bocca amara, dulcis in fundo, volendo riconoscere un valore alla storia dei tanti sacrifici sostengo che ricordare sia una missione, per mantenere viva la memoria.
I caduti di quegli anni terribili, colmi di sangue e di tanto onore; di alti ideali e di vita offerta in sacrificio non devono essere sepolti una seconda volta, sotto la polvere del tempo.

 

Brindisi,18 maggio 2016.   

 

Antonio TRONO