La casa del figlio sucida

 

di Antonio Trono

 

Sono stato sempre troppo frettoloso, troppo impaziente e sempre ho incontrato qualche intoppo, qualche titubanza. Sempre ho dovuto lasciare le cose a metà. Ma ha dire il vero chi non è frettoloso, impaziente, quale vantaggio gliene è venuto? Il grande buio, è divenuto meno buio? Le domande senza risposta, sono divenute forse meno enigmatiche? La disperazione per l’eterna irraggiungibilità delle cose, è divenuta forse meno dolorosa? La vita si è lasciata prendere e cavalcare nella stessa maniera di un docile cavallo?

Non è forse tutto, invece, come viaggiare su di un pallone aerostatico che ci trascina nella tempesta e se si sbaglia nel manovrarlo, ci scaraventa sulle cime aguzze di un monte? A volte mi pare di avere davanti una voragine che scende sino al centro della terra.  Che cosa si libra in questa voragine? La nostalgia? La disperazione? La felicità? La stanchezza? La rassegnazione? La morte? Perché mai vivo? Perché vivo? Sì, vivo per ricordare. Vivo per rammentare i miei primi anni di infanzia, quando assistetti inebetito alla comparsa nella mia famiglia del primo caso di morte di un mio amato congiunto. Ricordo ancora oggi, a distanza di tantissimi decenni, cosa subentrò nel mio animo di fanciullo. Venni avvolto da un misto di curiosità, orrore, raccapriccio o di qualche cosa d’altro al quale, ancora,  non so dare il nome che avvampò nel mio animo, quando vidi per la prima volta la salma.

Avevo sette anni, il morto si chiamava Luciano Varratta, era il mio nonno materno e fino a pochi giorni prima e cioè, sino a quando un tremendo male ebbe a colpirlo, ero stato da lui accarezzato, ripreso ed amato, secondo il modo di comportarmi con lui, con mia madre e con il mio fratellino; ed ora giaceva tra fiori e corone, come una cosa di cera gialla, indicibilmente estranea, che non aveva più niente a che fare con noi. Se ne era andato, che era stato assorbito da una eternità inimmaginabile, e che tuttavia restava fra noi come una minaccia gelida e muta.

In seguito, nel corso del mio Servizio, avrei visto molti altri morti, tanto da perderne il conto; ma questo primo morto non l’ho mai dimenticato, come non si dimenticano mai le cose che sono state “le prime”. Esso è rimasto per me, la Morte.

Strano. Penso, eppure quotidianamente i mass-media ci propinano decine e decine di morti ammazzati, per incidenti stradali o altro. Nelle varie parti del mondo stragi a non finire o come nel recente naufragio della Costa Concordia, per cui si sono contate diciotto vittime,  i cui corpi sono stati sottratti alla insaziabile sete di morte del mare e altre diciassette persone sono state dichiarate disperse e i loro corpi si trovano ora a marcire nei più profondi comparti dell’immensa nave, pur  nella assurdità dell'episodio, incidono nella società tanto quanto un temperino. Quando la morte si nomina con l'elenco di innumerevoli vite andate via, come per l’ultima guerra mondiale, con i suoi undici milioni di morti dei quali, sei milioni solo di Ebrei, massacrati per il volere ed il potere di un solo uomo maledetto, Hitler. Come le altre centinaia di migliaia di morti che si contano nelle varie guerre succedutesi sino ai mostri giorni, tutti ridotti a fatto statistico, vivono nella indifferenza più assoluta ci limitiamo ad  annotarne mentalmente. I milioni di morti sembriamo averli dimenticati! Deve essere perché un morto è la  Morte ed i milioni di morti, non sono e non possono mai essere altro che un dato statistico.

Proprio perchè la morte di una persona, sconvolge, è capace di cambiare il corso della vita a venire di chi la testimonia, vorrei narrarvi, della morte per suicidio alla quale, mio malgrado, fui costretto dal Servizio che prestavo, a costatarne l’evento.

Intendo raccontarvi, dove, perché, come e quando avvenne.

Intendo porre per iscritto l’angoscia ed il tremore che allora, giovane, provai nel constatare quello atroce delitto, il suicidio di un ragazzo imberbe, povero e miserando che non aveva ancora compiuto i suoi sedici anni e proprio allo sbocciare della sua vita, pur di sottrarsi alla sua quotidianità disperata di servo-pastore, cui il padre-padrone, l’obbligava a sottostare, preferì privarsi del bene più prezioso, la vita, pur di liberarsi dalla ingiusta e malsana schiavitù che lo dominava.

Giovane Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, ero stato inviato in quel paese, posto nell’entroterra della Sicilia Occidentale, con la funzione di Comandante della Squadra di Polizia Giudiziaria della Pretura del luogo.

Si trattava di un grosso centro abitato, dove la vita scorreva normalmente, tra pregi e difetti, i soliti di ogni popoloso centro abitato.

Dopo qualche mese di permanenza, percepii nettamente la sensazione che quel paese fosse come tutti gli altri. Le persone erano tutte uguali e variavano solo dall’aspetto esteriore, il che non aveva alcuna importanza. Leggevo nei loro volti come era presente la ipocrisia e come si manifestasse. Come l’inganno fosse protagonista e l’avidità non si saziava mai ed il crimine era incapace di produrre alcuna virtù.

Trascorrevo le mie giornate lavorative nel ricevere denunce di furti, di abigeati, di pascoli abusivi, querele di lesioni personali, di risse, di maltrattamenti in famiglia e di altre soverchierie  che rendono movimentata  la vita di ogni paese, perché questa è la maniera di vivere dell’uomo ad ogni latitudine.  Al pari di un noioso moscone che ti svolazza sempre intorno e non ti da mai tregua sin quando non riesci ad ucciderlo, nella sua quotidianità l’uomo, non riesce mai a stare tranquillo e si crea o tanto peggio crea agli altri, fastidi che il più delle volte diventano danni irreparabili.

Giunta la sera e libero dal Servizio, stanco dai sopralluoghi effettuati, dalle denunce ricevute, dalle esortazioni alla calma sostenute per porre la pace tra i vari contendenti, in lotta perenne tra loro, mi concedevo una passeggiata nella piazza del paese, abitualmente in compagnia del Vice Pretore e primario del reparto maternità del locale Ospedale. Nutrivo stima ed affetto per loro e con i loro, i miei pensieri collimavano perfettamente. Conoscevo altresì un altro giovane, Mario, di qualche anno più anziano di me, con il quale di tanto in tanto mi intrattenevo, poiché mi forniva delle notizie sulle persone del luogo ed a volte mi informava di fatti delittuosi che stavano per avvenire nel paese, i cui responsabili di volta in volta, riuscivo ad assicurare alla Giustizia.

Salvatore, un  pastore che possedeva un gregge di oltre cento pecore, che accudiva con Benedetto suo figlio quasi sedicenne. Possedeva altresì un appezzamento di terreno di circa due ettari, coltivati a seminativo con qualche raro albero di olivo saraceno ed una trentina di alberi di mandorlo. Lungo la maggior parte del confine, un filaro di fichi d'india, separava il campo dagli altri terreni circostanti. Il suo campo non era mai abbastanza sufficiente per sfamare il gregge, per cui era costretto, quando la stagione secca puntualmente ogni anno arrivava, a fare pascolare le sue pecore su terreni altrui. Dal carteggio in possesso del mio ufficio, nessuna denuncia di pascolo abusivo a suo carico, era stata mai presentata.

Nel suo umile ambiente era stimato come un uomo onesto, benché come molti della sua categoria nel paese, fosse alquanto dedito al bere. Ma  questo suo vizio, mai lo aveva coinvolto in risse o alterchi tra ubriachi. Era vedovo. La moglie era deceduta da pochi anni e dalla data della sua dipartita, aveva preso l’abitudine, alla sera, dopo aver accudito assieme al figlio il gregge, di trascorrere un paio di ore in una bettola del paese, intento al gioco di “padrone e sotto”, che consisteva nel proclamare attraverso la vittoria delle carte da gioco in possesso di ognuno,il capo ed il sottocapo,nella distribuzione del  vino o della birra ai partecipanti.

A gioco ultimato, avvinazzato come era, faceva rientro nella propria casa, posta nell’estrema periferia del paese, dove sfogava la sua iracondia provocata dall’eccesso di alcool sul figlio Benedetto.

Avevo avuto modo di conoscere quel ragazzo, per essermi intrattenuto con lui nel corso dei lunghi giri di perlustrazione effettuati per conoscere attentamente i luoghi e le persone che risiedevano nella giurisdizione della Pretura.

Era un bel ragazzo, alto, snello, robusto e con un sorriso aperto, simpaticissimo ed alquanto intelligente. Soltanto che sorrideva troppo di rado; aveva perennemente un’aria imbronciata, direi quasi offesa, come se gli fosse stato fatto qualche grande torto, e come se si sentisse odiato da tutti. E ciò, non era vero, perché con il tempo constatai che gli altri suoi vicini gli volevano bene. Vestiva di stracci, con una serie di maglie  e camicie infilate le une sulle altre nei pantaloni ristretti nella vita da una cordicella che gli serviva da cinghia.

Lo vedevo sempre trasandato mentre circondato da alcuni suoi cani pastori, conduceva da solo il suo numeroso gregge per la campagna.

Mi torna vivido alla memoria  il ricordo di una sera del mese di ottobre dell’anno 1963. Mi trovavo a  passeggiare nella piazza del paese assieme a Mario, quando venni avvicinato dall’Appuntato Giuliano Sanfilippo, elemento molto esperto e perspicace  negli atti di Polizia Giudiziaria e mio stretto collaboratore, che in maniera alquanto sollecita mi comunicava che pochi minuti prima si era presentato in caserma il pastore Salvatore, che con fare concitato, aveva denunciato che nel fare rientro in casa, giunto all’ingresso della stessa, era stato affrontato dal proprio figlio Benedetto che puntandogli contro le canne del fucile da caccia, da lui regolarmente detenuto, dopo aver esploso un colpo d’arma in aria, lo aveva minacciato di sicura morte se si fosse permesso di entrare nell’abitazione familiare. Subito dopo si era barricato dentro, rifiutando in maniera categorica di ascoltare le sue preghiere di riconciliazione e di assistenza, per cui temendo che il figlio potesse commettere su di sè o nei suoi confronti, un insano gesto, chiedeva urgentemente l’intervento dell’Arma. Mi posi immediatamente all’opera. Rientrato subito in caserma, seguito da Mario, che aveva tanto insistito nel volermi seguire e dal Sanfilippo, brevemente mi feci raccontare dal pastore,

quanto era avvenuto tra lui ed il figlio. Dopo di che, detti disposizioni al militare di servizio alla caserma, di intrattenere il denunciante e con altri tre militari, racimolati nelle camerate di servizio, armati da armi lunghe, e con Mario ed il Sanfilippo, a bordo della Fiat campagnola, auto di servizio di dotazione, mi allontanai per raggiungere l'abitazione del pastore, la cui ubicazione già conoscevo, dove Benedetto si era rinserrato. La casa in questione era situata a circa tre chilometri di distanza dal centro abitato e posta nell’aperta campagna all'estremità opposta del paese dove era sita la Stazione dei Carabinieri, stanziata in un vecchio convento, con chiesa adiacente sconsacrata. E fu proprio nel salire sulla “campagnola “, non ne  so dire il motivo, che rivolsi gli occhi verso l’alto e mi accorsi che il cielo man mano si stava annuvolando  e la notte si faceva sempre più buia con qualche raggio di luna, che di quando in quando si faceva strada fra gli squarci delle nuvole pesanti che attraversavano veloci il cielo. Tale cambiamento repentino della volta celeste, portò il mio pensiero, la mia immaginazione e la mia intuizione, da giovane insensibile e pragmatico quale mi consideravo, a ritenere che qualcosa di grave e di imponderabile stava per accadere.

Sollecitai l’autista dell’automezzo ad accelerare l’andatura, malgrado attraversassimo le vie del centro abitato e fu così che dopo appena cinque minuti giungemmo nei pressi della casa di Salvatore. Feci fermare l’auto sulla “ trazzera”  a circa cinquanta metri di distanza ed in silenzio ci avvicinammo. Malgrado avessi preso questa precauzione, i cani posti a guardia del gregge, custodito nell’ovile, accanto alla costruzione, da subito avevano iniziato a latrare, per cui a nulla era servito il mio tentativo di sorprendere Benedetto. Ci avvicinammo alla porta d’ingresso e nel mentre ad alta voce mi qualificavo e con tono  persuasivo tentavo di convincere il giovane Benedetto ad aprire la porta, tranquillizzandolo che nulla gli sarebbe accaduto e che sicuramente sarei riuscito ad imporre a suo padre di trattarlo umanamente come ogni buon padre deve trattare il proprio figlio, una esplosione tremenda provenne dall’interno, tanto da farci rimanere per pochi attimi interdetti ed immobili. Il senso del dovere prese il sopravento e mi riscossi ed in un batter d’occhio, sfondammo  la porta  ed uno spettacolo allarmante ed agghiacciante ci si parò davanti.  Fui il primo a penetrare nell’interno. Tralascio di descrivervi l’aspetto esteriore dell’immobile che a causa del buio e dell’immediato svolgersi  dei fatti non mi fu possibile annotare. La stanza in cui entrai, illuminata dalla luce del faro portatile che portavo al seguito, aveva il soffitto alto ed era illuminata di giorno da due polverose finestre. Il mobilio spoglio e primitivo come non mai, suggeriva si trattasse di una specie di soggiorno, essendovi una lunga tavola circondata da diverse sedie ed un grande camino, nel cui centro vi era una grande pentola, poggiata su un tripode, sicuramente necessaria per la produzione di prodotti caseari. Quello che mi impressionò maggiormente di quel luogo, fu l’atmosfera di uniforme sporcizia che si dispiegava in ogni particolare visibile. Poi correndo e seguito dai miei militari, attraversai un'altra porta posta nel muro prospiciente all’ingresso e penetrato in altra stanza dove fu davvero orribile la visione di quello che mi si presentò dinanzi, e dire che all'orrore ero abituato. Uno dei miei uomini, riuscì a girare l’interruttore della luce elettrica. E  lo strazio spaventoso e sinistro si manifestò in tutta la sua bruttura. Nella stanza vi era un letto matrimoniale, un armadio, delle sedie ed un lettino posto lateralmente sulla parete destra rispetto a chi entrava e proprio su quel lettino, giaceva il corpo posto di sghimbescio  e senza vita dello sventurato Benedetto. Si era esploso il secondo colpo rimasto nel fucile diritto al cuore ed una vasta macchia di sangue che ancora si allargava, gli giungeva sino al ventre, mentre l’arma, dalla quale egli aveva esploso il colpo, era scivolata ai suoi piedi, ormai inoffensiva e vuota.

Allibito e sconcertato, mi posi di fronte al cadavere e lo osservai in silenzio, senza risolvermi a muovermi di lì, né a mandare un militare per richiedere l’ambulanza o quanto meno l’arrivo di un medico o del Pretore.

Non riuscivo a dare un senso logico a quel suicidio, a parte le angherie subite da parte del padre e volevo capire perché quel ragazzo imberbe si era tolta la vita, aveva frantumato i suoi sogni, negato il suo crescere, troncato di netto l’amore per la vita, per le donne che non aveva mai conosciuto e che sublima l’uomo, frantumato invano quell’amore per la natura e per gli animali che egli ogni mattina conduceva contento al pascolo, negata l’amicizia per gli altri esseri suoi simili, annullato in maniera rapida e feroce il suo universo.

Questo è quello che mi inchiodava dinanzi a quel cadavere. Ero sconcertato, direi arrabbiato con la società intera. Guardando quel corpo non ancora sbocciato alla vita, ma tristemente ed inesorabilmente senza vita, mi apparve chiaro che niente era più particolare della sua figura fisica. Lo vidi nella sua  posizione rannicchiata, ancora alto per la sua età, conservava le membra regolari ed i lineamenti floridi e la carnagione ancora sanguigna, per chi come lui era abituato a vivere all’aria aperta e tanto solare. La bocca era larga ed a me parve che si atteggiasse ad una espressione di un sorriso, sebbene conservasse quel taglio profondamente malinconico di una incessante ed invariabile tristezza. Aveva gli occhi grandi e rotondi rivolti verso l’alto e furono quegli occhi mi diedero la risposta al perché di quel delitto. Quegli occhi rivolti al cielo e quella sua espressione di gaudio, pur appannato dalla morte violenta, mi indicavano che la sua anima e tutto il suo corpo anelava a ricongiungersi definitivamente alla sua diletta Mamma. Capì, che egli era già morto sin da quando due anni prima Ella era deceduta. Lei, era il suo unico supporto, la sua sola guida sicura. Gli era venuto meno il conforto, il suo unico sostegno, la sua unica consolazione, il suo vero angelo custode e la sua fata Morgana. Da quel momento la solitudine lo aveva completamente avvolto come in una corazza ben stretta, gli aveva avviluppato sia il corpo che la mente. Man mano che i giorni, i mesi e gli anni si succedevano, egli sentendosi sempre più solo, gli era venuto meno l’amore per la vita  e non era stato in grado di vincere la sua battaglia per vivere e da misero, debole ed indifeso quale era, povera anima, non si era potuto sottrarre alla vittoria della morte.

Dopo queste mie umane ed amare considerazioni, gli abbassai le palpebre e mi allontanai da quella casa, per informare le Autorità competenti, del sinistro evento, lasciando sul posto due militari di guardia, come imponeva la legge, ma in cuor mio lo feci, esclusivamente per onorare il defunto.

Il resto del racconto, ebbe a seguire il suo normale iter burocratico e di quel ragazzo che fu Benedetto, nulla più è rimasto, se non una manciata di polvere che il vento ormai ha già disperso.

E alla stregua di quel narratore che vuole concludere il suo racconto con una esortazione, vorrei tanto che queste mie poche righe, servissero almeno a ricordarlo, come fiore che appena sbocciato, la mano sacrilega dell’uomo tronca di netto, per il disumano gesto di farsene un osceno orpello.

 

Brindisi, 05\02\2012.

 

Antonio TRONO