Un Deportato Brindisino in un Lager Nazista

 

Dal libro di: GIUSEPPE TEODORO ANDRIANI
BRINDISI

Da capoluogo di provinciaA capitale del Regno del Sud
GRAFICA APRILE –OSTUNI (BR)

 

Prima di concludere il triste capitolo della guerra è doveroso ricordare un brindisi­ no ''Internato Militare Italiano" [278] che un sopravvissuto ai "lager" nazisti, Tommaso Bosi, ha voluto ricordare in un suo volume [279] in cui ha narrato le umi­lianti condizioni dei deportati e degli internati nei "lager" nazisti dal 1943 al 1945. Ignoro se altri brindisini sono stati deportati e rinchiusi in un campo nazista ma non avendo altre testimonianze del genere mi piace riportare quanto si apprende dalla lettura del libro di Tommaso Bosi su quest'ufficiale brindisino che è risultato essere il geometra Felice Maellaro. [280]

 L'autore del libro ha immortalato il suo compagno di prigionia in un artistico e  suggestivo disegno, schizzato con inchiostro nero pochi giorni prima della fine della guerra e precisamente il 16 aprile 1945 mentre erano nel campo di Wietzendorf in Germania. La "vignetta" è stata conservata dall'autore con molta cura per diversi decenni e quando nel 1991 ha pubblicato le sue memorie l'ha inse­rita nel libro con la seguente didascalia:


II partner


 Si chiamava "Felice" ed era di Brindisi. Fu il mio "partner" per l'ultimo anno di prigionia. Era un "ercole": un omone grande e grosso che mi sovrastava di tutta la  testa. Una testa che vista da dietro sembrava di "peluche" tanto era folta di capelli ramati. Grossi baffi e un'ampia barba che arrivava al petto, gli conferivano un aspet­to fiero che incuteva rispetto a tutti, anche ai tedeschi. Forse a me sembrava ancora più grande di quanto lo fosse realmente, specialmente quando il mio peso si ridusse da 72 a 34 chili; ed ero rinsecchito e minuscolo come uno scimmiotto. Era paziente e buono; buono come è difficile immaginare, ed era forte. Le sue risorse quasi infinite gli permettevano perfino di risparmiare piccole dosi della già minima razione che ci veniva data, che riponeva gelosamente in previsione di momenti più difficili, come i trasferimenti. In quei casi, divise con me quanto lui, da solo, aveva racimolato giorno per giorno. Era forte...e mi sembrava indistruttibile; mi ha salvato la vita almeno tre  volte. Eppure..povero Felice...è morto prima di me...5 anni fa. Ex I.M.I. nr. 4432/366

 La sezione provinciale di Forlì dell'Associazione Nazionale ex internati nei  "lager" nazisti ha voluto erigere nel parco della Resistenza una scultura in bron­zo [281] per ricordare ai posteri in figure visibili e riconoscibili i volti di alcuni inter­nati Militari Italiani (I.M.I.), i deportati civili, compresi ebrei e zingari, i parenti lontani, in attesa, e finalmente l'epilogo.

 Gli ispiratori dell'opera hanno voluto immortalare nel bronzo, oltre ai volti di Anna Frank, di padre Kolbe e di alcuni internati italiani, anche una "...«torretta» di vigilanza occupata senza interruzione da una sentinella armata, dotata anche di un faro orientabile per le ispezioni notturne da una delle quali partirono i colpi di fucile che uccisero a tradimento alcuni internati ignari..." [282] Tra le figure impresse nel bronzo:

 "...Il gruppo di due volti barbuti affiancati, nella seconda fila in alto a sinistra, idealizza il concetto del "partner" così come è descritto a pagina 43 del libro "Ditelo a Tutti" e che risponde al bisogno naturale di ogni prigioniero di trovare un compagno di sventura per scambiare con lui ogni sostegno materiale e mora­le.. [283]

Gli organizzatori, inoltre, hanno voluto che alla cerimonia dell'inaugurazione del monumento, avvenuta il giorno 8 maggio 1994 alla presenza delle più importanti autorità civili, militari e religiose della provincia fosse presente "... l'ing. Vito Maellaro giunto dalla lontana Brindisi, figlio dell'ex I.M.I. Ten. del Genio geome­tra Felice Maellaro, fedele alla memoria del glorioso genitore, mancato nel 1985. che prodigò nei lager il suo generoso sostegno materiale e morale in favore dei compagni meno di lui dotati di vigore fisico e di forza morale..." [284] All'ingegnere brindisino Vito Maellaro è toccato l'onore di scoprire il monumento, coadiuvato dalla madrina della manifestazione Giuseppina Anselmi.

 Essendo trascorso oltre mezzo secolo dalla fine della guerra, le odierne generazioni non hanno la minima idea dell'amarezza e della disperazione patite dai nostri militari in quel periodo, quando la sera dell'otto settembre 1943, ignari degli accordi tra il governo Badoglio e gli alleati, appresero per radio, la notizia dell'armistizio.

 

 

Il partner

Si chiamava "Felice " ed era di Brindisi. Fu il mio "partner" per l'ultimo anno di prigionia. Era un "èrco­le" : un omone grande e grosso che mi sovrastava di tutta la testa. Una testa che vista da dietro sembrava di "peluche" tanto era folta di capelli ramati. Grossi baffi e un'ampia barba che arrivava al petto, gli con­ferivano un aspetto fiero che incuteva rispetto a tutti, anche ai tedeschi. Forse a me sembrava ancora più grande di quanto lo fosse realmente, specialmente quando il mio peso si ridusse da 72 a 34 chili; ed ero rinsecchito e minuscolo come uno scimmiotto. Era paziente e buono; buono come è difficile immaginare, ed era forte. Le sue risorse quasi infinite gli permettevano perfino di risparmiare piccole dosi della già minima razione che ci veniva data, che riponeva gelosamente in previsione di momenti più diffìcili, come i trasferimenti. In quei casi, divise con me quanto lui, da solo, aveva racimolato giorno per giorno. Era forte...e mi sembrava indistruttibile; mi ha salvato la vita almeno tre volte. Eppure..povero Felice...è morto prima di me...5 anni fa.

Ex Ì.M.J. m. 4432/366

 

Poiché nessun ordine era loro pervenuto, erano incerti se trattare i tedeschi ancora da alleati o considerarli nemici. Purtroppo per loro, i tedeschi avevano ricevuto ordini precisi, per cui fu facile disarmare interi battaglioni di militari italiani, che, incerti sul da fare, attendevano invano ordini. La rappresaglia tedesca si scatenò sui nostri soldati, specialmente su quelli rimasti bloccati dopo l'armistizio nella penisola balcanica e nelle isole dell'Egeo. Ben 615 mila militari italiani, tra uffi­ciali, sottufficiali e soldati, vennero deportati in Germania e in Polonia, dove ' ...Erano esposti al vento gelido della steppa che, quando soffiava, faceva penetrare il freddo sin nel midollo della ossa..." [285]

Prima della deportazione e poi nei lager ai militari veniva chiesto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) che Mussolini con l'appoggio dei tedeschi aveva istituito nell'Italia settentrionale. La formula che i soldati italiani dovevano sottoscrivere era la seguente:

 "Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana fascista e mi dichiaro  volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del Duce senza riserve, anche sotto il Comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell'Italia Repubblicana fascista, del Duce e del grande Reich germanico ".

Quasi tutti i soldati ed i sottufficiali risposero con secchi rifiuti. La guarnigione dell'isola di Rodi, capitale del Dodecanneso (isole italiane dell'Egeo), comandata dall'ammiraglio Inigo Campioni all'armistizio dell'otto settembre 1943, in qualità di governatore, composta da 34 mila militari male armati e dotata di scarsa arti­glieria, di pochi automezzi, di nessun carro armato cercò di opporsi ai 6500 soldati tedeschi comandati dal generale Kleeman, che disponeva di 25 carri armati pesanti Tiger e di efficiente artiglieria.

 Il governatore italiano, che aveva appreso dalla radio la notizia dell'armistizio, aveva ricevuto nel cuore della notte tra l'otto e il nove settembre 1943 il seguente ambiguo telegramma dal Capo di Stato maggiore generale Ambrosio:

"Comando superiore Forze Armate Egeo est libero assumere verso germanici atteggiamento che riterrà più conforme at situazione alt Qualora però fossero pre­vedibili atti di forza da parte germanica procedere al disarmo immediato delle unità tedesche nell'arcipelago alt. Tutte le truppe di qualsiasi forza armata dovranno reagire immediatamente et energicamente et senza speciali ordini at ogni violenza armata germanica et della popolazione in modo da evitare di essere disarmati et sopraffatti alt. Non deve però essere presa iniziativa di atti ostili con­tro germanici ".

 

 Incerto sul da farsi e dubbioso sul reale contenuto del telegramma l'ammiraglio italiano ricevette la sera del nove settembre una missione inglese paracadutata che promise uno sbarco di truppe alleate dopo una settimana. Il generale tedesco, ormai a corto di benzina e di munizioni, la mattina dell'undici settembre, avendo constatato una resistenza dei militari italiani superiore alle sue aspettative, minacciò che se non fosse cessata, avrebbe raso al suolo dagli Stukas la città di Rodi. Il governatore italiano si consultò con i suoi stretti collaboratori, ai quali fece un'esposizione catastrofica della situazione e alla fine decise di arrendersi, anche per evitare la morte di migliaia di civili, per cui alle ore 14,30 s'incontrò con il generale tedesco, al quale comunicò la decisione presa, accettando le dure condizioni di resa: disarmo delle truppe; loro concentramento in luoghi prestabiliti; conferma della carica di governatore dell'isola.

A farlo decidere per la resa, molto probabilmente, era stata la cattura da parte dei tedeschi del generale Scardina, comandante della Divisione Regina, che si era fatto arrestare col suo stato maggiore alla mensa del comando senza opporre alcuna resistenza. Durante quei giorni di resistenza i militari italiani morti nei vari scontri furono 125, mentre i feriti furono trecento. Purtroppo subito dopo la resa i tedeschi fucilarono 90 soldati italiani, mentre tutti gli altri furono deportati, prima in Grecia e poi in Germania. Durante il trasferimento in Grecia seimila militari italiani morirono in seguito al siluramento dei due bastimenti, su cui erano stati ammassati. Anche l'ammiraglio Inigo Campioni fu arrestato qualche giorno dopo e condotto in Italia e rinchiuso nella quarta sezione del carcere di San Francesco di Parma, dove si trovava pure l'ammiraglio Luigi Mascherpa, comandante delle forze italiane di Lero. Il processo ai due ammiragli ebbe inizio il 22 maggio 1944 e il "Tribunale Speciale per la difesa dello Stato", istituito da Mussolini il 3 dicembre 1943 li dichiarò entrambi colpevoli e li condannò "alla pena di morte mediante fucilazione nel petto".

La condanna fu eseguita all'alba del 24 maggio 1944.

 A Rodi quel giorno dell'otto settembre 1943 c'era anche il brindisino Felice  Maellaro che nella relazione redatta per il Ministero dopo il suo rientro in Patria, così rievocò i vari avvenimenti:

 "Io sottoscritto Maellaro Felice fu Vito, classe 1914, distretto militare di Taranto,  tenente di complemento del Genio R.E., in servizio alla 46ma Compagnia del Genio T.R.T. della Divisione Fanteria Regina alla data del giorno otto settembre 1943 rendo noto: il giorno otto del mese di settembre 1943 ero al Comando della 46ma Compagnia Genio T.R.T. Autonoma della Divisione Regina in Rodi Egeo. Unitamente alla compagnia Genio Artieri e Foto-elettricisti ero alloggiato nei baraccamenti di Campochiaro nei pressi del Comando Divisione. La 46ma Compagnia Genio T.R.T., provvedeva ai collegamenti telefonici, radio, fototelegra­fici e fotofonici della Divisione Regina in Rodi, Nelle, e tra alcune isole minori. I mezzi col relativo personale erano dislocati presso i vari centri di collegamento dell'isola di Rodi, Coo, Caso, Scarpanto, Castelrosso. La sera del giorno otto set­tembre, appena udito per radio il bollettino della resa, ne diedi subito comunica­zione telefonica al Comando Divisione, mentre il comandante del campo, Cap.no Gilmo Rigato, si recava subito presso il predetto Comando a prendere ordini. L'ordine ricevuto fu quello di non provocare incidenti con i tedeschi. Alle ore 23,00 circa giunse l'ordine al Comandante del campo di tenerci pronti; furono allo

 

Forlì: Parco della Resistenza. Monumento ai Caduti nei Lager Nazista

 

scopo distribuite le munizioni, che per la 46a erano costituite da un pacchetto di caricatori, ed i viveri a secco. In seguito a nuovo ordine ricevuto, il comandante del campo stabilì che mentre le altre due compagnie si spostavano presso il Comando Tattico della Divisione, la 46a rimaneva in sede a difesa dell'accampa­mento in caso di eventuale attacco da parte dei tedeschi. Furono così insieme sta­biliti i posti di difesa col criterio, che in relazione alla ubicazione del campo e della sua configurazione altimetrica si potesse sfruttare al massimo l'armamento individuale, prendendo altresì di infilata alcune strade di accesso a Campochiaro, sede del Comando Divisione. Si faceva altresì affidamento anche della presenza a monte e sulla collina di reparti di artiglieria e di autieri. Fino al mattino nessun nuovo ordine, nessun incidente: di tanto in tanto qualche colpo di arma da fuoco portatile.

Alle ore otto del giorno nove, ebbi ordine dal maggiore Sanino Emerico di fare riposare gli uomini non indispensabili, ed allo scopo stabilii un turno di guardia con sentinelle a vista.

 Nel contempo mi assicuravo personalmente dell'efficienza di tutti i collegamenti,  e provvidi altresì a prelevare di urgenza il materiale tecnico, la cui assegnazione mensile non mi era ancora pervenuta. Era intanto incominciato un forte traffico di motociclisti tedeschi, portaordini evidentemente, che per recarsi al loro Comando Divisione a Fonducli, dovevano percorrere le strade adiacenti al nostro accampamento. Alle ore 11,30 circa incominciò il passaggio pure di pattuglie armate tedesche e di carri armati tedeschi. Datane comunicazione al Comando Divisione, ci fu risposto che in base agli accordi presi con il Comando Italiano, i tedeschi potevano liberamente circolare e fummo invitati ancora a non provocare incidenti con essi.

 Alle ore 13,00 circa dalla collina sovrastante al Campo fu sparata una breve raffi­ca di mitragliatrice. Ad ogni buon fine rimandai in postazione gli uomini e diedi disposizione per la eventuale distribuzione col fuoco dei grafici e schemi di colle­gamenti. Accorsi per informarne telefonicamente il Comando Divisione, ma il cen­tralino di Campochiaro non rispose, né rispose il Comando del Genio Divisionale  col quale eravamo direttamente collegati. Mentre ero intento a dare disposizioni ai portaordini furono sparati alcuni colpi di armi pesanti e sulla torre dell'orologio di Campochiaro fu issata una piccola bandiera bianca e successivamente una più grande. Poco dopo arrivò dal Comando Divisione il comandante dell'accampa­mento recante la notizia della resa della Divisione con l'ordine di deporre le armi. Dall'infermeria del campo mi fu altresì comunicato il ferimento mortale del genie­re Calcina Attilio. E comandante del campo mi informò inoltre che i tedeschi ave­vano preventivamente tagliato tutti i fili telefonici del centralino di Campochiaro, allontanando tutto il personale R.T. delle stazioni radio, per cui i comandi di setto­ri non potevano più comunicare con il Comando Divisione. Impiantai subito nei pressi del campo una stazione radio per intercettare le stazioni periferiche. Intercettai pure il marconigramma diretto alle nostre navi in navigazione, e copia dell'intercettato inviai col portaordini al maggiore Sonino per recapitarlo al Sig. generale. Dallo stesso portaordini feci verbalmente comunicare che ero pronto ad  entrare nuovamente in collegamento con i comandi di settori e che in merito attendevo ordini. Mi fu risposto di ripiegare immediatamente la stazione sotto pena di fucilazione. Ancora si combatteva a sud dell'isola; si sentiva ancora il rombo del cannone, quando giunse all'accampamento il colonnello del Genio tedesco a farci la proposta di adesione alle FF.AA. tedesche, lusingandoci che ci avrebbe subito fatto indossare la divisa tedesca, con il nostro grado e con trattamento uguale a quello dei parigrado tedeschi.

 Rifiutammo decisamente. Il giorno undici venni a conoscenza che nella mattinata  numerosi Genieri dei vari distaccamenti erano stati dai tedeschi condotti a Campo chiaro. Mi recai dall'ufficiale tedesco ed ottenni subito che i predetti militari rientrassero in Compagnia. Al ritorno passando per il Comando Tattico per conferire col Magg. Sonino incontrai il Sig. Generale che mi confermò e il divieto di impiantare la radio e la pena cui sarei andato incontro. Chiesto al Magg. Sonino sul da farsi col materiale tecnico in magazzino ebbi l'ordine di non manometterlo.

 Nei giorni successivi dallo stesso maggiore Sonino ebbi l'ordine di riparare e riattivare alcuni collegamenti telefonici con l'impianto di un nuovo centralino a Campochiaro. Poiché nulla di preciso si sapeva sulla nostra situazione e correva voce della nostra ripresa militare e che quanto operato dai tedeschi era stata una misura precauzionale, ubbidii al Magg. Sonino.

Ma quando incominciò la propaganda a favore del fascismo, quando cominciarono le prime adesioni alle FF.AA. tedesche, quando il maggiore Carlo Migliavacca autonominandosi comandante del distretto di Campochiaro, con mezzi poco leali e spesso villanamente coercitivi carpiva tra ufficiali e soldati le firme di adesione, per cui gli eventi piegavano a favore dei tedeschi, non attenendomi più alle disposizioni ricevute, disposi la distruzione del materiale tecnico.

 Allo scopo costruii una stufa che impiantai nel magazzino e la sera, mentre facevo  la guardia (perché solo agli ufficiali era concesso circolare la notte nel campo) il magazziniere frantumava gli apparati e ne adoperava i pezzi come combustibile. Quando i tedeschi in dicembre vennero a ritirare il materiale dovettero accontentarsi di un poco di cordoncino telefonico e di altri oggetti di nessuna importanza tecnica. Inoltre i tedeschi per non farci ascoltare i bollettini radio alleati, proibirono la detenzione di apparecchi radiofonici, mentre ci recapitavano giornalmente il bollettino tedesco.

Sfuggì al sequestro la radio dello spaccio con la quale ascoltavo clandestinamente i bollettini alleati e di cui comunicavo ai militari del campo le notizie più importanti. Unitamente al capitano Rocca Alceste, al Ten. Boniventi Silvano, e al comandante del campo fu iniziata una campagna di contropropaganda, per cui le adesioni dei militari del Genio furono delle eccezioni. E poiché i reparti più cono­sciuti in tutta l'isola di Rodi erano quelli del Genio, le pressioni e gli allettamenti continuarono senza posa allo scopo di ottenere oltre che per gli scopi bellici, ma anche a scopo propagandistico, l'adesione in massa del Genio divisionale.

Fallito tale tentativo tentarono di ottenere l'adesione come lavoratori; compilaro­no varie formule di adesione tutte sibilline, ma anche questa volta non raggiunsero lo scopo. Chiesto varie volte di chiarire la nostra posizione, le risposte non erano mai esaurienti e davano agio a numerose interpretazioni. Intanto i militari veniva­ no obbligatoriamente impiegati in lavori da campo e di carattere militare, nono­stante tutte le nostre opposizioni per le quali facevamo riferimento alle norme internazionali per i prigionieri di guerra. Le OO.PP. iniziarono  il lavoro del rad­doppio della strada tra Arcipoli e Campochiaro e fummo quivi per la maggior parte impiegati. Nonostante il forte impiego di manodopera, il lavoro procedeva abbastanza a rilento.

 Il giorno 16.10.1943 su ordine del Magg. Migliavacca il Cap.no Rocca ed il Ten. Bonivanti dovettero partire. Mentre le compagnie col relativo ufficiale erano al lavoro stradale, mi recai a Campochiaro a salutare i partenti. Vi trovai anche alcuni genieri del centralino di Campochiaro. Dopo la partenza dell'autocarro,
mentre mi intrattenevo con i genieri e con il maresciallo dei carabinieri Buonasoro, scese dalla mensa il maggiore Migliavacca. Poiché prevedevo qualche scena poco simpatica, ordinai ai genieri di eclissarsi ed io con il maresciallo mi ritirai nell'ufficio del Comando Genio in attesa che il Migliavacca si allontanasse.
Senonchè il Migliavacca vedendo il gruppetto sciogliersi, chiamò i genieri per domandar loro cosa facessero in piazza. Alla risposta che erano venuti a salutare i due ufficiali partenti, disse loro che i partenti non meritavano il saluto, che non meritavano più di essere rispettati come ufficiali, e che in altri simili casi, avrebbe fatto partire anche coloro che si recavano a salutarli.

Alla sua domanda di quale fossero le loro intenzioni circa l'adesione, i genieri risposero che seguivano le sorti del battaglione. Questa volta il maggiore Migliavacca montando su tutte le furie chiamò un capitano, Porta, se ben ricordo, e gli ordinò di prendere il comando del battaglione del Genio, previo arresto degli ufficiali. Obbedendo agli ordini ricevuti il Cap.no Porta si recò al campo con due soldati, e, giunto nei pressi dell'infermeria, fatto caricare le armi chiese di noi ufficiali.

Alla risposta dell'ufficiale medico Ten. Serpico Rodolfo, che eravamo sul lavoro stradale ripartì per tale località. Poco dopo ritornammo da Campochiaro; un mio sottufficiale proveniente dal lavoro mi comunicò l'ordine del Magg. Migliavacca di recarmi a Campochiaro con tutto il personale presente nel campo. Prevedevo quello che sarebbe successo. Per strada avvertì i soldati, riconfermai loro le mie idee e la mia condotta e li esortai ad agire secondo quanto la coscienza suggeriva loro senza lasciarsi intimorire dalle minacce che fossero rivolte a noi ufficiali. Stavo per imboccare la piazza di Campochiaro, quando mi vidi di poco preceduto dai militari provenienti dal lavoro con gli attrezzi alla mano. Un ordine così perfetto e dei comandi così bene eseguiti da suscitare esclamazioni di ammi­razione da parte di civili, di militari italiani e tedeschi.

Fatto formare un quadrato, il maggiore Migliavacca parlò ai genieri e, concluden­do, li esortò ad aderire. Allo scopo di non influenzare con la nostra presenza i militari, stabilì che nell'edificio dell'ex Comando Divisione, tre ufficiali aderenti, avrebbero segnato i nomi dei militari aderenti, quello dei lavoratori, e quello degli internati. Nel cortile altri tre ufficiali avrebbero inquadrato i militari a seconda della categoria.

 Incominciò quindi l'afflusso dei militari sotto il controllo del Sottot. dei bersaglieri  Podestà, collaboratore appassionato e dello stesso carattere di Migliavacca. Erano già entrati circa la metà dei militari quando il Migliavacca volle essere informato sul numero degli aderenti; nel frattempo, si intratteneva confidenzialmente con i soldati. Il Sottot. Podestà si recò dai colleghi e al ritorno fu accolto dal Migliavacca sorridente; sorriso che si tramutò in furore quando ebbe la notizia che nessuno aveva aderito. Chiamò un sottufficiale dalle righe, il Serg. Magg. Fasbender Giuseppe, gli affidò il comando del battaglione con l'ordine tassativo, e sotto pena di gravissime sanzioni, che ritornati al campo, nessun militare per nessun motivo doveva uscire dalle baracche, in quanto sarebbero state comandare delle pattuglie tedesche con la consegna di far fuoco contro chiunque avesse tentato di aprire le porte.

 Unitamente al Cap.no Rigato, al Ten. Alfieri Vittorio fui invitato nell'ufficio del  Magg. Migliavacca. Interrogati sul motivo per il quale non volevamo aderire e per quale motivo influenzavamo i soldati, rispondemmo che sia noi che i soldati sì agiva in conformità a quanto ci suggeriva la coscienza di italiani. Il Migliavacca scattò dicendo che eravamo noi ad influenzare i soldati, perché, dei soldati, gli unici in tutta l'isola di Rodi così ben inquadrati, così ben tenuti alla mano dai loro ufficiali, e con un affiatamento con essi che rasenta l'affezioni dovevano per forza agire secondo la loro volontà; che la adesione di noi ufficiai significherebbe l'adesione di tutti i soldati e sottufficiali dipendenti. Seguirono altre discussioni più o meno odiose tutte tendenti a convincerci all'adesione, sem­pre però col risultato del nostro rifiuto.

Il Migliavacca ci comunicò pertanto che era spiacente della nostra ostinazione, e che era costretto a considerarci suoi ospiti fino al momento della nostra partenti Eravamo quindi tratti in arresto. Ci assegnò quale alloggiò il vano di cucina del­l'edificio, dove con l'aiuto di un collega che s'interessò a farci pervenire il neces­sario ci sistemammo per dormire.

 Mentre eravamo intenti a tale sistemazione, un ufficiale, messo di Migliavacca  venne a prelevarci per condurci alla mensa del distretto dove dovevamo conside­rarci invitati. Durante la mensa si accesero varie discussioni e tra queste quelli degli orti di guerra. Fu fatto il mio nome quale gestore degli orti delle Compagnie Genio per cui fui dal Migliavacca interrogato in merito.

 Alla fine come se nulla fosse successo mi diede ordine che l'indomani con un auto­mezzo del Distretto avrei dovuto recarmi all'orto di Trianda a prelevare dei pro­dotti maturi per la cucina dei soldati e del Genio. Accettai l'incarico solo su pro­messa che i due colleghi non sarebbero nel frattempo partiti. Fummo condotti dopo ad ascoltare il bollettino tedesco ed alla fine quando tutti ritornavano alla mensa ci presentammo al Magg. Migliavacca per accomiatarci adducendo il pretesto di essere stanchi. Augurandoci buona notte espresse il suo rammarico di non poterci consentire il ritorno al campo in quanto era già stato  predisposto il servizio dei tedeschi e che pertanto avremmo potuto rientrare al reparto solo l'indomani per rimanere con i nostri soldati.

Si continuò il lavoro stradale, ci furono delle diminuzioni di razioni, limitazioni di circolazione, intensificazione della propaganda fascista, con l'obbligo di assistere alle cerimonie del giuramento di gruppi di aderenti. Di contro noi si intensificò la contropropaganda, l'incremento degli orti per migliorare sia quantitativamente che qualitativamente il rancio e si cercò nel contempo di distrarre i soldati con trattenimenti di vario carattere nell'interno del campo e nelle baracche. Fino al giorno 30.11.1943 la Compagnia conservò la sua autonomia amministrativa; col 1.12.43 con la costituzione dei campi di raccolta fu incorporata nel campo assumendo la denominazione di 2a Compagnia Internati. Ebbi dopo tale data effettivi ancora una compagnia della 41a sez. di sanità nonché vari gruppi di militari adibiti obbligatoriamente a lavori vari dai tedeschi, oltre tutti i Genieri che man mano rientravano in sede.

Nella la quindicina di dicembre, il Maggiore Migliavacca si recò via mare all'iso­la di Simi per presiedere la cerimonia del giuramento del presidio che aveva ade­rito. Al ritorno in seguito ad attacco di motosiluranti alleati fu colpito a morte uni­tamente al cappellano militare. Il comando del Distretto passò al Cap.no Fiaccadori Ferdinando, mentre il comando del campo di raccolta rimase al Cap.no Minucci Giuseppe. I due ufficiali su menzionati con la morte di Migliavacca si adoperarono con tutti i mezzi a loro disposizione di alleviare le nostre sofferenze materiali e morali ponendo fine alla propaganda a favore dei tedeschi.

 Il 26.12.1943 per ordine tedesco dovemmo spostarci verso Rodi città con una  tappa al 11° campo di raccolta di Afando, comandato dal Cap.no carrista Bollinella e dal capomanipolo Di Paolo. Partimmo da Campochiaro caricando sugli autocarri solo il materiale di cucina col relativo personale ed i viveri della giornata nonché viveri da cucina prodotti dagli orti, e dei viveri di economia che avrebbero dovuto servire per la confezione del rancio speciale per il Capodanno. Senonchè appena gli automezzi giunsero al campo di Afando, il sottufficiale Gallo Salvatore con l'autorizzazione del comandante del campo sequestrò tutti i viveri ridandone poi alla cucina una parte ed in quantità inferiore al complessivo spet-tanteci come razione.

Analoghe detrazioni venivano sistematicamente effettuate tutti i giorni dal perso­nale del campo e nonostante tutte le proteste fatte nulla riuscii ad ottenere. Era infatti noto che tale ricavato serviva per acquistare dai greci generi voluttuari per la mensa della guardia del campo alla quale convivevano anche gli ufficiali. La sera del 31.12.43 giunse l'ordine di partenza per Rodi, da dove avremmo dovuto imbarcarci per il continente. La mattina di Capodanno sotto l'imperversare di un temporale alle ore 6 eravamo già in marcia. Dopo quattro km. provenienti da Rodi una macchina tedesca diede Vordine di rientrare al campo. Nel frattempo il personale del campo aveva smontato tutte le tende per cui fino al tardo pomerig­gio fino a quando non giunse definitivo l'ordine di sospensione della partenza rimanemmo allo scoperto sotto la pioggia e digiuni. Per la ricostruzione delle tende e su di un terreno fangoso ci furono ridati dei teli logori non più idonei allo scopo; per la cucina ci consegnarono un quantitativo dei viveri appena sufficiente a sporcare leggermente l'acqua delle marmitte. Nei primi giorni di gennaio ebbi l'ordine di passare effettivi, all'altra Compagnia del Genio che si spostava al campo di Asguro, un forte continente di militari per cui la forza della mia Compagnia si ridusse a circa trecento uomini.

 Per lenire le sofferenze fisiche e morali derivanti dai maltrattamenti da parte dei  tedeschi che impiegavano i soldati in lavori difensivi con un ritmo sempre cre­scente, riuscii ad ottenere che la maggior parte degli uomini venisse impiegata dall'ente bonifica agraria in lavori agricoli.

 Arrivammo così fino al giorno 27.1.44 giorno in cui con l'assunzione del comando del campo da parte del Cap.no Mancini ebbi l'ordine di rientrare a Campochiaro al 5° campo di raccolta per proseguire il lavoro stradale. In questo periodo di tempo non venne meno la propaganda a favore dei tedeschi anche da parte del Cap.no Bollinelli che tra l'altro diffuse tra i soldati nel campo un manifestino con il quale li esortava a ribellarsi a noi ufficiali non aderenti, ad abbandonarci e ad aderire alle FF.AA. tedesche. Valido collaboratore era il capomanipolo Di Paolo, che unitamente al sergente maggiore Gallo veniva spesso a perquisire noi ufficiali a depredarci indumenti ed oggetti personali. Fummo pure varie volte visitati dal Colonnello Manna e dall'autonominatosi federale giornalista Burrini, i quali nonostante le loro suppliche, non ottennero che risultati di trascurabile entità. Il 27.1.1944 ritornammo a Campochiaro trovammo le baracche occupate dai militari del distretto per cui fummo costretti ad attendarci nei pressi della costruenda strada. In tale occasione assunsi il comando del distaccamento del 5° campo, distaccamento costituito dalla mia compagnia e dalla III Compagnia Internati già sistemata nella stessa località.

 Mentre lo stato dei lavori per la sistemazione dell'accampamento con la costruzio­ne di tende baracche era a buon punto, il giorno 22.44 venne l'ordine di partenza per Calato. Partii con tutto il distaccamento ad eccezione di un ufficiale, un sottuf­ ficiale e cinquanta uomini.

 Nella notte del tre fummo tutti via aerea trasportati ad Atene all'aeroporto di  Aleusis. La mattina seguente parte a piedi e parte in treno fummo condotti al campo di Guài dove separato dai soldati fui condotto nei locali di una ex fabbrica di motori sistemata a campo di concentramento.

Da Atene ripartii il 5.3.44 in tradotta (di soli ufficiali) per la Germania giungendo a Custrin la sera del 18.3.44 e condotto al Campo III C. Anche in questo campo continuarono le pressioni per l'adesione alla Repubblica ed al lavoro; le adesioni non mancarono. Il giorno 6.8.44 fu sgomberato il campo ufficiali e fui condotto al campo XB a Sambostel dove giunsi il giorno 8.8.44. Anche in questo campo le pressioni per il lavoro con conseguente riduzione di razione, senza combustibile per il riscaldamento, e con forte rallentamento nel ritmo delle partenze ed arrivi di corrispondenza e pacchi. Le adesioni furono molte. Il giorno 29.1.45 fui trasferito al Campo 83 di Wietzendorf dove giunsi il 30.1.45. Nonostante le pressioni per il lavoro, le riduzioni della razione viveri, il mancato riscaldamento vi rimasi fino al giorno della liberazione da parte di truppe inglesi, liberazione avvenuta il giorno 22.4.45 col nostro trasferimento durante una giornata di tregua, dal territorio tedesco al villaggio di Bergen in territorio occupato dagli inglesi. Il 29.4.45 rien­trammo al Campo di Wietzendorf e vi rimasi fino al 16.8.45. In tale giorno in autocarro fui condotto a Brunsvich e di là in tradotta con sosta a Mittenvalle attraverso il Brennero e Pescantina (Verona) sono giunto a Brindisi il 28.8.45.

F.to: Felice Maellaro 


 

Brindisi: Piazza Cairoli e Fontana delle Ancore - Visibile il Teatro Verdi

 

 

 


278 La sigla I.M.I. = Internato Militare Italiano fu inventata dai tedeschi e imposta ai militari italiani per non riconoscerli come "prigionieri di guerra", sottraendoli, così, alla protezione della "Convenzione di Ginevra" del 1929 per i diritti dei prigionieri di guerra, nonché all'assistenza della Croce Rossa Internazionale.

279 Associazione Nazionale nei Lager nazisti A.N.E.I. - Sezione provinciale di Forlì e Tommaso Bosi: Ditelo a tutti - Memorie sulla deportazione e l'internamento nei lager nazisti 1943/45 - Litografia Faenza 1991.

280 Felice Maellaro nacque a Brindisi il 31 gennaio 1914. Richiamato durante la guerra fu mandato in forza al deposito misto truppe R.E. Egeo a Barletta col grado di tenente del Genio. Fu catturato il giorno della resa del Comando FF.AA. di Rodi l'undici settembre 1943 e deportato in Germania il 3.2.1944 e rinchiuso nel lager di Custrin campo HI C il 18.3.1944. Il 6.8.1944 fu trasferito a XB a Sambostel, dove rimase fino al 28. 1. 1945, giorno in cui fu trasferito al campo 83 di Wietzendorf. Il 22 aprile 1945 fu liberato dalle truppe inglesi e rimpatriato il 16.8.1945. Morì a Brindisi 1' 8-9-1985.

281 II monumento consta di una scultura in un unico blocco di bronzo fuso, del peso di kg. 530, largo mt. 0,90 e profondo mt. 1,60, che poggia su un basamento alto mt. 0,85, ed opera dello scultore Leonardo Poggiolini da Tredozio.

282 Comune di Forlì e Associazione Nazionale ex internati - Sezione provinciale di forlì, Cesena e Rimini: Monumento ai Caduti nei Lager Nazisti e in tutte le Prigionie - Stampa litografia CITN Seri - Forlì - Marzo 1995- Esemplare fuori commercio - P.9

283 Ibidem vedi nota n. 279 (N.d.A = II volto del brindisino Felice Maellaro è il secondo della seconda fila partendo dall'alto a sinistra, così come lo ricordava il compagno di prigionia).

284 Ibidem p. 16

285 Fabrizio Alvesì: La ribellione degli Italiani. Fratelli Bocca Editori, Roma 1956.