Omaggio agli Ufficiali italiani massacrati a Linopolis nel mese di ottobre 1943

(TRA CUI IL TEN. VINCENZO CAPPELLI DI BRINDISI)


Il giornale greco "To Bima" ( Libertà ) lo scorso 3 novembre 2011, in occasione della celebrazione della festa nazionale del 28 ottobre per celebrare il " No " al diktat di Mussolini del 1940, ha pubblicato a pagina 14 due articoli di segno opposto: in quello di sinistra, di Kinnas Nicos, viene esaltata la resistenza e la vittoria greca all'azione italiana nella disastrosa campagna militare e, nel secondo, di Basilio Pis, è rivissuto in " prima persona " da una delle vittime l'eccidio compiuto a Kos dalle truppe tedesche il 6 ottobre 1943, ai danni di 103 ufficiali italiani, all'indomani dello sbarco nell'isola.

 

In essi sono espressi due sentimenti opposti. Oggi, col senno di poi, chi può contraddire le parole di Nikos:

 

.... " Durante i sei mesi di dure battaglie la Grecia restò fortemente unita e così riuscì a tramandare alla Storia una brillante vittoria. Molti sono gli eroi di questa piccola nazione che contribuirono ad ottenere il miracolo ed a sconfiggere i due milioni di soldati del Duce. L’artefice di questa vittoria fu unicamente il combattente greco che, non solo sconfisse gli italiani, ma si imbatté in un nemico ancora più feroce senza regole e senza pietà quale era la famigerata “Armata della Wechmacht”. Hitler disse: “ I soli che hanno combattuto con eroismo sono stati i soldati greci”.....

 

Ma, al tempo stesso, si rimane sorpresi dalle parole di Basilio quando ricorda, attraverso la sua immaginazione, ciò che ha appreso dalla lettura di un testo storico che riporta i fatti accaduti in quel periodo e dai racconti degli anziani del luogo. Leggendo l'articolo, si evince la drammaticità dell'evento che colpisce il compilatore che, così, rende giustizia a quei 103 uomini che accettarono di morire per mantenere fede al giuramento prestato. Ed è tanto più efficace perché proviene da chi un giorno subì il gioco straniero.

 

Forse avranno fatto effetto le parole rivolte agli studenti greci presenti alla commemorazione del 15 settenbre 2010 nel cimitero cattolico a Kos: ... studiate la Storia con intelligenza; considerate ciò che è accaduto nelle vostre isole nel recente passato con spirito critico ma giusto, accettate ciò che di buono è stato fatto e traete i giusti ammaestramenti dagli errori / orrori che hanno inflitto ovunque grandi sofferenze....."

 


OMAGGIO AGLI UFFICIALI ITALIANI MASSACRATI A LINOPOTIS

NEL MESE DI OTTOBRE 1943

(TRA CUI IL TEN. VINCENZO CAPPELLI DI BRINDISI)

 

Sepoltura sotto il sole: Un crimine di guerra con molti interrogativi

Ci svegliarono nel momento in cui sorgeva il sole, ma non avevamo chiuso occhio, il mattino del 6 ottobre, a Cos. Il buio incombeva ancora su di noi, come una nave che "ruggisce", e il freddo gelava i muri della caserma, mentre i nostri denti stridevano. Fossa comune n°5, Cos, Linopòtis, località Nidiès. Terra paludosa. Molto più giù di Fùskoma di Alikès, a Tigàki di Cos.

Mi trovo tra i cadaveri degli ufficiali italiani di stanza a Cos. Capitani e sottotenenti. Il giorno prima ci hanno detto di prendere i nostri bagagli perché ci dovevano far imbarcare su una nave. Ma alcuni annusarono il pericolo come i cani la catena e si opposero. I tedeschi ci hanno ucciso tutti perché abbiamo rifiutato di collaborare con loro. Non ci consideravano prigionieri di guerra ma cani da sopprimere. Dopo un serrato e prolungato fuoco delle mitragliatrici nascoste nei cespugli, al quale seguirono isolati colpi di grazia, ci buttarono nelle fosse che avevamo scavato noi stessi.

Il giorno dopo il massacro, ordinarono a dei manovali greci di coprirci con della terra per una sepoltura sbrigativa sotto il sole, dopo che il nostro sangue, quella mattina, aveva fatto "inginocchiare" il mare, mentre la luna, che sembrava un uovo, stava tramontando là di fronte. Le superficie della fossa, poco profonda, era di quattro metri per due . Se sollevo il braccio sopra la terra, è come se salutassi il tempo, senza vita.

DAL CASTELLO A LINOPOTIS

5 ottobre del ’43. Stavamo camminando da ore ed ore, dall’alba, senza che ci lasciassero riposare un po’ all’ombra degli alberi: dal Castello di Cos alla caserma di Linopotis, circa 12 chilometri di distanza. La nostra linea, la linea dei prigionieri italiani, odorava ancora della difficile battaglia del giorno prima contro i tedeschi, nella quale avevamo avuto parecchie perdite. I segni di sfinimento della sconfitta si vedevano sulla terra come una linea di sputi. In alcuni momenti, nel mezzo del tragitto, abbiamo creduto che il rumore della nostra linea fosse l’unica verità di quei momenti e dopo, quando tutto sarebbe finito, non ci sarebbe stato più niente ma solo il ricordo, opaco e stanco. Abbiamo attraversato dei campi infiniti, terreni arati senza fine, dove i latrati lontani dei cani ci convincevano che la vita in caserma andava avanti come sempre. Le ore ci piegarono col peso della stanchezza, sparirono dal nostro pensiero e balzarono fuori dai quadranti dei nostri orologi per ricordarci il lungo tempo trascorso.

È quasi mezzogiorno e il campo di concentramento non si vede ancora. Nessuno porta l’orologio. Qualcuno ha detto che il capitano Mario, mentre era disarmato, è stato ferito gravemente da un soldato tedesco quando, alla sua richiesta di consegnare tutti i suoi effetti personali, si è rifiutato di consegnare la fede nuziale. Questo qualcuno era il capitano Pietro. Nella stessa linea eravamo io, Vespagazzone, Massimo (il ciccione) e Di Stefano.

FU UN ORDINE

Ci hanno ordinato: Non vi fermerete né per mangiare, néper bere!. E noi non abbiamo risposto. Abbiamo solo prestato attenzione al vento che si ficcava tra il fogliame degli alberi suonando una musica che pareva un monito e poi abbiamo sentito il verso della cicogna che migra verso l’Africa con la sua famiglia.

Questa terra è fertile, ci sono orti e uliveti, capre che pascolano libere e mucche, che muggiscono al nostro passaggio. Fa freddo e le grosse nuvole grigie che si radunano in cima alla montagna preannunziano la pioggia. Le gocce d’acqua cadono sulla strada di terra battuta e la infangano lasciando i segni di piccole buche, come se fosse stata colpita da tante pallottole. Non ci siamo fermati neanche mentre pioveva. Ma chi diavolo ha fatto questa strada? Non finisce più!!!

Ha smesso di piovere e una raffica di vento ci è passata radente facendoci ghiacciare. Pietro dice: “Questa terra è l’ultima che vediamo”. Massimo risponde: “Che hai detto? Ripetilo! Non ci credo, riusciremo a fuggire, vedrete!”

 

 

MASSIMO E DI STEFANO

Di Stefano non diceva niente. Ci faceva solo capire il suo desiderio di fumare. Ma le sue tasche erano vuote. Io chiesi all'improvviso : Ritroveremo le nostre cose? E il silenzio che seguìsembrava di acciaio inossidabile.

Stormi di corvi e gazze gracchiavano in alto e giravano sopra le nostre teste, formando una linea nera di ali che si piegava ai lati e cambiava forma di continuo. Al margine della strada senza paracarri, un terreno recintato pieno di ferraglia ricordava un camion abbandonato oppure una nave immersa per metà nella terra. Un brivido strano percorse i nostri corpi, come una lama tagliente. Finalmente si vede la caserma! Sembra una scuola, può darsi che una volta sia stata una cooperativa agricola. I suoi muri esterni scoloriti sembrano quelli di un carcere ma, se così è, l’odore della cucina non è mai arrivato alle nostre narici perché erano piene di polvere e di muco.

BICICLETTE ANTICHE

Mamma come sta Antonio? Quanto sarà cresciuto? Non credo che gli lasci mettere le mani sulla mia bici! Spero che Francesco non mi porti ancora rancore! Adesso che non avrà lavoro, passerà il tempo riparando biciclette! Mi viene in mente la facciata di casa nostra. È ancora in condizioni pietose? Arnesi e vecchie biciclette o le ha finalmente riparate e le ha trasformate in «pezzi d’antiquariato»? Papà sta alla bottega del barbiere? Dimmi, come state? E Maria, nostra sorella, ha sposato alla fine quel grezzone di Marco, il grossista? Alla prima occasione utile mandami due paia di calzoni e due maglie interne, come quando mi portavi i vestiti lavati e stirati nella mia stanzetta. Adesso sono stanco mamma. Voglio dormire.”

All′alba ci eravamo ormai lasciati alle spalle la caserma Linopòtis, quando all′improvviso, nel mezzo del tragitto, un ufficiale tedesco ordinò al prete cattolico che ci accompagnava di tornare indietro. Siamo sette gruppi di dieci prigionieri. Due tedeschi armati per ogni gruppo. Seguono mitragliatori e fucili. Non abbiamo mangiato né bevuto durante la notte, nonostante le nostre insistenze. Le ore, come se avessero abbandonato di nuovo i loro orologi e fossero andate a vivere in altri tempi. Giorni asciutti, giorni di mendicità, mentre la scia delle orme che ci lasciamo dietro la spazza via solo il vento sul suo cavallo. Non c’è anima viva in giro. Abbiamo incontrato solo giunchi, canneti ed erbacce mentre l′aria fredda li increspava e noi battevamo i denti come cani bagnati sulla spiaggia.

L′ULTIMA IMMAGINE

L′ultima immagine che mi ricordo è il crinale delle montagne della Turchia di fronte a noi, di Psèrimos e di Càlino. Ci hanno messi in linea, uno accanto all’altro, con la faccia verso il mare e ci hanno sparato, alle spalle.

Stavamo, in piedi, dando le spalle alle loro armi e ricordo le pallottole che mi bruciarono le spalle e poi mi accasciai nella fossa vuota, insieme agli altri. Adesso mi trovo al Sacrario Militare di Bari e da un momento all’altro finisco l’epigramma funebre che sto scrivendo da tanti anni e lo consegno.

 

Qui, alle coste ospitali di Cos,

sono caduti soldati generosi

e ufficiali che hanno vissuto la loro breve vita

nel fuoco della guerra, che ha afferrato tutto

e ci ha fatto addormentare.

Ora non siamo altro che ombre di sogni

e di foglie, sepolti nella terra umida e paludosa dei Mèropi,

e, quando il sole dal mare aperto sorgerà,

questo monumento per sempre rimarrà

per evocare la sepoltura improvvisata sotto il sole

alle generazioni che verranno…

Effimero, ahimè! è il genere umano.

 

Vassilis Pis