Berta, l'amore impossibile del re Roberto il Pio

Attorno all’anno mille, viveva un re, che per consolidare il suo regno lasciatogli dal padre in terra di Gallia, che successivamente si chiamerà Francia, con il suo esercito, formato da cavalieri e fanti, era sempre in guerra, contro i suoi vassalli infedeli. Ere sempre alla conquista di città e fortezze, le assediava e saccheggiava i territori gli uni dopo gli altri, distribuendo tra la già misera popolazione inerme, morte e distruzione. Ma era di tale animo buono e caritatevole che lo definirono il “ Pio “.

Quella tarda sera di dicembre dell’anno 1991 circa, l’inverno giunse sinistramente, annunziato da una fosca tempesta di tuoni e di pioggia che veniva giù a torrenti.

I rumori della strada si spensero più presto del solito e verso mezzanotte, udivo solo lo sconfortante ticchettio della pioggia sui vetri. Intanto il silenzio si era fatto più assoluto ed il buio più buio. Non udivo altro che il soffiare del vento seguito dalla tempesta che si era spostata proprio sulla città. Sdraiato nel mio letto, alla luce della abat-jour, che rifletteva la sua luminosità sulle pagine del libro di storia medievale che avevo fra le mani.

Tra il rumore dei tuoni che d’improvviso balenavano nell’aria ed il martellare contro i vetri dell’acqua che il cielo mandava giù a torrenti, mi ero soffermato su un passo del libro che narrava degli amori del re Roberto II detto il Pio, vissuto tra il 970 ed il 1031 della nostra era. Era figlio di Ugo Capeto, che nel 987, aveva sconfitto il principe Carlo della Bassa Lorena, unico superstite della dinastia Carolingia, divenendo così l’unico pretendente al trono della Monarchia Francese.

Una volta divenuto re, alla pari dei grandi e dei piccoli feudatari dell’epoca, che consideravano il matrimonio come l’occasione offerta a tutti di ampliare i propri possedimenti e di estendere la propria influenza, si preoccupò di scegliere una sposa per suo figlio Roberto, che aveva allora diciassette anni. Pensò di chiedere per lui la mano di una principessa Bizantina, ma gli parve di avere mirato troppo in alto e così la lettera che aveva fatto scrivere dal suo consigliere, il monaco Benedettino Geberto, che nel 999 diventerà Papa Silvestro II, non venne nemmeno inoltrata. Tuttavia a Roberto venne data in sposa Rozala, detta Susanna, da poco tempo, vedova del conte di Fiandra Arnolfo I. Con questo matrimonio Ugo, voleva rappacificarsi con i Fiamminghi, i quali al pari del loro conte, lo avevano visto soppiantare il rivale Carolingio, andavano quindi incoraggiati a difendere il proprio paese dalle mire della Corte Germanica. Con questo primo matrimonio, Roberto, ebbe in dote dalla moglie Rozala la contea del Ponthieu, che era stata oggetto di contesa tra la Normandia e la Fiandra. A ciò bisogna aggiungere che Rozala, era di famiglia reale, il suo defunto padre, aveva infatti portato negli anni 950, la corona d’Italia. Ma data la sua non più giovane età, Roberto, dopo appena un anno di matrimonio, la ripudiava, trattenendo per sè la Contea del Ponthieu, costringendo la moglie a ritirarsi presso il figlio, Baldovino Bellabarba, conte di Fiandra e lì sopravvisse per altri quindici anni morendo nel 1003.

Il ripudio di Roberto venne biasimato solo in segreto, perché non si aveva il coraggio di contrastarlo apertamente neanche dalla Chiesa, così prepotentemente gelosa dell’indissolubilità del matrimonio. Roberto, era ormai giunto alla dignità di re, in quanto era stato dal padre Ugo, associato al trono e di conseguenza consacrato. Avrebbe potuto benissimo tenere la moglie e trovarsi un’amante, caso molto frequente in quei tempi, come lo è stato in tutte le epoche passate e future, ma questo per lui era disdicevole, poiché era stato bene educato ai sentimenti Cristiani da Gelberto, che gli impedivano una simile soluzione del problema. Egli voleva essere un buon marito ed avere una moglie che fosse di suo gradimento e non impostagli, quindi aveva una concezione del matrimonio molto differente dalla quotidianità d’allora, che egli intendeva sostenere a tutti i costi. Si diede alla ricerca di una nuova consorte, pur essendo ancora unito in matrimonio con Rozala. E cosa avvenne? Si innamorò di Berta di Borgogna, divenendo Ella suo unico ed eterno amore. Ma vi era un intoppo di difficile soluzione, rappresentato dal fatto che Berta era sposa di Eudo I, conte di Chartres, città posta sul lato sinistro del fiume Eure, di Tours e di Blois, che nel 999, aveva complottato per consegnare il regno francese, ad Ottone III, imperatore e re di Germania. Una volta scoperto il suo intrigo il re Ugo e Roberto si allearono con il Duca d’Angiò Folco Nerra e gli mossero guerra. Alla fine dopo tre anni di saccheggi, devastazioni ed assedi, ridussero il conte di Chartres alla completa catastrofe. Egli allora, chiese grazia ed offrì riparazioni, preoccupato di risparmiare ai suoi quattro figli la vendetta del re. Ugo si lasciò intenerire, ma Roberto era irremovibile, volle a tutti i costi la rovina del Conte. Agli ambasciatori inviatigli, rispose di non voler concedere il perdono, per cui, ritornati a Chartres, trovarono il conte morto colpito da angina pectoris.

Roberto, appresa la notizia del decesso, con il suo esercito corse immediatamente a riprendersi Tours, dove anche Folco si era precipitato. Lì annunziò il suo proposito di voler sposare Berta. Ma ciò, non poteva avvenire, in primo luogo, perché Berta era sua cugina di terzo grado canonico, essendo entrambi discendenti per via materna dal re di Germania, Enrico l’Uccellatore, inoltre, in passato aveva scelto Roberto quale padrino di uno dei suoi figli e ne era quindi diventato compare, per cui l’unione dei due sarebbe stata, di fronte alla Chiesa, doppiamente incestuosa. Sia Gelberto, che un tempo era stato suo maestro alla scuola di Reims, sia i genitori, lo esortarono a non perseguire quel fino sino a rifiutargli il consenso. Ma egli, appena ebbe a morire Ugo Capeto, probabilmente di vaiolo, divenuto ormai unico sovrano, fece celebrare dai vescovi Francesi il proprio matrimonio con Berta, riuscendo così a far trionfare il suo amore e a diventare un marito fedele e felice. Ma il Pontefice Gregorio V, aveva motivo di risentimento nei confronti della corona di Francia, rea di aver deposto l’Arcivescovo di Reims, Arnolfo, per punirlo dei suoi continui tradimenti, Al primo se ne aggiungeva altro di motivo, Gregorio V era il primo dei Pontefici Germanici, per cui era molto legato agli interessi della Corte Imperiale, motivo questo che lo spinse a indire un Sinodo a Pavia, che depose dai loro incarichi i vescovi troppo compiacenti che avevano assecondato Roberto, sino a celebrarne il matrimonio. Li convocò a Roma insieme a Roberto, sotto minaccia di scomunica perché si discolpassero. Il re cercò una riconciliazione, reinserendo Arnolfo quale Arcivescovo di Reims. Ma ciò non bastò a Papa Gregorio, perché egli voleva la sua capitolazione su tutto il fronte e, visto che Roberto, continuava a tenere Berta quale sua moglie, senza volerla ripudiare, indisse un Concilio generale a Roma, attraverso il quale, rinnovò l’ingiunzione. Condannò Roberto e Berta ad una penitenza di sette anni, minacciando il re di anatema qualora avesse continuato a persistere nei suoi propositi. In quella travagliata ed oscura epoca, l’anatema era considerato molto peggiore della scomunica, poiché rappresentava la maledizione in eterno, che pretendeva di perseguitare il colpevole oltre la tomba. Pur tuttavia, né Roberto e né i vescovi Francesi, condannati insieme a lui, presero sul serio le sanzioni spirituali del Capo della Chiesa. Mentre Roberto imperterrito continuò a non abbandonare la donna da lui tanto amata, i vescovi condannati, non per questo smisero di considerarsi rappresentanti di quel Clero praticante e garante nel culto Cristiano. Per la Francia, quindi, già cinque secoli prima si era delineato uno scisma analogo a quello che si sarebbe consumato, in circostanze analoghe nel l’Inghilterra di Enrico VIII. Un dramma simile, così gravido di conseguenze storiche, venne evitato, in quanto, morto Gregorio V nel 999, Gelberto, divenne Papa col nome di Silvestro II. Questi non fece altro che ignorare l’anatema scagliato dal suo predecessore, per cui sembrava che finalmente Roberto potesse convivere felicemente, in pace ed amore, con la sua tanto adorata Berta. Ma non fu così, perché nel 1001, Berta, non era più moglie di Roberto. Cosa era avvenuto? Quali le cause di tale distacco? Non certamente le preoccupazioni religiose di Roberto, che a quanto pare, sarebbero state troppo tardive, né l’amore per Berta, che non era cessato, anzi assolutamente ricambiato. La vera ragione, la più verosimile, era quella che Berta, in ben quattro anni di matrimonio, non aveva dato un erede al trono di Francia, di conseguenza la nascente dinastia rischiava di estinguersi.

Dopo Roberto il regno era destinato a cadere in preda ad un marasma permanente. Se questo era il motivo giusto ed equilibrato, la lunga e gloriosa Francia Capetingia nota alla Storia deve molto a Roberto che ebbe a sacrificare il suo indiscusso ed eterno amore per Berta.

A questo punto ricordo che soprafatto dal monotono cadere della pioggia e cullato dal rumore che essa produceva, martellando aritmicamente sui vetri della finestra, con nella mente e nel cuore l’interesse provocato dai personaggi della Storia, mi addormentai. E dormendo sognai.

Era un tramonto rosso sangue che cedeva il passo all’imbrunire, mi ritrovavo giovane gentiluomo, con una folta chioma di capelli lunghi e biondi che il vento scompigliava, vestito da una tunica di lanetta morbida e colorata d’azzurro che scendeva sino al ginocchio; calzavo delle brache rosse, con degli stivali ai piedi. Ero avvolto da un ampio mantello, che altro non era che un semplice rettangolo di stoffa di lana di color viola, appeso alla spalla destra con una fibbia d’oro. La tunica era serrata a metà vita da un cinturone in pelle, dal quale pendeva una lunga spada. Cavalcavo un destriero baio dalla sella impellicciata, con staffe e sulla groppa una gualdrappa di stoffa ricamata in oro. Mi ritrovavo così assieme ad altri cavalieri e dame, al seguito della corte del re Roberto che insieme alla sua nuova moglie Costanza, si recava nel suo palazzo di Parigi, sito in Rue de Roi e percorrevamo una delle vie che confluivano verso la nostra meta. Percorremmo un centinaio di metri, fra le allegre voci della comitiva, per giungere infine ad una rocca-palazzo che dominava le case, parte in pietra e parte in legno, che si allineavano ai lati della via. Era una specie di fortezza che sembrava alzarsi a perdita d’occhio, grigia e sinistra, irta di angoli e di spigoli. Penetrati nell’interno e smontati dalle cavalcature, proseguimmo a piedi per portarci in un ampio salone del primo piano che, seppur abbastanza vasto, tanto da contenere l’enorme seguito di circa un centinaio di persone di ambo i sensi, mi dava la sensazione dell’immagine dell’oscurità più profonda, anche se illuminata da diecine di torce accese, affisse lungo le pareti perimetrali del salone.

Mentre gli uomini, indossavano gli stessi miei vestimenti con colori diversi, le dame portavano un gran velo bianco di tela orlato da ricami d’oro, che dalla testa scendeva sino a piedi, fermato sotto il collo da un vistoso gioiello. Sotto il velo, una tunica lunga, con ampie maniche, ornate da galloni dorati e lunga fino a nascondere i piedi. Ai piedi, calzature nere orlate da una fascia dorata che continuava lungo la caviglia fino alla punta delle dita. Mentre il re Roberto e la regina Costanza, figlia di Guglielmo I, conte di Arles, prendevano posto alla tavola riservata solo a loro, nel secondo e terzo tavolo, sedevano i dignitari della corte e gli altri cavalieri e dame del seguito. Mi ritrovavo seduto attorno al secondo tavolo, imbandito da varie bevande servite in brocche d’argento, mentre i calici erano d’oro ed avevo ai miei lati, quali commensali, il conte Ugo di Beauvais e l’eminente monaco Helgaldo, dell’Abbazia di Saint-Benuit-sur-Loire. Il primo, cugino di Berta ed il secondo frequentatore da diversi anni della corte del re. E mentre la servitù, alle nostre spalle, serviva con prontezza il susseguirsi incessante delle vivande, soprapensiero e quasi contrariato, guardavo la nuova sposa del re Roberto che, seduta al suo fianco, padroneggiava l’intero salone. Con molto rammarico notavo la mancanza della sua tanto adorata Berta, dalla quale non si era separato e non aveva annullato il matrimonio, di conseguenza lo consideravo un bigamo che pur convinto di essere tale, continuava imperterrito nella sua parte di poligamo. Sebbene entrambe le sue posizioni fossero vietate dalla legge ecclesiastica, egli ne approfittava, essendo re ed a suo piacere ne disponeva. Questo mio disappunto, questo mio rammarico, appariva nitido e chiaro sul mio esterrefatto viso, tanto da stimolare la curiosità di Helgaldo e di Ugo di Beauveis, che vedendomi così tanto pensieroso nel mezzo di cotanta allegra comitiva, mi chiesero conto e ragione del mio disappunto. Ammiravo la figura fisica di Costanza che si presentava bella e piacente, dalle forme tondeggianti, dagli occhi di un azzurro splendente, con una lunga chioma di capelli biondi fluenti e dal viso di un’ovale perfetto. Tuttavia non mi ispirava alcuna fiducia nel suo completo essere. Esposi loro quanto avevo in serbo nel mio cuore sul conto di Costanza e del re e fu così che sia pur nel sogno, appresi fatti ed episodi che mi illuminarono sulla vita quotidiana che Roberto viveva a contatto dei suoi sudditi, della sua vita coniugale, dell’amore intramontabile ed indimenticabile che nutriva per Berta, della sua infinita carità cristiana che nutriva verso il prossimo, della sua immensa umanità e del suo timore di Dio che portarono i suoi contemporanei a ricordarlo come re Roberto il Pio.

Fu il monaco Helgaldo che iniziò a narrarmi delle battaglie vittoriose combattute dal re e dei territori conquistati grazie al suo coraggio, dimostrato in battaglia, della sua abilità e delle sue sante virtù che lo portarono ad essere umile tra gli umili e a redarguire e punire la superbia degli altri. Da quello che appresi sul suo stile di vita, non mi parve affatto la stessa figura di re o di principe che governavano dall’alto il proprio regno, senza mai scendere dal piedistallo per immischiarsi tra la gente comune, sentirne i bisogni e soddisfarli. Le sue azioni furono, per quei tempi, anzi direi per tutti i tempi passati, presenti e a venire, del tutto eccezionali. Dimostrò apertamente il suo senso democratico, di vero paladino di quella giustizia di cui abbisognano i popoli per ritrovare la pace e la tranquillità delle loro quotidiane azioni. Egli, con passione, partecipava attivamente alle cerimonie religiose, giungendo a cantare al leggio come un qualsiasi monaco del coro. Era realmente e non solo in apparenza, un uomo giusto e buono, tanto che egli soleva affermare: <<a chi ti ruba il mantello, lascia che ti rubi anche la tunica>>. Precursore di San Francesco d’Assisi, egli era in perfetta comunione con quanto il vangelo dettava. Nel giorno dell’inaugurazione del suo palazzo di Etampes, fatto costruire dalla regina Costanza, egli volle dare un gran ricevimento e cosa fa ? Cosa inverosimile ed inimitabile! Non apre le porte del palazzo ai grandi feudatari, ai cavalieri ed alle grandi dame, ma vi ospita i poveri, i derelitti, coloro verso cui la natura si era dimostrata avara. Il più ardito tra loro, si accoccolò ai suoi piedi e si sfamò sotto la tavola di quanto lui gli passava. L'ardimento del povero si fece furbizia, scappò via dopo aver staccato un ornamento di sei once d’oro, un “labello” appeso alle ginocchia del re. Quando, poi tutti i poveri, lasciarono il palazzo, Costanza, si accorse del piccolo furto, ed affrontato il misero ladruncolo, lo insultò soggiungendo che la vittima <<è disonorata>>. Roberto, che non a caso veniva appellato il “Pio” le rispose: <<per quanto mi riguarda, nessuno mi ha disonorato. Voglia Iddio che quell’ornamento giovi a chi lo ha preso che ne ha molto più bisogno di noi>>.

In altra circostanza, un povero pretino della Lorena, di nome Ogier, che il re aveva accolto e destinato al collegio della propria cappella, rubò un candelabro dall’altare, lo nascose sotto il mantello tentando di andare via, ma il furto da lui commesso, venne scoperto dalla regina Costanza, che in preda all’ira, giurò sull’anima di suo padre Guglielmo, che avrebbe inflitto ai guardiani la tortura e che avrebbe cavato loro gli occhi, perché colpevoli di non aver bene sorvegliato. Ma Roberto che aveva visto il pretino rubare, di fronte alla moglie disse di non sapere chi fosse stato il ladro, ma preso Ogier da parte, gli disse: <<vattene se non vuoi che l’incostante Costanza, mia moglie, ti mangi vivo. Quello che hai con te ti basta per permetterti di arrivare al tuo paese natio e che il Signore sia con te, ovunque tu vada>>. E gli donò altre cose, oltre a ciò che aveva rubato, perché al povero uomo non mancasse nulla durante il cammino. Trascorsero alcuni giorni dopo questo episodio ed Egli confidò ai suoi più intimi anici: <<perché mai darsi tanta guerra, per cercare quel candelabro, se il Dio Onnipotente ne ha fatto dono ad uno dei suoi poveri. Dio ha concesso a noi peccatori tutti i beni terreni soltanto per permetterci di soccorrere i poveri, gli orfani, le vedove e tutta la sua gente>>.

Helgaldo continuò su suoi racconti sul conto del suo amato re, che mentre si trovava nella sua dimora reale di Poissy, trovò la sua lancia, che la moglie Costanza aveva fatto riccamente ornare d’argento. Affacciatosi alla finestra, scorse un povero, al quale chiese con discrezione se avesse un qualche pezzo di ferro, per staccare l’argento. Al che il povero si diede subito alla ricerca di quanto richiestogli e trovato un pezzo di ferro lo diede al re e con lui, rinchiusosi nella stanza, ove la lancia era custodita, si diede da fare per staccare il prezioso ornamento d’argento dalla lancia. Al termine dell'operazione, il re Roberto, la regalò al povero, raccomandandogli di tenere ben conservato quel loro segreto. Questi ed altri fatti di vera bontà Helgaldo mi narrò quella sera, mentre seduto al suo fianco, gustavo le pietanze che gli addetti al servizio di mensa mi servivano. Poi fu la volta di Ugo di Beauvais a mettermi al corrente del vero e profondo amore che il re nutriva nei confronti di Berta. Di quanto egli si consolasse nel parlare di lei e di quanto sublimasse il suo amore. Riteneva invece Costanza, bisbetica ed autoritaria, tanto da apparire odiosa ai suoi occhi. Di come la regina Costanza, allo scopo di vendicarsi, perché gelosa delle confidenze che faceva il re, aveva incaricato il cugino Folco Nerra, dell'assassinio del coniuge. L’attentato, che fu messo in pratica durante una battuta di caccia fallì.

Si riaccese la guerra tra Eudo II, figlio di Berta e di Eudo I di Chartres ed il duca di Angiò Folco, che ebbe a cessare improvvisamente nel 1010, epoca in cui Folco Nerra, in preda al pentimento, intraprendesse un secondo pellegrinaggio in Terra Santa.

Ugo di Beauvais mi aggiornò ancora sui fatti che in quell’anno ebbero a verificarsi e di come fu proprio in quello stesso periodo che il re Roberto compì un ben diverso viaggio. Infatti, si recò a Roma, in compagnia di Berta, sia per porgere le scuse al Pontefice Giovanni XVIII, la cui autorità era stata gravemente offesa durante il Sinodo che si era tenuto ad Orleans e sia per offrirgli una qualsiasi forma di riparazione, sperando in cambio di ottenere naturalmente l’autorizzazione a ripudiare Costanza e riprendersi Berta quale suo unico amore. Quell’amore, era dunque durato nel cuore di Roberto, per molto tempo. Egli l’amava veramente ed ardentemente e quello che più colpisce e che Berta, nata probabilmente intorno al 964, aveva allora compiuto i quaranta anni, per cui si può ritenere che a quel tempo la bellezza di una donna fosse già sfiorita. Ma per Roberto aveva ben poca importanza, perchè la sua fedeltà per quel suo amore, la innalzava al di sopra di ogni bellezza e di ciò il re, ne offriva una bellissima testimonianza, che faceva onore al suo carattere ed alla sua dignità di uomo e di regnante. Ma il viaggio compiuto a Roma, non diede i frutti sperati, perché fece ritorno in Francia, tornando a convivere con Costanza, giungendo, solo per amore di Dio, ad amarla.

Pur sognando di re Roberto, mi sono fatto di lui una magnifica opinione. Egli mi parve un secondo Gesù che, sceso sulla terra e da re terreno abbia governato la sua gente. in maniera giusta, saggia e caritatevole Ammiravo le sue opere quotidiane di cui Helgaldo, mi aveva narrato lo svolgersi. Scorgevo in lui la carità del suo vivere quotidiano, il suo disprezzo nella profusione dell’oro, delle stoffe pregiate e delle vivande costose e a dispetto di quanto apparentemente potrebbero formare l’immagine di un’epoca florida, quale essa, in realtà non era, tenuto conto della povertà più nera che regnava in quell’epoca. Egli si ergeva, quale paladino e difensore della misera sorte degli umili e dei miseri che formavano il più della popolazione del suo regno.

Ma fu solo il mattino seguente, quando svegliatomi dal sonno ristoratore, che ebbi nella mia mente, il ricordo di quanto nel sogno quei due cavalieri mi avevano narrato e che diligentemente ho affidato alla penna nella maniera più fedele possibile.

Vi ho narrato, di gesta, di amori, di atti di bontà e di carità compiuti da uomini, le cui ceneri, da oltre mille anni sono volate via come polvere sparsa dal vento, della cui virtuosa vita rimane solo il ricordo sbiadito. Quelle azioni e quelle gesta, essi le compirono non perché esse venissero solo ricordate, ma ciò che a me piace rammentare e precisare che vennero esplicitate in modo spontaneo, per stile di vita e di sante abitudini, adempiendo così il bene tanto predicato e promulgato dal nostro Signore Gesù Cristo.

Chi beneficiava di tutto ciò, era quell’umanità sofferente e misera che sempre popola questo nostro mondo. Solo questo è l’insegnamento di coloro i quali vissero prima di noi e sta solo a noi e alla nostra Società, tanto egoista come non mai e molto avara nel concedere, continuare a percorrere quella luminosa strada del bene, lastricata da opere d’amore e di misericordia verso i propri fratelli, il nostro prossimo.

 

 

Brindisi, 21 aprile 2010.

Antonio TRONO