La F U I T I N A

 

di Antonio Trono


 

Desidero dare inizio a questo mio nuovo episodio con una frase letta da qualche parte che così recita: “ la parola scritta ha un potere enorme; i libri amano chiunque li apre perchè attraverso i libri, seppure chiuso in una stanza, conosci il mondo e la notte dei giochi”.

Ahime, come è cambiato il mondo! Quanta acqua è fluita sotto il ponte del tempo. La maniera di  vivere dell’uomo non è più la stessa e le usanze ed i costumi sacri  ad ogni popolo, non sono più quelli di una volta.

I fattori e le ragioni che hanno modificato le nostre abitudini di vivere, sono diversi e prima di passare con il narrarvi il racconto, che mi prefiggo di narrare, ho la ferma intenzione di dirimere        e di passare in rassegna alcuni di essi.

La degenerazione della politica, nel  sistema democratico di governo della  nostra Nazione, non ha poche colpe.

Da molti decenni, infatti, l’avidità sempre più crescente degli uomini che ci rappresentano, ha preso il sopravento sulla corretta amministrazione della “ res pubblica”, per cui gli stessi uomini che avevano l’obbligo costituzionale di regolare sempre di più e al meglio la vita legislativa e socio economica del paese, approvando buone leggi di interesse nazionale, hanno solo pensato  ed attuato esclusivamente a promuovere leggi ad personam o, di interesse privato delle molte lobbies che hanno sempre difeso e continuano a difendere strenuamente i privilegi acquisiti dei soliti pochi. Ma nell’ormai lontano 1947, i Padri Costituenti, ciò non volevano, per cui oggi assistiamo al continuo defilarsi dei partiti e della politica in generale dalle loro responsabilità e quello che resta di più grave è che il cattivo esempio dato dal loro comportamento, ha fatto precipitare l’intero paese, nel pantano del mare morto della corruzione, della disperazione e della negazione in assoluto di tutti quei valori morali dei quali, il nostro popolo una volta era fiero.

A questo di per se grande male, si aggiunge la globalizzazione, che di fatto ha costretto l’uomo al servizio dell’economia e non il contrario, obbligandolo alla schiavitù del lavoro e non liberandolo, lo costringe a lavorare sempre di più per guadagnare una fetta di mercato sulle piazze del mondo. La globalizzazione dei mercati ha posto in contrapposizione l’Oriente  e l’Occidente, in quanto il primo,  privo di leggi sul lavoro, schiavizza i propri popoli obbligandoli a produrre sempre di più a basso costo merci che hanno sommerso i mercati del mondo, mentre  l’Occidente, attenendosi alle leggi sul lavoro esistenti, frutto di secoli di conquiste sociali, produce ad alto costo, strozzando così la propria economia. Ciò ha portato una profonda crisi economica che a colpito tutti i paesi del mondo Occidentale, causando chiusure di imprese e suicidi di massa.

Nel contesto occidentale, dove vigono leggi permissive e rispettose dei basilari diritti della persona, al pari delle merci possono circolare liberamente le persone, per cui è avvenuto che nel nostro paese, si sono riversati milioni e milioni di individui, provenienti dai paesi dell’Est Europeo, dell’Est Asiatico, dell’Africa. Se da un lato, hanno contribuito ad arricchire le nostre conoscenze, dall’ altro lato, hanno fatto cadere nell’oblio le antiche e nobili consuetudini, delle quali andavamo orgogliosi, e di loro è rimasto il ricordo, che viene rammentato di tanto in tanto, dai mass-media nelle varie ricorrenze di festività patronali o, nei programmi di “ come eravamo”.

A quanto detto, si aggrega il degrado dell’Istituto del “ matrimonio “  e conseguentemente della  famiglia. Degrado che ha avuto inizio sin dagli anni “ 70 “ del secolo scorso, quando la Chiesa Cattolica, precorrendo gli attuali tempi ed intuendo gli allentamenti dei costumi, attraverso i suoi Parroci, ebbe ad istituire i corsi di formazione prematrimoniali onde preparare i giovani promessi sposi ad affrontare con coscienza e serietà la vita matrimoniale che li attendeva.

Malgrado ciò, da una statistica effettuata è risultato che ogni anno (dato 2010) vengono uniti in matrimonio 217 mila coppie, delle quali 84 si sono separate e 56 mila hanno divorziato.

A quell’ epoca, parlo della mia ormai vecchia generazione, noi ancora giovani, gelosamente conservavamo e continuavamo a rispettare gli insegnamenti di etica e di ordine sociale, che i nostri genitori ci avevano tramandato in eredità. Sussisteva ancora la parola d’onore data e rispettata, il rispetto del prossimo, povero o ricco quale egli fosse e quali figli molto obbedienti ai nostri padri, ritenevamo sacro l’Istituto del matrimonio.

 La famiglia rappresentava per noi lo Zenit delle nostre aspirazioni, da sopportare con amore e devozione finché le nere ali della morte non avrebbero disperso i nostri giorni. .

Scarsi o rari erano i maltrattamenti in famiglia che venivano denunciati e, se questo volesse dire che non se ne verificassero, sarei falso ed ipocrita, ma sta almeno a dimostrare che tali reati, erano una vera vergogna, degna di gogna, per quel padre o coniuge colpevole di tali misfatti.

Da quel lontano passato, gli anni ed i decenni, velocemente si sono succeduti e, come l’acqua di un fiume che tutto travolge e tutto cambia, durante la sua corsa  verso il mare, così la mia vita è trascorsa ed ora mi ritrovo incanutito e vecchio dinanzi ad un interminabile e nero tunnel di ricordi, che solo la balenante luce della memoria riesce a lumeggiare ed attraverso di essa, riesco a rivivere  episodi della mia vita passata che così come mi sovvengono, mi prodigo a raccontarvi.

Certamente, voi direte, come fai a ricordarti a distanza di tanti decenni di tanti episodi che ti sono accaduti? Ed io vi rispondo sinceramente che tali ricordi, a volte, sovvengono alla memoria, per analogia o contrasto, con episodi che attualmente si verificano in questo nostro mondo. Altre volte è lo stesso caso od il destino, che mi fa ritrovare tra le vecchie carte del mio passato di militare dell’Arma dei Carabinieri, documenti o copie di essi che ancora conservo gelosamente.

Ed è proprio di una copia di una querela, che rinvenni l’altro giorno, rovistando tra quelle carte ingiallite dal tempo, del cui contenuto voglio narrarvi.

Poiché si tratta di episodi della vita di  uomini e donne, realmente vissuti ed esplicitati in quel documento, fatta eccezione per la data della ratifica, che sarà quella vera, cambierò i loro nomi, rendendoli orecchiabili nel suono e ciò serve per aiutare la fantasia dell’autore, il quale traendo storie e personaggi dalla realtà, si rende libero delle sue invenzioni e controlla il destino degli stessi nel racconto.

Dell’atto della ratifica, che avvenne alle ore 19 della giornata del cinque agosto 1967, mi soffermo solo per evidenziare che il querelante, era un contadino analfabeta.

Prima di passare innanzi, non vi nascondo che nel leggere il contenuto della querela, ho avuto delle perplessità, per rimembrare, a distanza di tanti decenni come avvenne l’incontro con il querelante? Quale fosse in realtà il dramma che egli denunciava, in quel tardo meriggio della giornata calda dei primi d’agosto, allorquando il sole cocente era già tramontato? Quale era il suo aspetto fisico? L’amarezza che dimostrava attraverso i suoi gesti, le sue stentate parole ed il tratto del suo insieme, nel momento in cui mi presentava quello atto di accusa sporta nei confronti del seduttore della sua tanto amata figlia?

Ma poi man mano, me ne è venuto il ricordo, guardando attentamente con gli occhi della mente, il fondo dell’insieme delle immagini di persone varie e mutevoli, che il caleidoscopio dei ricordi del passato mi offriva.

Mi rivedo come ero, ora per allora, in quel paese della Sicilia Occidentale. Verso le ore 19 del cinque agosto 1967, ero seduto  nel mio ufficio, di fronte alla macchina per scrivere, con la finestra aperta, perché arieggiasse la stanza, intento a completare un rapporto giudiziario da inviare alla Magistratura. Con me, alcuni miei collaboratori, tra i quali l’immancabile Appuntato Sanfilippo, silenziosi e taciturni per il caldo soffocante, malgrado l’ora tarda della sera erano con me occupati a smaltire pratiche burocratiche, sino alle ore 20, orario determinato dal Regolamento  Generale dell’Arma, per il termine del lavoro d’ufficio giornaliero, quando il militare di servizio alla caserma, annunciò la presenza del Signor Angelo Cravatta, che desiderava conferire con me per la presentazione di una querela.

Lo feci accomodare ed il suo apparire nel mio ufficio, fu d’impeto e colmo di un rancore mal trattenuto.

Il Signor Cravatta aveva circa cinquanta anni, ma ne dimostrava molti di più. Il fisico obeso e quasi semicurvo, era chiara evidenza dei segni lasciati dagli strapazzi, dovuti al lavoro della terra quotidianamente sostenuto. Dal suo viso, coperto di rughe e cotto dal sole, si notava come egli avesse sin da fanciullo lavorato la terra e come quella stessa terra gli fosse penetrata nelle viscere e nel sangue.

Indossava il vestito color grigio scuro della domenica, mangiato dal sole e dalla spazzola, un cappellaccio stinto che reggeva con la mano e calzava un paio di scarponi di un colore  indefinito. Mi porse con fare titubante e con il viso atteggiato a vergogna il documento in carta bollata da lire quattrocento della querela e con voce tremante mi disse solo di “ volere giustizia”.

Lo feci accomodare e lessi il contenuto, dal quale rilevai che egli, quale padre esercente la patria potestà sulla figlia minore Giovanna, denunciava il ratto della medesima, avvenuto in paese nella notte del quattro agosto 1967, ad opera di certo Salso Salvatore, abitante nella Via Campania n.15, chiedendo la punizione del colpevole e con espressa dichiarazione che, nel caso che il ratto fosse avvenuto consensualmente con la medesima minorenne, intendeva querelarsi in subordine, anche per la violazione di domicilio.

Passava a descrivere l’accaduto, asserendo che verso le ore cinque e trenta del giorno quattro agosto, essendosi la moglie alzata per chiamare la figlia Giovanna, con la quale doveva fare il pane e non ottenendo risposta, entrata nella sua stanza e non trovandola nel letto, era andata alla ricerca della stessa bussando nelle adiacenti case dei vicini, i quali trovarono strana quella richiesta. Un contadino che si apprestava nel recarsi in campagna, intervenuto nella conversazione, affermava di aver visto la signorina Giovanna insieme al giovane Salso Salvatore, allontanarsi a bordo di un auto. Altre notizie nel merito non aveva appreso per cui si riservava di costituirsi parte civile nel dibattito penale.

Ricevuta la querela, lo tranquillizzai affermando che sicuramente sarei stato in grado di risolvere la questione che tanto lo angustiava ed egli alquanto rincuorato andò via, salutandomi con un “baciamo le mani a Vossia”, che stava a significare un riconoscente segno di rispetto nei miei confronti, modo di dire che si usava in Sicilia ai tempi dei Borbone, e che stava a significare “ baciamo le mani a Vostra Signoria “.

Quella sera assieme all’Appuntato Sanfilippo, facemmo del lavoro straordinario, non retribuito, come era consuetudine di allora.

Trascorremmo il nostro tempo libero, lontani dalla famiglia, in Via Campania, intenti a ricevere le dichiarazioni dei vicini di casa del Cravatta, attraverso le quali apprendemmo che i due giovani fuggitivi, già da tempo si amavano e frequentavano e che sicuramente il ratto era avvenuto esclusivamente per motivi di interesse, in quanto il Cravatta, attraverso il suo incessante lavoro nei campi ed il preservare dei guadagni nel tempo, era riuscito ad acquistare diverse salme di terreno, ben produttive, che gli consentivano di vivere in maniera più agiata la propria esistenza al contrario di quella che volutamente egli manifestava nel suo vivere quotidiano e non desiderava affatto che il giovane Salvatore, divenisse suo genero. pur essendo un bravo figliolo ed un ottimo lavoratore, ma che rimaneva sempre un misero bracciante agricolo.

Dal contadino che aveva visto la coppia dei fuggitivi, allontanarsi a bordo dell’auto la mattina precedente, apprendemmo che si trattava di una Fiat 1100, color nero della quale ci forniva la targa che apparteneva al noleggiatore d’auto del luogo, tale Agreste Giovanni.

Ascoltai anche la versione fornitami dalla moglie del Cravatta e madre di Giovanna, dall’aspetto mite e remissivo, di altezza media e di una bellezza ormai sfiorita dagli anni di duro lavoro patito, che mi confermò piangendo la versione fornitami dal marito ed alla mia provocatoria domanda se era vero che vi fossero motivi di interesse ad ostacolare il matrimonio dei due, per come mi avevano riferito i suoi vicini, ella non seppe darmi alcuna risposta, ma dalla mutata espressione del suo viso, che d’improvviso manifestò un rossore alle gote più accentuato, intuì che avevano detto il vero. Tale mia intuizione, contribuì a farmi comprendere l’acredine dimostrata dal  Cravatta, con quel suo volersi in subordine querelare, nei confronti del giovane Salso, per la violazione di domicilio, compiuta a suo dire nel momento della “fuitina”, chiedendone la punizione. E ciò, non era affatto dimostrabile, perché non era stato il Salso a penetrare nell’abitazione, bensì la figlia Giovanna ad uscirne per fuggire da quella casa.

Così ebbe termine, quella giornata del cinque agosto 1967, quando a tarda notte, sia io che l’Appuntato Sanfilippo, facemmo rientro nelle nostre rispettive abitazioni.

L’indomani mattina, fatto convocare nel mio ufficio l’Agresti Giovanni, dallo stesso, appresi che all’alba del quattro agosto, aveva accompagnato i due fuggiaschi, nel comune di San Polito, presso l’abitazione di una zia del Salso, situata al numero civico 10 della via San Domenico.

Accompagnato dall’inseparabile mio più stretto collaboratore, Appuntato Giuliano Sanfilippo,  a bordo dell’auto di servizio, raggiunsi quel centro, che era nella giurisdizione del Mandamento della Pretura, della quale come ricorderete, ricoprivo le funzioni di comandante della squadra di Polizia Giudiziaria 

Nella casa della zia Domenica, incontrai i due innamorati ed il mio arrivo fu per loro di un tale turbamento che li sconvolse. Tra un fiume di lacrime, flebilmente  e confusamente si accusavano  l’un l’altro, della colpa dell’accaduto. Poi quando entrambi, ebbero rasserenato i loro animi, tornata la calma, fu Giovanna, dall’aspetto esile e minuto, dal viso dolce, incorniciato da nerissimi capelli fluenti e dagli occhi neri e splendenti, che in maniera pacata e serena ebbe a narrarmi del suo lungo fidanzamento con Salvatore, dell’amore vero e sincero che a lui la univa e dalle botte che il padre, quotidianamente le somministrava, nel vano tentativo di allontanarla dal fidanzato, perché a suo dire lo riteneva un povero e misero bracciante senza proprietà e ne parte.

 Ella, voleva sposarsi a tutti i costi con il suo Salvatore, rinnegava le ricchezze del padre, tanto era già abituata a condurre come conduceva, povera vita e che simile vita avrebbe continuato a fare con il suo amore, che quella vita con il suo lavoro, le prometteva.

Poi fu la volta di Salvatore, un bel giovane, dalla pelle abbronzata per la quotidiana esposizione al sole, dagli occhi nerissimi e vivissimi, indossava un abito dimesso, ma pulito ed ordinato, che seduto a fianco di lei, espresse i suoi pensieri d’amore che si equilibravano perfettamente con quelli pronunciati dalla fidanzata. Egli era sicuro e certo dell’amore di lei, tanto da essere entrambi ben preparati ai disagi della onesta povertà che li attendeva; della ricchezza del suocero, nulla lo interessava  ed avrebbe sposato la sua amata Giovanna, anche senza camicia.

Manifestate le loro sincere e sentite dichiarazioni, mi diedero la convinzione che si trattasse di vero amore, di quello amore che pur appagando se stesso, appagava entrambi, facendoli divenire la stessa acqua di un ruscello che scorre  limpida e chiara nell’ubertosa campagna che lo circonda.

Dopo aver raccolte le loro deposizioni, li lasciai liberi di rimanere in quella abitazione della zia e feci rientro nel paese di servizio.

Durante il tragitto di ritorno, discussi a lungo con l’Appuntato Sanfilippo sulla certezza e sulla veridicità di quanto i due avevano asserito, e confortato dal suo parere positivo, me ne feci una ragione di come l’amore prende possesso e travolge la vita, per cui convenni che sarebbe divenuta per me, una vera opera meritoria, convincere il Cravatta padre a rimettere la querela ed a fare unire i due in matrimonio.

E così avvenne, la querela venne rimessa, i due celebrarono in Chiesa il loro matrimonio e con la felicità di entrambi venni anch’ io invitato alla loro cerimonia, che fu tanto felice e sostanziosa da essermene ancora ricordato.

 

Brindisi, 22 aprile 2012.

 

Antonio TRONO