Il diadema del Carmelo

Il palazzo dove vivevano i Signori Gesualdo e Giulio Buonsenso, era un po’ decaduto. Ormai la ricchezza di quell’infelice casato era andata via.

Le foglie morte degli alberi che un tempo vegetavano rigogliosi nell’ampio cortile, erano sparse sul pavimento e nessuno dei tanti domestici, che una volta proliferavano tra quelle mura, le ramazzava più.

Agli occhi del rarissimo e per questo insolito visitatore che avesse salito la scalinata che conduceva alle molteplici stanze dei piani dove alloggiavano i proprietari, si presentava lo spettacolo di scorgere fugacemente delle colonne di minuscoli topolini provenienti dai granai, dove quello che ne era rimasto, era ormai poco e di cattiva qualità.

Molti di quei bellissimi arazzi, che una volta coprivano le pareti delle grandi stanze, molti mobili di artistica fattura e di altre cose preziose, erano state vendute. Le centinaia di salme di terreno produttivo, erano state prima pignorate e poi vendute all’asta pubblica ed i contadini avevano lasciato quelle poche terre rimaste, non più produttive, temendo l’arrivo della penuria.

Ora quei campi erano infestati da erbacce, mentre il vento distruggeva i modesti raccolti. Le stalle e le rimesse, che una volta contenevano splendidi animali da latte ed auto di lusso, erano ormai vuote.

La povertà, pian piano, si stava appropriando di quei luoghi, facendo dimenticare agli abitanti del paese, che un tempo, insieme al palazzo, erano stati il simbolo dell’abbondanza, della ricchezza, dello splendore e della gloria di quella famiglia molto, ma molto agiata.

Pareva proprio che dei perniciosi influssi, avessero attorniato quelle mura e che avessero influenzato coloro che in esse abitavano.

Proprio quegli influssi erano stati all’origine della rovina, del deterioramento, delle imperfezioni, dei dolori, dei dispiaceri, della pazzia, delle malattie della morte e l’assassinio, delle ultime generazioni di quello sfortunato casato.

Era come se il sigillo del male, fosse stato impresso su quell’edificio, da certe combinazioni di effetti materiali ed artificiali che avevano fatto confluire lì, più facilmente che altrove, le influenze maligne.

Com’è noto, vi sono cose e luoghi, conosciuti per tutta una serie di sciagure e crimini; come pure esistono certi oggetti, ad esempio gioielli, il cui possesso si accompagna a disgrazie.

Tali luoghi o cose, sono ricettacoli del male.L’origine della ricchezza del casato dei Buonsenso, erano stati i gioielli e del male che essi produssero vorrò narrarvi.

Inizierò col riportare, per come mi è stata raccontata, la vita del capostipite di quella famiglia, Don Gesualdo  Buonsenso, egli stesso all’origine delle sciagure che su di lui ed i suoi discendenti, si sarebbero abbattute crudelmente.

Egli era nativo della multietnica e meravigliosa città di Palermo. Aveva iniziato il suo apprendistato in una delle tante botteghe di oreficeria, esistenti nell’elegante Via Maqueda.

Lì apprese le prime rudimentali cognizioni dell’arte di lavorare il nobile metallo che lo portarono ad avere il contatto fisico, spirituale, materiale e visivo con lo splendore del giallo dell’oro e delle pietre preziose.

Con gli anni a venire, con metodicità pian piano, acquistò la piena padronanza della professione, tanto che all’età di diciotto anni divenne un esperto intenditore nel campo delle pietre preziose. Sapeva a prima vista riconoscere e distinguere, senza tema di smentita, il candido biancore degli avori, la trasparenza dei cristalli, il rilucere brillante delle gemme di ogni genere e dimensione. Riconosceva solo con un fugace sguardo, la preziosa sublimità del giacinto, del topazio, del rubino, dello zaffiro, dello smeraldo, del crisolito, dell’onice, del carbonchio, del diaspro e dell’agata. A quella sua giovane età, era già considerato un vero maestro nell’arte dell’oreficeria. Creava con le pietre preziose, l’oro e l’argento, dei veri capolavori, tanto da essere paragonato ad un secondo Benvenuto Cellini, per la sua mirabile capacità di produrre delle meraviglie davvero eccezionali.

A venti anni, nell’alto mondo della moda e del design, era molto conosciuto e ricercato, tanto che le sue meravigliose lavorazioni, considerate vere opere d’arte, venivano esposte e vendute a caro prezzo, nelle  più prestigiose ed eleganti boutique delle capitali Europee e nelle metropoli d’America.

Divenne molto facoltoso e si trasferì a Parigi, dove aprì una sua bottega con annesso laboratorio.

Nel 1919 la città brulicava di una moltitudine di nobili zaristi, decaduti, fuoriusciti dalla madre Russia, ormai Sovietizzata e proclamata Repubblica Popolare Democratica, guidata dal triunvirato dei capi rivoluzionari, Lenin, Trotsky e Stalin.

L’intera famiglia dei Romanov del debole Zar Nicola II, nel luglio del 1918, era stata completamente sterminata dai bolscevichi ed i suoi seguaci si erano rifugiati nell’accogliente, libertaria città di Parigi, ove si adattavano a vivere una vita mediocre, svolgendo altrettanti mediocri mestieri di taxisti e di camerieri.

Non erano ancora trascorsi che pochi mesi dalla fine della Grande Guerra e la vita della metropoli, viva come non mai, aveva ripreso il suo corso. Le strade, i giardini, i caffé, come i ristoranti ed i locali alla moda, erano frequentatissimi e l’allegra e festante popolazione, aveva ripreso  il solito ritmo del vivere di una volta.

Sembrava che gli orrori, le immense sciagure, le centinaia di migliaia di morti e le enormi distruzioni che si erano abbattute sull’intera Francia e su Parigi, fossero state sepolte da chissà quanto tempo e ormai dimenticate.

Una moltitudine di parigini sciamava per le strade, piene d’allegria, tra il frastuono delle grida di richiamo dei venditori ambulanti, l’alto vociare della gente ed il suono gutturale dei clacson delle auto che tentavano di farsi largo tra la folla gestante.

Una serata fredda e nevosa di fine gennaio, mentre la candida neve cadeva soffice e lenta dal cielo, verso le 18, il nostro, usciva dal suo laboratorio dopo aver dato le ultime disposizioni della giornata alle commesse della gioielleria. Si avviava verso la propria abitazione, quando all’angolo della Rue de Croix, illuminato dalla luce di un lampione, venne avvicinato da un signore elegantemente vestito, di circa quarantacinque anni, senza un capello fuori posto e con quella inconfondibile  caratteristica che segna il vero aristocratico. Si presentò come il Conte Andreievic, e con maniere cortesi, gli chiese se avesse potuto unirsi a lui per quel breve tratto, avendogli da proporre un affare, a suo dire, molto vantaggioso.

Ricevuto il consenso, lungo il percorso, gli disse di possedere un gioiello di inestimabile valore, appartenuto alla defunta zarina Alessandra e che le necessità del momento, per le difficoltà della vita quotidiana, lo costringevano a vendere quel prezioso gioiello, precisando tra l’altro che si era a lui rivolto, riconoscendogli la fama di grande estimatore di gioielli e di pietre preziose.Subodorando l’affare, acconsentì a condurlo presso la propria abitazione, dove il nobile russo, tirato fuori da una borsa di pelle marrone, un astuccio, sempre di pelle marrone scamosciata e consunta, estrasse uno stupendo e meraviglioso diadema aureo, con fascia frontale, nella quale erano inserite ad intervalli regolari ben otto pietre preziose, quali, un giacinto, un topazio, un rubino, uno zaffiro, uno smeraldo, un crisolito, un diaspro e un’agata, con altrettanti pendenti d’oro di squisita fattura.

La preziosa corona, era un regale pezzo di gioielleria, di rara bellezza e di una singolare sublimità, da riscuotere in Gesualdo Buonsenso, una grande ammirazione.

Tentò di nascondere la forte emozione nel toccare un oggetto unico e prezioso, e mostrandosi quanto più professionale possibile chiese al suo ospite quale fosse il prezzo richiesto. Il nobile russo, gli rispose che aveva la necessità di disfarsi di quel prezioso ed a sua volta gli domandò quanto era disposto a dargli.

Stabilita la somma, alquanto elevata, ma assai minore del reale valore del gioiello, venne concluso l’affare, brindando alla maniera russa con della ottima vodka.Rimasto solo col diadema tra le mani, fu come se gli fosse stato iniettata nel sangue una mistura alchemica di distillato diabolico. Si inebriò a tal punto, da sentirsi stregato ed asservito al potere inumano che quella preziosa aureola possedeva ed emanava. Trascorse l’intera notte continuando ad ammirarla, toccarla, riporla nella custodia per poi nuovamente riprenderla e ripetere le stesse azioni ed era come se una potente forza, estranea alla sua volontà, lo costringesse a compierle. Era fisicamente e mentalmente assoggettato al suo volere.Nei giorni che seguirono, attraverso le proprie conoscenze, volle approfondire la vera storia del diadema. Volle sapere a chi realmente era appartenuto e come fosse finito nelle mani del Conte.Attraverso le tante conoscenze, anche numerosi fuoriusciti dalla Russia Bianca, molto fedeli alla famiglia imperiale dello zar, venne a conoscenza che il Conte Andreievic, faceva parte della corte al seguito della zarina Alix von Hesse, divenuta con il matrimonio con Nicola II, Alessandra Fedorovna; che il diadema era veramente appartenuto proprio alla zarina e che lo aveva dato in custodia al Conte, prima che si verificasse da parte dei bolscevichi l’arresto dell’intera famiglia dello zar.Ma ciò che lo colpì maggiormente e che gli venne comunicato solo successivamente, fu la notizia che su quella corona aurea, era stata evocata la maledizione del visionario, depravato monaco ubriacone Rasputin, del quale la zarina era succube e che venne assassinato dal Principe Yusupov, il Granduca Dmijtri Pavlovic ed il deputato della Duma Puriskevic, la sera del 16 dicembre 1916. Volle conoscere i particolari della maledizione e così apprese che il monaco Rasputin, su esplicita richiesta della zarina, con una cerimonia blasfema ed occulta, aveva invocato l’aiuto di Satana, perché colpisse con la più nera disperazione, la morte, l’assassinio, la pazzia, sino alla terza generazione, tutti coloro che, non appartenendo alla dinastia dei Romanov, fossero venuti in possesso del diadema.

Nell’apprendere la nefasta notizia, in un primo tempo, rimase stordito ed inebetito, ma, pian piano riacquistata la lucidità e la serenità dello spirito, tentò di annullare il maleficio, ricorrendo a maghi e maghe di rinomata fama, sborsando cifre esorbitanti ma, constatando che nulla gli accadeva, riprese a vivere la sua vita di prima.La vendita delle sue creazioni in oro, andava sempre di bene in meglio, per cui divenne tanto ricco e famoso per la sua arte, che giunto all’età di quaranta anni, ormai sazio della fama acquisita e dal cospicuo capitale realizzato, volle ritirarsi dagli affari e dopo aver venduto l’avviata gioielleria, fece rientro nella sua terra di Sicilia, ma non nella città di Palermo, dove egli era ancora molto noto, ma in un paese dei dintorni.

Lì, acquistò molte terre produttive e verso la periferia di quel centro, si fece edificare un grande palazzo, dalle grandi e numerose stanze, stalle,  rimesse e con ampi cortili alberati.

Conobbe e sposò una bellissima giovane donna di nome Rossandra, dal portamento altero un perfetto viso ovale, incorniciato da una folta capigliatura di un nero lucente e dagli occhi azzurri, al pari del mare. Dalla loro unione nacque un figlio, rassomigliante alla madre.Era trascorso, appena un anno, quando una malattia improvvisa colpì l’infante, che dopo dieci giorni di lunghe sofferenze, malgrado i medici del paese e della vicina città, lautamente retribuiti, avessero fatto di tutto per salvarlo. Le nere e funeste ali della Morte, sottrassero il bambino definitivamente alle cure amorevoli della disperata madre lasciando il padre in un immenso e taciturno dolore.

Quel primo decesso in famiglia, fu preavviso della malasorte che incombeva latente, minacciosa e persistente, ma don Gesualdo, sia pur mortalmente colpito, era morbosamente legato al diadema, del quale non volle disfarsi, sapendo ormai che la maledizione del monaco Rasputin, aveva prodotto il suo primo effetto.

Del maleficio non aveva detto nulla alla moglie. Teneva per sé quel segreto come gelosamente custodiva il diadema nella cassaforte e non mostrandolo mai ad alcuno.

Il malvagio incantesimo, del quale era divenuto schiavo, lo costringeva e lo portava a rivederlo, a sentirne col tatto la durezza delle pietre preziose incastonate e la brillantezza dell’oro, lo ammaliava completamente.

Passarono i mesi, la bellissima consorte rimase nuovamente incinta ed allo scadere del nono mese, nacque un altro bimbo, al quale venne dato il nome di Donato che allietò la già provata famiglia.

Organizzò una grande e meravigliosa festa, per onorare il lieto evento. Vennero invitati i maggiorenti del paese e molti altri conoscenti della Palermo bene, che colmarono di magnifici regali la moglie e il neonato.

Al pari di una meteora catastrofica, caduta dal cielo, scoppiò il secondo conflitto mondiale, per volere dell’esecranda ed esorbitante presunzione dello strapotente dittatore Hitler e del suo pavido seguace Mussolini. Il mondo intero si sconvolse, facendolo divenire una enorme ardente fornace, alimentata dal sangue di milioni di vite umane e dalla distruzione di intere nazioni.

Da tale immane ed orrendo conflitto, don Gesualdo ne uscì, chissà come e perché immune, continuando a vivere la sua solita vita.

Con tutti questi mali che il mondo attraversava, altri anni trascorsero ed il bimbo cresceva bene ed apparentemente nessun male fisico ne minava la salute.

Sembrava che il maleficio, avesse abbandonato quella sfortunata, sia pur ricca famiglia, ma d’improvviso, come fulmine a ciel sereno, altra disgrazia si abbatté su di essa.Erano trascorsi ben cinque anni e per la gioia dei genitori, Donato, vispo e sereno, cresceva e diveniva sempre più bello, tanto da divenire una delizia, agli occhi della felice madre. Un pomeriggio di fine Aprile, sotto un sole luminoso, ma non troppo caldo, don Gesualdo era nel suo studio in compagnia del sovrintendente, intento a chiarire alcuni aspetti contabili, dei suoi vasti possedimenti; la moglie con la balia, sedevano comode al fresco dell’ampio cortile ed il piccolo Donato giocherellava lì attorno. Un vero quadretto di serena vita familiare che venne scosso ad un tratto da, un singulto che colpì la bella Rossandra che nel breve volgere di pochi minuti fu colta da una morte repentina. Le grida disperate della balia, richiamarono l’attenzione di Don Gesualdo, che assieme al sovrintendente accorse sul posto.  Vane furono le cure del medico che, chiamato telefonicamente, giunse immediatamente sul posto, solo per constatare il decesso.

Questa seconda perdita, raggelò il cuore e la mente di don Geusaldo e pur sapendo molto bene, da dove provenisse quella sequenza di lutti, non seppe distaccarsi dal diadema.Per tenere lontano il maleficio, su suggerimento del Parroco del paese, ricorse ad un amuleto che portava sempre appeso al collo, era un sacchetto di cuoio contenente l’immagine della Madonna del Carmelo, patrona del paese, poi quasi a voler sconfiggere la sventura che lo perseguiva, per un falso senso liberatorio, si abbandonò alla follia, alla vita materiale e godereccia, sperperando parte della sua fortuna in bagordi, con le più belle donne della città vicina.

Intanto il giovane figlio Donato cresceva in salute e bellezza, custodito ed amorevolmente educato dalla balia Giuseppa, che fu per lui una seconda madre e per lei, un figlio al quale aveva donato tutta se stessa.Scarsi e rari erano i rapporti con il figlio, che ormai studente universitario, presso l’Università di Palermo, frequentava la facoltà di medicina. La malia del prezioso oggetto gli aveva oscurato la mente e all’età di sessanta anni, ormai sazio delle frequentazioni femminili, trascorreva il suo tempo nel continuo rimirare di quel prezioso. Gli anni passarono ancora ed egli, ormai vecchio, con le malattie che sul suo corpo, avevano preso il sopravvento, sentiva che la morte era vicina. Non voleva morire, era convinto che c’erano ancora degli anni nella sua vita, per continuare a godere della vista e del tatto di quel prezioso ornamento unica vera ragione per vivere. Non gli pareva giusto che la sua esistenza dovesse finire, come un discorso interrotto, nel bel mezzo del dialogo. Un senso di ribellione si era impossessato di lui. Divenne una ossessione che lo portò a dare chiari segnali del deterioramento delle sue facoltà mentali.

Il figlio, ormai divenuto medico, avvertito dalla sua vecchia ed amata balia, rientrò in paese e resosi conto delle condizioni mentali del padre, pur non conoscendo la causa e sperando di riuscire a farlo rinsavire, chiese soccorso a degli eminenti psichiatri, con i quali si preoccupò di curarlo. Ottenne solo un parziale miglioramento, durante il quale sembrava che la mente del padre, avesse riacquistato l’equilibrio. Fu allora che don Geusaldo mise a conoscenza il figlio Donato dell’esistenza del diadema e della sua maledizione.Venti giorni dopo, don Gesualdo morì, lasciando nel cuore del figlio, un vuoto incolmabile.Donato, al quale era rimasta ancora una discreta fortuna, inclusi, diversi gioielli ed il diadema, si diede ad esercitare la sua professione medica.

Da principio, semplicemente ammirò la preziosa corona, poi con il passare del tempo, anche lui ne rimase affascinato e non passava notte che non si ponesse ad ammirarla. E così anche lui venne colpito dalla malia diabolica del diadema.Passò altro tempo, sposò una sua collega ed ebbe due bellissimi figli, al primo dei quali diede il nome di Gesualdo in ricordo del padre ed al secondo il nome di Giulio, in memoria del padre di lei.E come l’acqua del fiume che ininterrottamente scorre, così scorreva il tempo e gli anni si succedevano agli anni. La famiglia del medico Donato Buonsenso, viveva una vita felice e nessuna ombra turbava la sua serenità. Sembrava ancora una volta, che il maleficio del diadema, avesse dimenticato di turbare i sogni e le speranze di quel piccolo nucleo familiare.

Era un onesto uomo ed un capace ed erudito discepolo della nobile arte di Esculapio e la moglie una brava madre, molto legata alla famiglia, entrambi educavano molto correttamente i due figlioli. Di giorno si dedicava con particolare meticolosità alla cura dei propri assistiti e solo di tanto in tanto, specialmente di notte, quando le tenebre ed il silenzio oscuravano la terra e l’influsso negativo del diadema lo colpiva, trascorreva delle ore ammirandolo, toccandolo, venerandolo.Si poteva ben dire che la famiglia del medico Buonsenso, conduceva una vita regolare e morigerata, nessuno screzio o dissidio la turbava.

Ma la maledizione del diadema, subitanea e inattesa colpì. Accadde una tarda sera del mese di Novembre, mentre Donato Buonsenso era in casa, comodamente seduto davanti al televisore acceso, i ripetuti squilli di telefono, lo scossero dal torpore in cui era caduto sino a pochi istanti prima. Dall’altro capo del telefono, una voce d’uomo, lo pregava di soccorrere un suo parente, che versava in fin di vita, nella sua abitazione situata in una contrada del paese. L’obbligo della sua professione glielo imponeva, per cui a bordo della sua auto si diresse presso il luogo indicato.

Giunto al posto indicato, non trovò però il morente, ma coloro che gli mostrarono subito le reali intenzioni: lo assalirono e lo pugnalarono ferocemente a morte, lasciandolo sulla strada agonizzante, appropriatosi dell’auto, si dileguarono nella notte.Solo il mattino successivo, venne rinvenuto il suo cadavere. In seguito gli assassini vennero rintracciati ed assicurati alla Giustizia, ma il dolore causato, fu talmente tremendo che la moglie nel giro di qualche mese morì anche lei, oppressa dal dolore.I due orfani, Gesualdo e Giulio, giunti, il primo all’età di venti anni ed il secondo a quella di diciotto, entrambi studenti universitari, rientrati in famiglia, dopo l’assassinio del padre, curarono con l’aiuto dei medici la madre ed alla sua morte, scoprirono racchiusa nella cassaforte del padre, il diadema ed altri preziosi, poi in un cantuccio della stessa una busta sigillata con della ceralacca, a loro indirizzata.Aperta la busta, trovarono nell’interno uno scapolare con l’effigie della Madonna del Carmelo e la missiva del padre, nella quale li metteva in guardia dal maleficio che l’oggetto prezioso possedeva, della travagliata vita che il nonno, a causa di esso, aveva vissuto e dello scapolare che il nonno aveva indossato, allo scopo di allontanare da sé il maleficio che dal momento del suo possesso l’aveva perseguitato. Pertanto, li pregava per il bene della loro anima e del loro fisico, di liberarsene al più presto possibile, augurando loro una felice vita.

Benché fossero fratelli, erano assai diversi, Giulio, il più giovane, aveva la carnagione chiara ed i capelli biondi, mentre Gesualdo era di carnagione scura ed i capelli di un nero corvino. Anche di carattere erano alquanto diversi, Giulio era un sognatore ed un poeta. Gesualdo un pragmatico che diffidava del mondo intero.Il loro defunto padre, aveva lasciato le sue terre indivise ai due figli, in modo che ciascuno dei due potesse contribuire, secondo le proprie possibilità a completare l’unione ed a maggiorarne il valore.Nonostante le loro differenze i due si amavano molto. Giovani ed inesperti quali erano nel condurre le terre lasciate dal padre, si affidarono ciecamente per la loro conduzione al sovrintendente che aveva il padre, il quale avido e mai sazio delle ruberie che da tempo perpetrava a scapito dei suoi padroni, portò al fallimento l’ancora vasta azienda agricola, malgrado Gesualdo, sin dall’inizio, avesse cercato ed a buana ragione, di convincere il fratello Giulio, che lo proteggeva, a licenziarlo.

Così, gran parte dei possedimenti terrieri, vennero pignorati ed in seguito venduti all’asta pubblica ed ai due giovani, rimasero solo poche salme di terreno, scarsamente produttive, il palazzo, il diadema ed i rimanenti oggetti preziosi, lasciati loro in eredità.

Trascorse ancora altro tempo e Gesualdo si accorse che Giulio, appariva di giorno in giorno sempre più assente e quasi infatuato da qualcosa che lo attraeva, ma che a lui sfuggiva. Volle indagare e seguendolo con precauzione scoprì che si alzava di notte e rimaneva delle ore ad ammirare stordito le pietre preziose che il diadema conteneva. Non volendo che il maleficio, continuasse a produrre i suoi dannosi effetti, e ben conscio di quanto il padre, con le sue ultime volontà, aveva lasciato loro per iscritto, si rese conto che era necessario convincere il fratello che dovevano assolutamente liberarsi del diadema.

Si diede immediatamente da fare in proposito, riuscendo in un primo tempo a liberarlo della malia, della quale era rimasto vittima e poi, di comune accordo, di offrirlo in memoria del nonno e del padre, alla gloriosa e santissima statua della Madonna del Carmelo, custodita nella chiesa matrice del paese e ciò avvenne tra l’immenso tripudio dell’intero popolo di quel luogo.

Solo così i due fratelli, si liberarono del diadema maledetto e da allora vissero, molto meno ricchi, ma molto più felici e contenti, per gli anni a seguire.

E per chi voglia ammirare lo splendore e la meraviglia di tale preziosità, può farlo ancora oggi recandosi nel paese il sedici luglio di ogni anno, potrà assistere alla processione che al mattino si snoda per le vie del centro, con la bellissima statua della Santa Vergine del Carmelo il cui capo è adornato dal diadema, offerto dai fratelli Gesualdo e Giulio Buonsenso.

 

Brindisi, 15 agosto 2012.

 

Antonio TRONO