Natale 1967

Il mistero di un omicidio rimasto insoluto

 

Nei primi giorni di gennaio del 1968, Franco Pierini, giornalista del settimanale “L’ EUROPEO” fu inviato nel paese della Sicilia dove prestavo servizio nelle funzioni di Comandante di squadra di Polizia Giudiziaria di quella Pretura. L’interesse del noto periodico era determinato da un omicidio avvenuto ai confini del territorio del paese.

Così dava inizio Pierini al suo articolo: «quindici anni fa un uomo andò in prigione per avere ucciso un famoso bandito siciliano, rimesso in libertà, è stato ucciso a sua volta l’antivigilia di Natale. Siamo andati a cercare nel cuore dell’isola, i personaggi di questa vicenda mafiosa dalla quale si ricavano conclusioni pessimistiche; c’è un mondo medioevale in cui si uccide ancora come sempre, con una logica impenetrabile dominata da un muto fanatismo».

Confesso all’amato lettore che forse in ragione dell’età avanzata o della fervida fantasia, a volte mi sembra di attraversare un ponte del tempo e di giungere in un angolo del Tempo Remoto, e di camminare in un mondo che non è più, dove però è ancora vivo il ricordo di cose passate e le cose di allora vivono ancora. Il male visto ed udito; il dolore provato e quel male nel mondo intorno a noi, torna ancora più esaltato e rinforzato, più di come non lo sia stato in passato.

Da quel lontano 1968 ad oggi, molta acqua è passata sotto la macina del tempo e molto di frequente mi chiedo cosa sia cambiato nel nostro bel paese dopo tanti decenni trascorsi.

In verità, devo dare atto, mio malgrado che dati alla mano, nulla è cambiato in meglio, ma tutto è peggiorato. E’ come se le forze oscure del male, tentassero di trascinare il nostro paese, anzi il mondo intero, nel caos della follia.

Al tempo dei fatti che qui narro, solo parte della Sicilia Occidentale, era invasa da quella mala pianta mafiosa. Era però quello il tempo in cui, la mafia cresceva libera e rigogliosa, di paese in paese e man mano si sviluppava producendo frutti acerbi e sanguinosi che distribuivano paura e malessere nella popolazione buona e produttiva di quella grande terra.

Tanto avveniva perché la mafia veniva supportata, tollerata ed alimentata dalla impenetrabile omertà codificata  negli abitanti inermi e paurosi che, per timore di facili ritorsioni, erano costretti a convivere con quei malavitosi. Il continente (l’Italia per gli isolani), era libero da simili consorterie criminali fatta eccezione della punta dello stivale, la Calabria, ove già da tempo cresceva e si rafforzava un’altra associazione mafiosa, la “ndrangheta”.

A qualche anno prima dei fatti di questo racconto (1962), risale la costituzione di una Commissione bicamerale sul fenomeno mafioso, fra i suoi tanti sterili risultati, l’infelice disposizione di relegare e disperdere i mafiosi, già sottoposti a misure di sicurezza nei luoghi d’origine, mediante il soggiorno obbligatorio in città e paesi del continente, (Italia Settentrionale) innestando così la mala pianta della mafia. Avveniva infatti che una volta obbligati alla residenza nelle regioni del Nord Italia, i mafiosi, reclutavano ed ammaestravano al malaffare organizzato gli indigeni del luogo. Con il tempo, questi hanno costituito un vero esercito di associati, che a macchia di leopardo, si sono sparsi lungo tutto il territorio nazionale, divenendo così una mostruosa piovra che con i suoi enormi tentacoli si è impossessata di gran parte delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Non è un mistero che la mafia abbia realizzato aberranti stragi, capaci di sovvertire l’ordine costituito e di seminare la paura ed il terrore tra la popolazione. Non è un mistero, ma cruda e dolorosa realtà quella che ha visto, apparati dello Stato condurre vere e proprie trattative di accordo, con quegli esseri parassiti ed odiosi, che per avidità di denaro e di potere, avevano ingaggiato una vera guerra contro le Istituzioni.

Mi considero l’ultimo testimone superstite di quella falange di prodi, di quel tempo che fu, che con la testardaggine tipica dei Carabinieri di una volta, furono impegnati nel contrasto ai tanti delitti che si verificavano nella bellissima e molto ospitale isola. Ero giovane sottufficiale dell’Arma ed operavo tra le file d’investigatori che della lotta alla Mafia hanno scritto col proprio sangue ed il cui ricordo ancora commuove.

Desidero narrarvi per filo e per segno, come, quando e presumibilmente perché, quel delitto avvenne, delle conseguenze che ne derivarono mentre, ancora oggi, ho dei dubbi su chi realmente lo abbia commesso.

Il mattino di quel 23 dicembre del lontanissimo 1967, verso le ore 8,00, dopo aver dato un bacio alla mia cara e giovane moglie ed una leggera carezza alla mia piccola ed adorata figlioletta Maria Bianca, che lasciai dormiente nella sua soffice culla, mi portai in ufficio.                                                                                                                            

Lungo il percorso, sebbene l’inverno, da pochi giorni, avesse iniziato il suo tempo, osservai, che il sole brillava attraverso le foglie degli alberi di olmi, che alti e lisci, vegetavano lungo la via ancora verdi, malgrado la stagione. Giunto nel cortile della caserma, rimasi per pochi attimi a contemplare  come la rugiada scintillasse sulle foglie gialle dei petali di rosa ed i sottili fili intrecciati delle ragnatele brillavano su ogni cespuglio. Pago di ciò, entrai nel mio ufficio, dove trovai a darmi il buon giorno l’ottimo Appuntato Sanfilippo, del  quale molto ho parlato nei precedenti racconti.

Si era nel pieno periodo Natalizio e molti militari, erano partiti in licenza verso le proprie case di origine, per festeggiare in famiglia il Santo Natale. Il Maresciallo comandante la Stazione, aveva   lasciato con la famiglia il paese, per trascorrere in altro luogo un breve permesso, per cui toccava a me svolgere le funzioni di comandante di Stazione e di quello di comandante della squadra di Polizia Giudiziaria.

La vicina ricorrenza della festività, mi portava a sentire, anche tra quelle vecchie, ruvide e disadorne mura di caserma, il soffio di una timida e gioiosa aria di serenità e di pace che ci faceva sentire tutti fratelli, per cui le allegre e gioiose manifestazioni di esuberanza giovanile dei commilitoni, venivano tollerate e perdonate.

La mattinata trascorse con uguale impegno sul lavoro dei giorni precedenti.

Giunsero le ore 12,00 ed i militari, se coniugati, compreso me, liberi dal servizio, si recarono nelle rispettive abitazioni, mentre gli scapoli ed il militare di servizio alla caserma, il “piantone”, si recarono nella Sala Mensa per la consumazione del pasto del mezzodì.

A casa venni accolto dai trilli di gioia e di allegria della mia adorata figliola e dal volto sorridente della mia cara mogliettina.

Erano le ore 14,30, quando l’Appuntato Sanfilippo, venne a trovarmi in casa, per comunicarmi che i Carabinieri di San Polito, avevano inviato un fonogramma, con il quale comunicavano che nei pressi del confine del nostro territorio, era stato rinvenuto un cadavere di sesso maschile, dell’apparente età di 50-55 anni.

Come di consueto, attraverso lo stesso militare mandai ad avvertire il Vice Pretore ed il medico legale e con l’auto di servizio, verso le  ore 15,30 giunsi sul luogo.

Uno spettacolo agghiacciante si presentò ai miei occhi, quasi esterrefatti, da tanta atrocità.

A circa un chilometro dal piccolo paese di San Polito, in aperta campagna, su di una biforcazione di una “trazzera”, un viottolo, che a destra conduceva ad una grande villa di un certo Magistrato del luogo, ma residente altrove e a sinistra si inoltrava per una altura coperta di alberi di alto fusto di eucalipti per poi perdersi al di là, nella campagna coltivata circostante, vi era il corpo senza vita di un uomo, mentre poco distante, sbalzato tra i cespugli vi era un motocoltivatore di nuova fabbricazione, ribaltato.

Il cadavere era rannicchiato su se stesso, direi quasi raggomitolato e presentava una vasta ferita sul fianco sinistro del corpo, provocata da colpo di arma lunga da fuoco, caricata a pallettoni, esploso a distanza di alcuni metri, mentre altra ferita, più devastante, sparata a distanza ravvicinata, lo aveva attinto al volto, rendendolo irriconoscibile.

Mentre il medico legale, provvedeva ad eseguire l’esame esterno del cadavere e mi confermava che l’assassinio era avvenuto alcune ore prima, da un minimo di tre a cinque ore, considerato il fatto che il corpo, non aveva ancora raggiunto la totale rigidità cadaverica (otto - dieci ore dal decesso). Dai documenti rinvenuti nel portaoggetti del motocoltivatore, appresi che il mezzo apparteneva a tale Ferdinando Caponero, nativo di San Polito, di anni 52 ed abitante in quel centro. Così convenni che l’identità di quel cadavere era quella del proprietario descritto nei documenti rinvenuti..

Mi diedi alla ricerca di tracce, possibilmente lasciate dall’assassino e poiché il cadavere presentava una vasta ferita sul fianco sinistro, mi portai sul lato destro del viottolo dove esisteva un vasto cespuglio di piante di finocchio selvatico, frammisto ad altre erbe spontanee che cresceva attorno ad un albero di pino e nel girargli intorno, notai immediatamente che da un punto preciso, dietro l’albero, la vista spaziava perfettamente sulla “trazzera”. Lì notai come buona parte dell’erba del cespuglio si presentava calpestata di fresco. Rinvenni frammenti di tracce di scarpe chiodate, che poi si perdevano per il viottolo, che rilevai, attraverso dei calchi di gesso e che feci fotografare. Nessun’altra traccia. Ciò fu sufficiente però a ricostruire come molto probabilmente era avvenuto il delitto. Infatti da quel naturale nascondiglio, dove i rametti di erba si presentavano spezzati e calpestati, l’omicida si era appostato, conoscendo molto bene le abitudini della sua vittima e l’ora in cui la stessa, avrebbe fatto rientro in casa. A bordo del motocoltivatore, dopo la giornata lavorativa trascorsa sul suo campo, l’ormai defunto Ferdinando Caponero avrebbe percorso quel tratto di strada campestre. Lì lo aveva atteso l’assassino e da quel  luogo gli aveva esploso il primo colpo di lupara, colpendolo al fianco sinistro, poi vistolo disarcionato e caduto per terra, con calma si era avvicinato esplodendogli l’altro colpo al viso, come per annullare definitivamente dalla sua vista, quel volto tanto aborrito.

Il tempo trascorreva veloce e, dopo aver fatto completare l’esecuzione dei rilievi fotografici, sia sul cadavere, che in quel tratto di campagna, teatro del misfatto, perché il crepuscolo della sera, con le sue prime ombre iniziava ad adombrare la campagna circostante ed il tutto si rendeva indistinto, feci convergere la luce dei fari degli automezzi presenti sull’area del delitto, ed al lume di essa, continuai l’ispezione dei luoghi, mentre il medico legale, continuava il macabro esame esterno del cadavere.

Il tutto ebbe termine attorno alle ore 18,30, quando il medico legale aveva terminato il suo lavoro e il Vice Pretore ebbe dato il suo assenso alla rimozione del cadavere, che a mezzo di un carro funebre, chissà come e da chi informato, venne condotto presso la sala mortuaria del vicino paese di San Polito.

Il motocoltivatore venne affidato ad una guardia giurata, di nostra fiducia, perché lo tenesse in custodia giudiziaria e dato che il buio della sera rendeva imprecisa ogni cosa, rimandai all’indomani mattina, l’altra ispezione dei luoghi, per constatare alla nuova ed illuminante luce del giorno, se l’assassino avesse lasciato, nel corso del delitto, altri indizi o tracce utili al fine della sua identificazione.

Lasciai la zona assieme al mio collaboratore Sanfilippo, e facemmo rientro nella nostra residenza di servizio. Ma quello che mi colpì maggiormente, nel corso del sopraluogo, fu la completa assenza sul luogo del delitto, dei familiari dell’ucciso. Abituato come ero, in simili occasioni, ad assistere alle scene di selvaggio dolore manifestato dai parenti.

Rientrato in caserma, oltre a diramare il fonogramma di competenza al Comando di Compagnia, fornii telefonicamente all’ormai defunto Tenente Colonnello, allora Capitano, Giovanni Petralito, questo era il suo nome, un resoconto completo dell’omicidio avvenuto e, solo a tarda notte, potei tornare ad abbracciare mia moglie e la mia piccola adorata figlioletta.

La mattina seguente, quando l’alba divenne luminosa, mi levai dal letto e dopo una frugale colazione, mi portai in caserma ove era ad attendermi il fidato Appuntato Sanfilippo.

Quel 24 dicembre, dal cortile della caserma, dopo aver osservato il pallido sole che lentamente avanzava nel cielo, da dietro le lontane montagne, mentre l’aria era ancora pungente ed il vento continuava a soffiare da Nord, salii sull’auto di servizio che condotta dal fido graduato, mi portò nuovamente sul luogo del delitto, dove trascorsi circa un’ora e precisamente dalle ore 8,00 alle ore 9,00 ispezionando nuovamente gli spazi antistanti, ma altre novità non vennero fuori, per cui mi recai presso il Comando Carabinieri di San Polito, ove trovai il mio Capitano ad attendermi. 

Gli consegnai il processo verbale d’ispezione dei luoghi che egli trovò conciso, preciso e ben relazionato nella forma e nella sostanza .

I giorni della vigilia e del Santo Natale, li trascorremmo in quella caserma, occupati nel consultare il carteggio esistente in luogo che riguardava la vita trascorsa del defunto. Mi sovviene alla memoria, un aneddoto che desidero raccontarvi su quanto avvenne la mattina della festività, quando verso le ore 9,00 giunsi in caserma e trovai il Capitano seduto dietro la scrivania di comando che mi accolse con la seguente frase: «il Capitano sta qui ed il Brigadiere, arriva dopo». Al ché, prontamente gli risposi: «Signor Capitano, Le ricordo che oggi è Natale». Abbozzò un mezzo sorriso e tutto fini lì.

Riprendemmo lo studio e l’analisi del carteggio e così apprendemmo del passato alquanto burrascoso di Fernando Caponero; che circa 15 anni prima era stato coinvolto, da un suo compare, tale Pasquale Amorreo, nell’omicidio del bandito Antonio Rugliano, latitante  ricercato, dopo essere fuggito con il bandito Randazzo, dal carcere del capoluogo di provincia. I due furono condannati a 14 anni di carcere. Di quei 14 anni, egli ne aveva scontati 12, ed era stato messo in libertà nel 1964, con tre anni di vigilanza speciale che erano scaduti nel maggio dell’anno decorso. Una volta tornato definitivamente libero, dopo tanto tempo, aveva ripreso a lavorare la sua terra, che coltivava con l’aiuto di un motocoltivatore, acquistato da poco e con il quale si recava nella sua azienda agricola. Altre notizie, non apprendemmo dallo studio del fascicolo che lo riguardava.

Ma a noi investigatori, oltre a conoscere i suoi precedenti penali, alquanto burrascosi, che ci inducevano ad orientarci verso il delitto mafioso, eravamo portati a ritenere che egli potesse essere stato ucciso per vendetta da tenaci amici del bandito Guglielmo e volevamo sapere e scoprire chi era quell’uomo che aveva condotto a termine la sua vendetta.

Così il Capitano mi inviò ad indagare in quel minuscolo paese, tanto colmo di segreti e di omertà tanto palesi. Infatti, i giorni si succedevano ai giorni e dei tanti e tanti personaggi del luogo da me sentiti, nessuno parlava e nessuno sapeva e tanto meno nessuno ricordava nulla di tutto ciò che riguardava l’ucciso, la sua vita e la sua storia. Solo la moglie e la sorella dell’ucciso addossavano il delitto a qualche invidioso del suo lavoro tranquillo della sua terra, dei suoi mandorleti e del suo grano. E queste furono le uniche confessioni fattemi ed alle quali certamente non credevo.

Ricordo l’intervista che diedi all’inviato del settimanale “L’Europeo”, in quel tanto lontano periodo, quando giovane ed esuberante così mi espressi: «Non parlano, non parlano, non vogliono parlare. Provateci voi a vedere se gli tirate fuori qualcosa. E’ gente chiusa che vive in un mondo impenetrabile. I forestieri li chiamano “ stranieri “.  Non mi fate dire quello che non posso dire: io qui ci vivo e ci devo lavorare. Mafia? Lasciamo stare, non lo so se c’è ancora o se è una storia del passato. Qui si sente soltanto un gran silenzio. C’era una folla l’altro giorno al funerale dell’ucciso, una folla immensa. Un’ora dopo gli stessi che erano al funerale dicevano che non sapevano chi era il morto, e il paese conta si e no tremila abitanti, si conoscono tutti».

Continuavamo a battere la testa contro il muro. Eravamo esasperati da tutto quel silenzio. Letteralmente stavo diventando matto per capire certe cose che sicuramente tutti sapevano e nessuno voleva dire. Il Sindaco del paese mi disse che il suo, non era un paese di mafia ma un paese laborioso dedito all’agricoltura e che i delitti venivano da fuori. Gli risposi che molti del paese sapevano da dove venivano ma non me lo dicevano. Ricordo ancora la sua risposta: «E che cosa devono dire?».

Per misurare a qual punto, arrivasse l’omertà degli abitanti di quel piccolo centro, è sufficiente riscrivere quanto detto da Franco Pierini, l’inviato del già citato settimanale, messosi alla ricerca di notizie in una macelleria del luogo: il macellaio: «vogliono salsicce? Sono fresche, qui vengono a prenderle anche dalla lontana città». «No, senta e ci scusi, tutta la mattina suo nipote è stato interrogato dal Capitano dei Carabinieri, vero? Come è andato?». «Ah si? Non lo sapevo. Io ho dormito oggi. Sa sono vecchio ormai, non mi interesso più di niente». «Ma si tratta di suo nipote». «Dormivo, signore».

Il tempo lentamente ma inesorabilmente consumava le corte giornate invernali, mentre noi imperterriti e risoluti continuavamo a interrogare le persone del luogo e quando ne sentimmo una gran parte del paese, sempre con lo stesso esito infruttuoso, approdando nel nulla del nulla. Verso la fine del mese di dicembre, decidemmo di abbandonare il paese di San Polito, e rientrammo in quello ove prestavo servizio.

Li studiammo tutti, gli omicidi avvenuti negli anni 1950-55, periodo in cui l’escalation di assassini raggiunse il culmine. In quel lasso di tempo vennero fatte fuori tra le otto e le dieci persone, partendo dal 10 aprile 1952, quando fu eliminato il famoso bandito Antonio Guglielmo, evaso da quattro mesi dalle carceri del capoluogo di provincia. Questi era, un personaggio temibile: piccolo, agilissimo, scappato già tre volte dalle mani dei Carabinieri. Fu sicuramente un giustiziere della mafia. Ma a un certo punto si era messo a taglieggiare i proprietari terrieri, con sequestri ed estorsioni e la mafia lo aveva condannato a morte. E i suoi killer, questa volta, erano stati Ferdinando Caponero e Pasquale Amorreo.

Nel corso del processo, entrambi si dichiararono innocenti. L’Amorreo dichiarò falsa la confessione strappatagli nella fase istruttoria, con la quale aveva dichiarato che assieme al Caponero, aveva attirato il bandito Guglielmo in un agguato durante il quale lo avevano ucciso. Riconosciuti colpevoli, furono condannati a 14 anni di carcere. L’Amorreo venne a morire nel corso di quegli anni, mentre il Caponero dopo aver scontato la pena e riacquistata la libertà, l’antivigilia di Natale viene ammazzato, portandogli il “malu Natale” dopo 15 anni che un altro colpo di lupara aveva portato al bandito Guglielmo, la “mala Pasqua”.

Premesso ciò, rimanevano solo due ipotesi da vagliare. La prima, era quella che, ammettendo,  dato il suo silenzio assoluto mantenuto e la sua proclamazione d’innocenza sostenuta nel corso del processo, che non fosse stato lui assieme al suo compare Amorreo, ad uccidere il bandito Guglielmo, ma di conoscere molto bene chi lo avesse ucciso,  una volta libero, per conservare il suo silenzio, aveva cominciato a chiedere continui aiuti economici al vero assassino e che questi, ormai stanco delle richieste, l’avesse posto a tacere, con due colpi di lupara ben assestati. La seconda ipotesi, era quella che presupponeva che il Caponero e l’Amorreo ormai deceduto, fossero realmente gli autori dell’uccisione del bandito Guglielmo e che egli una volta scontata la sua pena, avesse ricattato la congrega di proprietari terrieri che l’avevano ingaggiato per commettere il delitto e che gli stessi stanchi dalle continue pretese, d’accordo con la mafia, avessero dato incarico alla stessa per farlo uccidere.

Facemmo degli accertamenti economico – finanziari sul conto dell’ucciso e venimmo a conoscenza che egli una volta scontata la sua pena, aveva acquistato della terra ed il motocoltivatore. Gia sapevamo che egli e la sua famiglia, avevano sostenuto spese ingenti per i processi, che erano arrivati sino alla Cassazione, per cui ritenemmo valida una delle due ipotesi.

Ma le indagini svolte per avvalorare la prima, malgrado l’impegno profuso e l’omertà esistente e persistente nell’animo degli investigati, approdarono nel niente assoluto, per cui il mio Capitano, sempre da me coadiuvato con passione e fiducia, si diede ad indagare sulla seconda ipotesi e dopo altre giornate di continuo lavoro investigativo, stilò un rapporto giudiziario di 900 pagine, con il quale vennero indiziati del reato di omicidio e di associazione a delinquere, ben venti persone, fra le quali figuravano elementi appartenenti alla mafia e proprietari terrieri.. Tra di loro vi era uno stretto parente del Procuratore della Repubblica del Tribunale del capoluogo di provincia nella quale operavamo.

Nei primi giorni del gennaio 1968, a chiusura delle indagini, il Capitano, nel corso di un’intervista data agli inviati dei quotidiani “La Sicilia” ed il “Giornale di Sicilia”, fece intendere di aver denunziato alcuni personaggi ritenuti “pezzi da novanta”, della nomenclatura socio-economica della zona. Conseguenza di tale sua dichiarazione, fu l’arrivo improvviso del defunto Generale, allora Colonnello, Carlo Alberto della Chiesa, che chiusosi con il Capitano, nell’ufficio di Comando, lo redarguì per tale sua asserzione, questo perché in quell’epoca il segreto istruttorio, era veramente tale.

I giorni passarono ed ero tornato a svolgere il metodico e ordinato servizio che quotidianamente svolgevo, quando un bel giorno venni convocato nel suo ufficio, dal nuovo Maggiore, comandante di Gruppo.

Una volta nel suo ufficio, questi mi disse che il Procuratore della Repubblica, voleva procedere nei miei confronti per il reato di omissione di atti di ufficio, a proposito di un incendio di sterpaglia al limitare di un bosco di eucalipti, sottoposto alla mia giurisdizione, per il quale altro Sottufficiale, comandante di Squadriglia, competente  per territorio, aveva inoltrato alla Pretura la segnalazione del fatto, senza far seguito al relativo rapporto giudiziario. Per tale motivo, intendendo egli punire questa mia sua presunta trasgressione, mi chiedeva di redigere sul posto una memoria difensiva. Chiesi un giorno di tempo e rientrato nel mio ufficio, presi contatti con il Comando della Stazione della Guardia Forestale, esistente sul posto, e quel Comandante mi confermò che per il citato incendio, era stato a suo tempo compilato ed inviato alla Magistratura il relativo rapporto, per cui  riferii per iscritto quanto appreso e considerai chiusa l’incresciosa vicenda.

Infatti trascorsero altre giornate, e nessun provvedimento disciplinare mi venne mosso. Poi una  bella e freddolosa  mattinata degli ultimi giorni della prima decade del mese di gennaio, mentre mi trovavo a chiacchierare con un conoscente, nella piazza del paese, vidi transitare per la via che costeggiava la piazza, quel Maggiore, che a piedi, accompagnato dal suo autista, transitava per quella via. Nel vederlo, fui colto letteralmente  da un senso di repulsione naturale, per cui lo ignorai. Mi fece chiamare ed io, imperterrito, una volta giunto nei suoi pressi, lo salutai militarmente. Al ché, egli mi chiese perché prima non lo avessi salutato? Gli risposi che in quel momento lo avevo visto e di conseguenza lo avevo salutato. A tal punto, passò con il dirmi che si era informato sul mio conto, che riconosceva che ero un ottimo sottufficiale, che provava molta stima nei miei riguardi e del mio operato nel campo della Polizia Giudiziaria e che sarebbe stato onorato di continuare ad avermi alle sue dipendenze, ma che ciò, non era possibile, in quanto il Procuratore della Repubblica mi era contrario e, mi fece intendere che tale contrarietà era dovuta alla denuncia di quel suo stretto congiunto. Aggiunse che mi avrebbe segnalato per un Comando di Stazione, fuori del suo Gruppo.

Dopo alcuni giorni e precisamente il mattino del 12 gennaio, a mezzo di un fonogramma, mi pervenne il trasferimento per il Comando di una Stazione situata nel comprensorio del Belice. Avevo avuto modo di conoscere quella zona, che era bella, pittoresca e tranquilla, per cui telefonai a quel Comando, ove ero stato trasferito, per chiedere notizie sulle condizioni  statiche dell’edificio  e mi venne risposto che la caserma era di nuova costruzione, per cui felice, lo comunicai a mia moglie: Ma il Fato volle che di lì a poche ore, forti scosse di terremoto (nella notte tra il 14 ed 15 gennaio 1968) fecero crollare gran parte dei paesi del Belice, fra i quali vi era quello, dove ero stato destinato e, così quel mio trasferimento venne accantonato.

Successivamente, venni inviato, per dare soccorso, assieme ad altri militari, in quelle zone devastate. Ho provato sulla mia pelle, come fossero tremende, quelle fasi sussultorie ed ondulatorie di quello orrendo mostro sotterraneo che è il terremoto: Come scuoteva la terra e quanto fosse autentico quello umano terrore che ti annulla e ti distrugge nel sentirti mancare il suolo sotto i piedi. E  dopo una giornata  trascorsa tra scosse che ti annichiliscono, cibandoti solo delle poche razioni di sopravvivenza, che porti al seguito, consistenti in pezzi di cioccolata e delle bustine di cognac, che al secondo giorno ti lacerano lo stomaco e ti portano alla nausea, accovacciato sulla tua branda, sotto la tenda, cerchi di mitigare i dolori che attanagliano il ventre, senti letteralmente ballare la branda e  per  pochi attimi, tu impotente qual sei, non sai cosa fare, se saltare dal letto, o aprire con il coltello la tenda per fuggire via. Poi d’improvviso tutto torna come prima, la terra non trema più e torna la quiete.

Queste sono state le esperienze ed i ricordi che portai con me quando lasciai quella terra tanto martoriata.

Allo scopo di non annoiare maggiormente il mio lettore, dirò che con i mesi a venire, feci domanda di essere trasferito, a mie spese, nella terra di Puglia, e quando la richiesta fu accolta, nel salutare il tanto compianto allora Colonnello Dalla Chiesa, egli ebbe a congedarmi con la seguente frase: «Ti debbo dire bravo per come hai lavorato! Conosco molto bene le tue vicissitudini con quel pretorucolo - riferendosi al Procuratore della Repubblica! - Ricordati che quando hai la stima dei tuoi Superiori puoi fare questo ed altro».

Queste furono le parole di conforto e di incoraggiamento, che quello onesto ed eroico gentiluomo ebbe a rivolgermi, il cui ricordo, ancora oggi, mi rende orgoglioso.

Del processo, conseguente al rapporto giudiziario, inviato alla Magistratura, da quel prode  gentiluomo, allora Capitano Petralito, nulla più ne seppi, perché venne sicuramente archiviato.

Nello stesso anno del mio trasferimento, anch’egli venne trasferito in Calabria e per qualche tempo ebbi con lui delle relazioni epistolari.

Così andavano le cose in terra di Sicilia, in quel lontano 1968.

 Così si preparava il rafforzamento della mafia, che pian piano, con il tempo a venire, sempre di più si espandeva su tutto il nostro territorio nazionale, trovando uno Stato, inefficiente, inoperoso ed a volte colluso, che ebbe a permettere  sul suo suolo Nazionale, ove egli è sovrano, a quella mala genia, di porre in essere, atti dinamitardi tanto devastanti che provocarono molto spargimento di sangue e  di terrore culminati con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ove persero la vita i giudici Morvillo, Falcone, Borsellino e gli uomini delle rispettive scorte. L’obiettivo? Ricattare lo Stato e costringerlo alla modifica dell’articolo 41 bis, riguardante il carcere duro riservato ai mafiosi.

Ho voluto raccontare una storia del passato, di uno scorcio della mia giovane vita vissuta. Ho voluto narrare della vita di uomini assassini ed assassinati, e delle gesta di uomini eroici e valorosi, che lo Stato aveva abbandonato e che la Mafia ha soppresso.

Alla memoria di questi ultimi, dedico il racconto, perché la loro memoria non si cancelli con il tempo, ma rimanga immortale, e che quelle virtù purificatrici, saggezza, fortezza, temperanza e giustizia, di cui erano pervasi, siano condivise, dalla moltitudine di uomini di buona volontà, che aspirino a convivere con i propri figli, in un mondo migliore, dove quelle virtù regnino incontrastate.

 Concludo il racconto, uniformandomi alla consuetudine dello scrittore, il quale trae le sue storie dalle vicende realmente vissute, affermando che i nomi degli Ufficiali dell’Arma, sono i loro veri nomi, mentre quelli dei paesi e degli altri personaggi, sono puramente immaginari e restano tali, per il buon nome degli stessi ed il rispetto verso i discendenti  dei personaggi realmente vissuti.

 

Antonio TRONO

23 maggio  - 19 luglio - 3 settembre 2012

 

Nel ventennale della morte di:

Giovanni Falcone, Magistrato, Francesca Laura Morvillo, Magistrato, , Vito Schifani, Agente di Scorta; Rocco Dicillo, Agente di Scorta; Antonio Montinaro Capo Scorta.

Paolo Borsellino, magistrato. Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Vincenzo Li Muli, Agente di Scorta; Walter Eddie Cosina, Agente di Scorta; Claudio Traina, Agente di Scorta; Agostino Catalano, Capo Scorta.

nel trentennale della Morte di:

Carlo Alberto Dalla Chiesa Generale dei Carabinieri e della consorte, Emanuela Setti Carraro.