La torre di babele

del come e del perché, a causa dell’orgoglio, 

gli uomini non s’intendano l’un con l’altro.

 

di 

Antonio TRONO

 

Genesi 1 ­– Genesi 11. 9

           “Ricordati dei tempi antichi.

           ripensa ad una ad una le generazioni,

           domandalo al padre tuo e te lo

           racconterà, ai tuoi anziani e te

           lo diranno”.

                                  ( Deuteronomio 32. 7)

 

 

 

“Con paese di Sennaar, ripetutamente menzionato, si intende, nel Vecchio Testamento, la pianura presso Babilonia, tra il Tigri e l’Eufrate”.

   E propriamente in quella parte dell’Asia Minore dove nacquero, prestissimo, civiltà fiorenti. E fu proprio lì, in quel vasto territorio, che comprende il “paese di Sennaar” secondo la Genesi, che fu eretta la Torre di Babele.

E come ad illustrare il racconto Biblico, ancora oggi nel centro della Mesopotamia, si alzano verso il cielo antichissimi tronchi di cono, corrosi dal tempo, che una volta erano possenti torri a terrazze, le Ziggurat.

Dal millenario sonno del passato, sono state strappate alle sabbie del deserto le rovine di quelle gigantesche torri, assieme a quelle delle antichissime città fondate da Nemrod, il primo sovrano assoluto della terra.

Il suo regno fu da principio Babilonia, Arac, Accade, Calanne, nella “terra di Sennaar” si dice  nella Genesi (10,8-12 )

Tutti veniamo da Adamo, tutti veniamo dal suo terzo figlio, Set.

La Bibbia enuncia dieci nomi di Patriarchi da Adamo, primo uomo, sino a Noè, capo dell’umanità rinnovata e dieci altri uomini da Sem figlio di Noè ad Abramo, capostipite della gente d’Israele. Tra le due serie dei dieci nomi, è collocato il Diluvio Universale, il primo cataclisma che abbia lasciato sgomento l’uomo.

Quel remotissimo tempo, quando i nostri progenitori erano immortali, integri ed anche immuni dal dolore, venne scandito dai nomi dei Patriarchi e dalla loro età incredibili. Anche la tradizione babilonese, nata prima della Bibbia, conta dieci nomi di uomini eminenti che popolarono la terra prima del diluvio. Sul mondo scorre un luogo periodo, durante il quale l’uomo si sforza di occupare la terra e assoggettarla.

 

Adamo visse 930 anni, Set 912, Enos 905, Cainan 910, Malaleel 895, Iarad 962, Enoc 365, Matusala 969, Iamec 777, Noè 950 e questi furono i primi dieci. poi venne il diluvio, la grande catastrofe e questi furono gli altri dieci: Sem 600 anni, Arfaxad 338, Sale 433, Haber 564, Faleg 239, Reu 239, Sarug 230, Nacor 148, Tare 205 ed Abramo 175.

venti nomi di patriarchi, venti anelli eminenti di una catena che si snoda attraverso i millenni, secondo una direzione niente affatto rettilinea.

Ma perché quei venti si sono salvati dalla dimenticanza implacabile della tradizione orale e dalla storia?

Forse perché durante la loro esistenza compirono azioni mirabolanti, talché la loro memoria si tramandò. Gli eroi hanno sempre avuto ragione dell’oblio, almeno presso i popoli antichi. Noè, per esempio, deve la sua fama al fatto di essersi salvato dal diluvio. Era un uomo giusto e meritò il miracolo. Il concetto di pericolo scampato è intimamente connesso al concetto di vita allungata, anche ai nostri giorni. Perciò le tavolette Sumeriche chiamano Noè Zi-ud-zu-du, mentre nelle tavolette di Babilonia egli è indicato come Uttnapishtin rucu, un nome che vuol dire “lunghezza di tempo”.

Poi per i peccati degli uomini, Dio per punirli mandò il diluvio e dopo il diluvio, la tradizione Babilonese vuole, che il luogo dell’approdo dell’arca di Noè, sia stato il monte Nisir, che si innalza tra il fiume Tigri ed il fiume Zeb, nel Kurdistan, mentre la Bibbia, indica il monte Ararat che si eleva per 5156 metri sulla frontiera tra la Turchia, la Persia e la Russia.

Il vecchio Patriarca, si spense consumato a 950 anni. I suoi figli ed i suoi nipoti divennero numerosi al punto che pensarono di costruirsi una grande città che li ospitasse tutti.

A quel tempo tutti parlavano la medesima lingua e non avevano perciò nessuna difficoltà ad intendersi.

Ma un giorno vollero fare qualcosa di sublime e di eterno e decisero di costruire una Torre che arrivasse sino al cielo.

Cominciarono a cuocere i mattoni nelle fornaci scavate nella terra, ad architettare progetti, ad infervorarsi in sogni superbi.

Ma Iddio scompigliò l’orgogliosa sfida e disse: “Io confonderò il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca il parlare dell’altro”.

Così, infinite lingue si sostituirono all’unica e la fabbrica della Torre, che fu poi detta di Babele, rimase interrotta ed i popoli si dispersero. I figli di Noè, con una parte del popolo che parlava ed intendeva la stessa lingua, si separarono e si diressero nelle varie contrade del mondo. Sem prese stanza nelle contrade dell’Asia e da loro venne il popolo eletto di Israele. Cam traghettò in Africa e Jafet si diffuse nell’Europa.

Babilonia o Babele era una città fiera e potente. Costruita tutta di mattoni smaltati, si vantava di possedere strade spaziose ed ameni canali le cui acque temperavano il clima torrido dell’estate e d’inverno impedivano alla temperatura di scendere troppo sotto lo zero.

Le carovane che si avvicinavano alla grande città vedevano svettare lontano la mole imponente e minacciosa dello ziggurat, la Torre sacra, una montagna in muratura, una colossale opera di ingegneria edile che sorgeva dal suolo per oltre 200 metri, divisi in sette piani. Sulla vetta dello ziggurat vi era il santuario.

Lo ziggurat era più alto e più maestoso di qualsiasi costruzione allora conosciuta, più ancora delle piramidi d’Egitto, che era tutto dire. Pareva fatta apposta per colpire la fantasia degli uomini erranti e timorati di Dio, quali erano gli Ebrei primitivi. Era un’opera orgogliosa, pagana, strana.

Forse proprio con essa si identifica la Torre di Babele della Bibbia.

 

Dalla combinazione di quanto narrato nella Bibbia che dalla tradizione Babilonese discende la leggenda che il mito tramandato sino a noi.

 

“Ad un miglio della città, dalle mura smaltate, in mezzo al deserto bianco e luccicante, vi era una torre di pietra, dove una bellissima donna, tutto il giorno si trastullava con un osso piccino, piccino, ricoperto da un pezzo di pelle di leone, del quale emanava un forte odore. Di continuo a lui si rivolgeva con frasi: “lui, oggi verrà da me”, oppure: “Mi ama ancora e stanotte mi cercherà”.

Lei si chiamava Sharazad ed una volta era stata regina, perché sposa di Namberad, re della città vicina. Al tramontare del sole, quando le prime avvisaglie della notte si facevano sentire, Ella chiamava le sue due ancelle, che il re le aveva affiancato, per servirla ed ordinava loro di apparecchiare la tavola, con ogni ben di Dio, perché il suo sovrano, stava per arrivare. Poi si faceva agghindare e vestire con gli abiti più sfarzosi e rimaneva a guardare dalla finestra, cullando il pezzo di pelle di leone, che racchiudeva il femore di un bimbo da lei nato, sempre in attesa del suo arrivo. E quando giungeva la mezzanotte ed il sovrano non arrivava gettava in un angolo il femore e piangendo, si abbandonava, alla più nera disperazione, strappandosi i vestiti e i gioielli che indossava, sino a quando le sue due ancelle per timore che si facesse del male, non intervenivano per calmarla. Passava la notte piangendo e si disperava sino a che all’apparire dell’alba, si addormentava. Poi a mattina inoltrata si svegliava, riprendeva il femore del suo bambino e lo cullava, stringendolo al petto.

 Tutti i giorni e tutte la notti, le medesime scene si ripetevano, ma il re, non si recava più da lei.

 Aveva sedici anni, quando andò in sposa a Namberd. Sino ad allora aveva vissuto in un regno lontano, coperto di laghi, fitte foreste, cascate e fontane. Colline sempre verdi sovrastavano verdi vallate.

 L’amore per Namberad, era stato immediato. Venne ammaliata dalla sua bellezza e dalla sua gioventù e l’amò sino alla follia. I primi anni furono felici, tanto da donarsi anima e corpo al suo amore. Solo per lui viveva, ebbra d’amore e di passione.

Rimase incinta ed il marito, la colmò di gioielli, di brillanti e di vesti sontuose, ma interruppe i rapporti amorosi, trovando in altre donne come saziare la sua accentuata libidine. Nacque un bellissimo infante, al quale, il padre regalò una pelle di leone, che aveva ucciso in una battuta di caccia. Il bimbo cresceva forte e vigoroso ed il padre felice; tutte le sere si intratteneva con lui amandolo teneramente e vezzeggiandolo, ma con la moglie, i rapporti amorosi sempre di più si diradavano sino a cessare del tutto. Sharazad, privata così d’improvviso dal contatto amoroso, ne risentì tanto da giungere alla pazzia.

Con la sua mente esaltata, ideò che se avesse allontanato il figlioletto dal padre, egli sarebbe ritornato ad amarla e desiderarla nuovamente.

Così pose in atto il suo piano criminoso e un giorno, approfittando dell’assenza della nutrice, indossò il suo mantello, avvolse il bambino nella pelle di leone ed eludendo la sorveglianza dei soldati, posti a guardia del palazzo e delle porte della città, si allontanò da essa.

Una volta fuori dalle mura, giunta in un vasto pianoro, dove un gruppo di pastori nomadi, si erano accampati con le loro greggi, si mischiò tra loro e non vista, nascose il bambino sotto un folto cespuglio. Sicura che il bimbo sarebbe stato ritrovato e portato via da loro, si allontanò, facendo ritorno in città

Una volta giunta nelle vicinanze del palazzo reale, gettò via il mantello ed entrò nei suoi appartamenti.

I soldati di guardia, vedendola rientrare senza averla vista uscire, si stupirono perché aveva girovagato per le strade della città, priva della scorta e per il rispetto a lei dovuto si astennero di fermarla e di porle domande inquisitorie.

Per tutta la giornata attese, sicura che il marito sarebbe ritornato da lei per amarla nuovamente

Scese la sera, l’appartamento reale venne tutto illuminato dalle luci tremolanti delle centinaia di candele accese e giunse il marito e la trovò seduta nella penombra della stanza.

 Lei si aspettava di essere nuovamente amata e desiderata, ma non fu così.

 Il re, che aveva compreso lo stato di follia della moglie, pur colpito profondamente nell’animo e nel fisico, per la perdita del suo povero figlioletto, l’accusò della sua morte, perché lei sola ne era l’artefice, dato che i pastori, gli avevano riportato quel che restava dei suoi miseri resti mortali, perché il corpicino era stato dilaniato dai cani, che attratti dall’odore della pelle di leone, si erano lanciati addosso e l’avevano ridotto a brandelli.

 A conferma di ciò, aveva fatto entrare nella stanza alcuni suoi servitori che deposero ai piedi della regina, i miseri resti di quel corpicino. Il re non palesò il suo dolore, né la sua repulsione ed il suo orrore e neppure decretò un castigo per la moglie, così palesemente rea di tale misfatto.

 L’escluse semplicemente, relegandola in un padiglione lussuoso, attiguo al palazzo.

 Fu buono con lei e di una tolleranza incomprensibile ed inaudita.

Continuò ad inviarle doni come, carne pregiata, frutta matura e gioielli.

 In realtà sarebbe stato meglio, se l’avesse affidata al boia, invece di farla continuare a vivere alla pari di una morta vivente.

 Al terzo mese della sua prigionia, quando il re stava per risposarsi, fuggì dal padiglione, ma era tanta e tale la sua pazzia, da credere che il re fosse il suo novello sposo. Ma un tedioso pensiero attanagliava la sua mente che era quello di ritenersi sterile, per cui andava alla ricerca di un simbolo magico che la salvasse da tale suo presunto difetto, per cui giunse a ritenere che solo il possesso di un osso del corpicino del figlio potesse rappresentare il simbolo della sua fertilità.

 Così si recò presso il cimitero e dato che era molto conosciuta, un giardiniere, mosso a pietà, la condusse nel luogo ove erano sepolte le misere spoglie del figlioletto e lì la lasciò.

 Poco dopo sopraggiunsero le guardie preposte alla sua ricerca e la videro nascosta in un angolo, mentre stringeva al petto le scarse ossa del misero corpicino.

Nella sua mente sconvolta credeva di aver trovato la chiave ed il simbolo della sua futura felicità, ma in qualche angolo della sua mente, doveva sapere che stava cullando la sua terribile colpa, una colpa della quale non si sarebbe mai liberata.

Le guardie cercarono di toglierle dalle mani, quei poveri resti, e alla fine vi riuscirono, fatta eccezione dell’osso del femore, che ella non volle lasciare.

Così l’ex regina, fu trasferita nella torre di pietra situata nel deserto e lì, continuò a vivere da morta vivente, con le sue crisi di pazzia sempre uguali: “cercava suo marito, parlava con l’osso, si tormentava, si disperava, si infuriava e piangeva”.

 Alla fine, la sua pazzia, parve contagiare tutte le cose che la circondavano, gli alberi, la sabbia, il cielo e le stelle.

 In quel tempo, in cui la terra era piatta, gli spiriti buoni e quelli malvagi vivevano in mezzo ai figli degli uomini e ne condizionavano la vita.

 E fu così, che uno spirito malvagio, che era un principe delle tenebre, di nome Iblis, governatore della pazzia, il quale nell’apparire tra gli uomini assumeva una duplice conformazione fisica, decise di fare visita all’ex regina.

 Visto dal lato sinistro, appariva un bellissimo giovane, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. La veste che indossava era ricca ed evidenziava il suo snello ed alto corpo, con la mano inguantata da un guanto di fine pelle, uguale alle scarpe. Mentre visto dal lato destro, aveva quella parte del viso deturpata; la pelle era di un grigiore cadaverico ed i capelli aggrovigliati avevano il colore del sangue. Era un vero orrore. La mano sinistra era ischeletrita e la veste, color prugna, era stracciata e macchiata, mentre il piede era nudo.

Venne la sera, ed ai piedi della torre, sei soldati, compreso il capo, alla luce di una torcia, infissa nel muro, giocavano ai dadi e dopo che il sesto soldato, fece il suo gioco, Iblis, il principe delle tenebre. comparve sulla scena, partecipandovi.

 Il Capo ben sapendo che la sua guarnigione era composta da cinque soldati più lui, allarmato, chiese chi fosse, come era arrivato sin là e quale era il suo incarico

Anche i rimanenti della truppa, disorientati, aguzzarono la vista e alla luce della torcia, videro il lato sinistro dello straniero che apparve loro, come un giovane di bell’aspetto, che aveva l’occhio visibile abbassato e che sorrideva a bocca chiusa. Non aprì la bocca ma udirono una voce che così diceva: “La luna governa le maree del mare, le maree del grembo di donna e la marea degli umori della mente”.

 I sei soldati, balzarono in piedi e posero mano alle spade, ma restarono fermi ed imbarazzati sul da farsi, mentre, Iblis, continuò a sorridere ed allontanandosi, attraverso il muro della torre, scomparendo dalla loro vista.

 Il capo delle guardie, che era stato posto dal re, assieme ai suoi soldati, a difesa dell’ex regina, sguinzagliò i suoi uomini tra le varie stanze della torre, nel tentativo di trovare l’intruso, ma fu inutile.

 Nella camera sovrastante, Sharazad, stava affacciata alla finestra e scrutava nell’oscurità della notte, le luci della città vicina e vedendo del movimento nel giardino sottostante, rivolta al feticcio che aveva sempre tra le braccia disse: “ci sono dei messaggeri, venuti a dire che il mio Signore si accinge a raggiungermi”.

 Felice di tale avvenimento si mosse per la stanza e turbata fu la sua sorpresa nello scorgere un giovane seduto a gambe incrociate sul tappeto, con metà del viso nascosto dal mantello.

 Per cui allibita di tanto ardire a lui rivolta disse: “il signore mio marito sarà presto qui e vi truciderà per esservi introdotto nel mio appartamento!”.

Iblis, sorrise, non rispose e gettò due dadi sul tappetto che comparirono neri come il carbone. Sempre poi sorridendo, allo scopo di tranquillizzarla, manifestò la sua vera identità e le chiese quale fosse il desiderio che più le stava a cuore. Lei rispose che per amore di suo marito, le sparisse dalla mente la follia e che le tornasse la ragione.

 Proprio questo desiderio, il demone della pazzia, non poteva esaudire, ma poteva soddisfare qualsiasi altro pensiero che riguardasse il marito.

 Al che Sharazad le rispose: “se io sono pazza, rendi pazzo anche mio marito, che la sua pazzia lo distrugga”.

Ed Iblis le rispose: “la sua pazzia diventerà una leggenda”. Detto ciò, scomparve nel nulla.

 Nemberad era nel pieno delle sue energie, sia fisiche che mentali. Era re di una città molto popolata, era amato dai suoi sudditi, amava molto le donne che lo ricambiavano. era padre di diversi figli, quindi si sentiva soddisfatto della sua vita, ma non aveva considerato il suo domani che era quello di tutti i comuni mortali e cioè quello che nell’oggi era un leone ma nel domani sarebbe diventato un insieme di ossa, così come era diventato suo figlio, avuto da Sharazad.

 E mentre pensava a ciò, seduto sul suo trono, bevendo un calice di dolce vino, Iblis, nel suo duplice aspetto gli apparve all’improvviso, gli disse che il suo nome sarebbe stato immortalato nei secoli e nei millenni a venire, solo a condizione che erigesse una Torre che arrivasse sino al cielo e lo forasse..

 Dopo attimi di esitazione, dovuti più che altro alla orribile dualità delle fattezze del demone, soddisfatto dal pensiero che il suo nome sarebbe rimasto in eterno, accettò, coprendosi il viso e quando guardò di nuovo, Iblis era sparito, ritrovandosi solo, seduto sul suo trono.

 Si ricordò del colossale obiettivo che avrebbe dovuto raggiungere, per cui con le sue grida svegliò il palazzo e poi tutta la città.

 l’indomani mattina, emise un editto con il quale chiamava a raccolta tutti gli uomini che risiedevano nel territorio della città.

 In un primo tempo si limitò a radunarli perché eseguissero il lavoro della costruzione della Torre, poi li rese schiavi ed infine furono trascinati in catene. E quando questi, per la fatica, morivano, i soldati si spinsero nel deserto e catturarono tutte le popolazioni che l’abitavano: nomadi, vagabondi ed abitanti di piccoli villaggi.

 Migliaia e migliaia di persone furono condotte in catene sul luogo cui erano iniziati i lavori di costruzione.

 Mosse poi guerra alle popolazioni dei regni vicini ed una volta vinti li rese schiavi e portati anche loro sul luogo prefisso, distante sette miglia dalla città, li costrinse a lavorare giorno e notte, sotto il sole cocente, sotto la luna e senza la luna, nella tempesta e nella siccità, nel caldo soffocante e nel freddo pungente.

Dovevano costruire un edificio enorme, una piramide a gradini che toccasse il cielo

Una sera, quando il sole era tramontato, la nuova regina, andò a trovare suo marito, che aveva posto il suo accampamento ai piedi della costruzione.

 Ella cercò in tutti i modi di sedurlo, ma il re aveva completamente perso il desiderio e quindi non la toccò.

Ormai la sua volontà e tutto il suo essere, era votato solo al desiderio di vedere al più presto compiuta la sua grande opera.

 Imbronciata la regina, le disse: “mio signore perché perdi il tuo tempo nella costruzione di questa opera, che sicuramente attirerà la vendetta degli dei, e non pensi a soddisfare l’amore e la passione che mi divora?”.

 Ma per lui che pur sentiva quell’amoroso richiamo, erano frasi incomprensibili, era come se si esprimesse in una lingua sconosciuta e non le dava ascolto.

Anche i suoi più fedeli consiglieri cercavano di dissuaderlo nel proseguimento dei lavori e di farlo ragionare, ma era come se parlassero una strana lingua che egli non comprendeva.

 Poi le mogli, le sorelle, le madri degli uomini che lavoravano, si recarono da lui, lo fermavano per la via, quando usciva dalle porte della città, mentre era nell’accampamento e lo supplicavano singhiozzando, perché lasciasse liberi i propri mariti, i loro fratelli ed i loro figli, i quali dovevano lavorare la terra nelle stagioni della semina e della raccolta.

Ma lui udiva quelle voci, come l’abbaiare dei cani, i ruggiti dei leoni ed il cinguettio degli uccelli.

 E la Torre cresceva. Tre piani, poi altri tre. La base dicevano era larga circa un miglio quadrato ed alta un decimo di miglio.

 La base era fatta di mattoni di argilla cotti al sole, posti su una struttura di pietra e di legno di palma. Molte delle oasi, avevano perso tutti i loro alberi, usati per costruire quella base.

I regni da lui assoggettati, dovevano mandargli come tributo, enormi quantità di legno e di mattoni.

Il secondo piano della Torre fu pure di legno e di mattoni e così altre cinquanta oasi persero tutto il loro verde.

Il terzo piano fu rinforzato con le ossa degli uomini, sfiniti dalla fatica e dalla fame.

Tre piani, altri tre ed ancora tre.

 La Torre saliva, saliva, sin che si perse il conto dei piani della Torre di Nemberad.

 Poi egli volle salire per quelle larghe scale che andavano da destra a sinistra e poi da sinistra a destra.

 Le rampe erano state costruite solide, perché vi passassero cocchi, e cavalli, cammelli, carri ed elefanti.

Nemberad, salì a cavallo su per i gradini della Torre, incurante del precipizio che stava ora alla sua destra ed ora alla sua sinistra, mentre i suoi familiari e gli uomini e le donne di corte lo seguivano, in portantine e su veicoli trainati da cavalli da tiro

Più salivano e più il deserto si allontanava dalla loro vista. Infine divenne una macchia scura segnata da punti e macchie, qui la linea nera di una strada, là macchia dell’acqua e la città che appariva in lontananza.

 Intanto il re ed il suo seguito continuavano a salire e l ’orizzonte si estendeva e le sabbie del deserto circostante sembrava sconfinato con un bordo azzurro che era il cielo.

 L’aria si respirava a fatica, perché l’altezza la rendeva rarefatta.

 L’altezza della Torre, era tanta e tale che le aquile volavano allo stesso livello sulle teste dei nervosi cavalli.

 Guardando in su, gli uomini vedevano, ai piani superiori, le nuvole che li avvolgevano e li coprivano d’ombra.

 La terra in basso, era una nebbiolina che appariva inconsistente, come da giù il cielo.

 A causa dell’atmosfera più leggera, gli uomini respiravano con fatica ed a volte perdevano conoscenza.

 I cavalli scivolavano e perdevano sangue dalle narici. A volte crollavano in mezzo alle stanghe, mentre a volte un cocchio, perdendo l’equilibrio si rovesciava, cadendo giù dalla Torre.

Il colore della Torre, era il colore della sabbia del deserto, ed il sole si rifletteva con un bagliore di oro fuso.

 Intanto le impalcature salivano.

 Il gruppo degli Ingegneri del re, si adunavano sotto i baldacchini e fra suoni di strumenti a corda, brindavano per l’altezza raggiunta, mentre gli uomini-schiavi brulicavano piccoli come scarabei nel piano della Torre più in alto.

 “Quando avverrà l’arrivo al cielo?” chiedeva Namberad ai suoi Ingegneri: E loro facevano i calcoli rispondendo: “presto, o re!”

 Ma per il re, essi parlavano un'altra lingua. Lui capiva solo alcune parole: “oggi, adesso, vittoria, conquista”.

 Nelle terre circostanti, tutti sapevano del progetto del re e ne avevano paura.

 Così la Torre ebbe un nome. Si chiamò: “Baybbelu”, che significa “porta d’accesso agli dei”.

Ma cosa facevano gli dei dall’alto della loro celeste dimora?

 Quegli esseri eterei ed eterni avrebbero forse affidato l’intera umanità alla Morte, dichiarando che l’uomo non era nulla per loro.

 Tuttavia nel passato si erano irritati ed offesi ed avevano mandato giù sulla terra il Diluvio.

 Dunque gli dei non erano così distaccati come volevano far credere.

Ora un pazzo costruiva una Torre che avrebbe forato il pavimento della Terra di Sopra, cioè del Cielo e progettava di invaderlo con un esercito. Avrebbe portato uomini, cavalli, cocchi ed una massa enorme di uomini capaci di stravolgere la quiete e la serenità di quel paese celeste. Sudore, sangue ed urla sulle fredde pianure azzurre.

 Era possibile che ciò accadesse!

La via per entrare nella Terra di Sopra era oscura, tortuosa ed insidiosa. Oltre la luna, oltre il sole. Era una porta che non era una porta.

 Poteva mai Namberad irrompere così, in una maniera prettamente logica, usando una Torre alta sino al cielo?

 Gli dei apparivano titubanti ed incapaci sul da farsi, poi il loro volere muto e silenzioso filtrò dalla loro mente e dalla Terra si Sopra si spostò e giunse in un baleno sulla Torre di Baybbalu.

 la costruzione della Torre era giunta all’ultimo piano bastevole per raggiungere il tetto del cielo, ed il re aveva fatto accampare la sua corte mentre al piano sottostante erano alloggiati soldati, animali con cocchi e cavalli.

 Il piano ove si trovava la corte, aveva una superficie di settecento piedi quadrati ed un giardino mobile, era stato messo lì per arricchire l’atmosfera. Enormi serbatoi di acqua e di terra erano stati portati sul posto, da stanchi cammelli e da miseri cavalli. Una massa di fogliame verde spuntava dai serbatoi e viti, frutta ed alberi si riversavano dal bordo del piano, tanto che le bestie impastoiate si alimentavano con esse.

 Per il re e la sua corte erano state erette tende di vario colore e dalle loro entrate aperte, le donne pallide ed inquiete osservavano con timore il caos che attorno a loro regnava.

 Namberad stava seduto sotto un enorme ombrellone, con attorno maghi e sacerdoti che con mani tremanti facevano infinite divinazioni. Avevano difficoltà a comprendersi ed allo stesso modo il re non comprendeva loro.

 In realtà tutti su Baybbelu, avevano cominciato a non intendersi. Solo sull’impalcature ciò non aveva importanza. Là i sorveglianti sferzavano con le loro fruste gli schiavi che erano impegnati nel lavoro.

 Mentre ciò avveniva, la bruna regina, saliva le scale per incontrare suo marito. Portava una mezzaluna d’oro nei capelli come il re le aveva ordinato, perché la Torre tra breve sarebbe stata all’altezza della luna, e la sua faccia bianca l’avrebbe illuminata a giorno.

 il re la vide arrivare da lontano. Ora la regina guardava in basso e vedeva le aquile inclinarsi in volo ed ondeggiare con le ali serrate a un quarto di miglio sotto di lei. Poi salendo, veniva nascosta da un cumulo di nuvole che transitavano veloci. Si fermò a guardare la luna e si fermò anche il suo seguito.

 Tutto ciò avveniva nel silenzio più assoluto. A quel punto si levò una voce e si sollevò tra l’aere come fumo. Era la voce della regina. Era la voce del suo dolore e della sua implorazione, che rivolta alla luna, così la pregava: “O luna che governi le maree delle acque, le maree del grembo femminile, le maree della pazzia del cervello, porta il mio messaggio con te alla porta degli dei. Per mezzo del tuo pallore, giuro di rispettarli e per mezzo della tua brillantezza invoco la loro clemenza. Togli la pazzia del mio Signore. La mia anima s’inchina ed il mio cuore si inginocchia, la mia mente si umilia. Il mio sangue è acqua e la mia carne polvere”.

 Il re udì la sua voce ma non comprese e si rivolse ad un mago chiedendogli cosa dicesse, ed il mago gli rispose:” Mio Signore, non vi comprendo “ed il re lo insultò perché parlava una lingua straniera.

 Poi la luna inondò l’intera Baybbalu ed il volere degli dei la toccò.

Ed a quel tocco, gli dei ricordavano agli uomini quella terribile legge: “Gli umili saranno esaltati ed i superbi puniti, perché tengano bene a mente l’ultima visione di Baybbalu, perché ora scompare”.

 La Torre era così alta, che proprio non aveva la stabilità per tenersi in piedi. A tenerla su era stata la forte aspirazione di Namberad, in quanto su quella Torre egli aveva riversato tutte le sue energie, il sesso ed il potere.

 All’improvviso tutta la costruzione vibrò, come una corda tesa tra il cielo e la terra. Poi divenne un rombo, profondo e cupo e poi la terra tremò.

 La terra si scosse come un animale sul cui dorso era salito un predatore. Ebbe sussulti, salti, scrolloni, contorcimenti, tutto per togliersi dalle spalle quella malvagità. Si aprirono crepe enormi, nella sabbia che sempre di più si allargavano. Le fondamenta della Torre si ruppero, e piano per piano tutto crollò. E quando piano per piano e gradino per gradino fu crollato ed il pavimento centrale di ciascuna terrazza cominciò a cadere, la Torre si ripiegò su se stessa crollando giù, scagliando all’esterno mattoni, pali di legno di palma, malta e uomini urlanti in un turbinio di membra e di corpi.

 Così tutto ciò che rimaneva della Torre, fu scagliato per un gran tratto nel deserto, sopra la città, sui vicini villaggi, sui cortili, tra le dune, sui basamenti dei tetti delle case e sui canali asciutti, per tutta la notte.

 Della Torre, non restarono che le rovine di quelle enormi costruzioni che noi oggi vediamo e che vengono denominate “Ziggurrat”.  

  Narra la leggenda che l’unica a salvarsi da quella catastrofica tragedia, fu la seconda regina che venne trasferita in volo, per volere degli dei, nella torre ove la prima regina Sharazad, ormai rinsavita, era stata imprigionata.

 Lì, Ella visse assieme alla compagna, sino alla fine dei suoi giorni, mentre il re era morto sepolto da carne, argilla, pietre ed ossa.

 Sicuramente il suo nome sarebbe stato ricordato, sfruttato e congelato nel tempo infinito, allo scopo di spaventare i bambini ed insegnare agli adulti, ammonendoli di non seguire il pericoloso sentiero dell’orgoglio.

 Questa è la leggenda ed il mito che è giunto sino a noi, che ci ricorda dove, come e quando la Torre venne costruita ed inoltre perché per quel grande peccato che è l’orgoglio, gli uomini di quel remoto tempo non si intendessero gli uni con gli altri e come questo avvenga tutt’oggi.

 

Come ultimo anello del racconto, passo a narrarvi della Baybbalu dei nostri giorni che nasce, cresce e si sviluppa su quattro elementi che regnano incontrastati nel tempo in cui viviamo e che sono: “ricatti, corruzione, conflitti e morte”.

Vivo in un centro abitato, capoluogo di provincia, città di mare, che conta circa ottantottomila abitanti e la sera quando transito per il corso principale, camminando, assisto al passaggio della della gente multicolore; il colore dominante è ancora il bianco, seguito dal numeroso nero e poi viene lo scarso numero del giallo dei cinesi, che al pari dei neri costituiscono un’enclave tutto a sè, con i loro negozi e le loro attività quotidiane.

 Cammin  facendo, odo le loro voci ma non capisco il loro dire, per cui la mia fantasia, per pochi attimi si libra nel mondo dei sogni e mi conduce su di un piano della costruenda Torre di Baybbalu, ove odo quelle voci, a me sconosciute, che continuo a sentire, nel proseguimento della mia passeggiata.

 Dopo aver così introdotto il mio narrare con la visione che offre la città al viaggiatore in transito, passo a raccontarvi delle molte pecche in cui si presenta nel suo insieme, dal punto di vista economico, sociale ed umano.

Vi parlerò quindi, da uomo della strada, che vive nel mezzo della gente, della quale e per la quale vi narro, perché ho ascoltato i loro lamenti, il loro malcontento. Ho toccato con mano la loro povertà e l’abbandono nel quale vengono lasciati dalle Istituzioni che sono preposte allo scopo di tutelarli, mentre invece pensano solo alla conquista del potere sulla città, non riuscendovi, quasi mai a governarla per l’intera legislatura.

 E che con i loro conflitti, i loro ricatti e la corruzione prevaricatrice, che regna sovrana, conducono sicuramente, alla morte morale un intero popolo, rendendolo schiavo e succube del loro volere.

 Infatti quando un popolo è privato del senso di giustizia e dall’ordine sociale e si chiude in sè stesso, eludendo tutti gli insegnamenti che il Cristianesimo ha dettato per oltre duemila anni, cioè l’amore per il prossimo che unisce gli uni agli altri, allora quel popolo muore.

 Così le loro case tornano ad essere quelle caverne, nelle quali i trogloditi si rinchiudevano, perché il vicino non li derubasse e non li privasse della stessa vita

Nel luogo in cui risiedo, la vita è a misura d’uomo, e nel corso dei suoi millenni di esistenza, ha avuto periodi di gloria e periodi oscuri, come quasi tutti i centri abitati della nostra Italia.

La città, che vanta ben sei centrali elettriche, compresa quella che doveva produrre zucchero ed invece produce energia elettrica; un porto leggendario che sin dal tempo in cui Roma governava il mondo intero, allora conosciuto, era considerato la porta dell’Oriente; un aeroporto e tante e tante grosse imprese tra le quali importanti impianti della chimica, dell’aerospazio ma anche tante medie e le piccole imprese, tanto che la città non dovrebbe annoverare tra i suoi residenti, nessun disoccupato, invece conta tra i suoi cittadini, ben trentacinquemila disoccupati disperati, che non sanno dove sbattere la testa per trovare un lavoro.

Quindi, quasi il 45%  della sua popolazione.

 Ora a chi si deve addebitare un disastro di così grande portata, se non agli uomini che hanno mal governato questo misero e disastrato centro abitato?!

Il governo della città, negli ultimi venti anni, è stato retto, in primis dal Signor Giovanni Antonino, il quale nel corso del suo secondo mandato, venne arrestato per corruzione. Lo seguì il Signor Domenico Mennitti, ora defunto, il quale poco o nulla fece per sollevare le sorti del capoluogo. Lo seguì il signor Mimmo Consales, pure lui arrestato per corruzione, durante il suo primo mandato. Infine venne eletta la Signora Angela Carluccio, la quale ha dovuto interrompere il suo primo mandato, a causa di soggetti ben noti, per i loro trascorsi, che non avendo ottenuto quanto da loro richiesto e voluto (assessorato o altri incarichi di prestigio e di potere nel governo), l’hanno fatta decadere.

Quindi la città, è commissariata in attesa di nuove elezioni, con la certezza che, quando si celebreranno, verranno nuovamente rieletti, con il concorso di quei 35mila disperati, che resteranno disoccupati come prima.

 È un giro vizioso, dettato dalla povertà in cui è caduta tanta, molta gente e voluta da quegli uomini, privi di scrupoli che non vogliono far progredire questo meraviglioso centro abitato, pieno di vestigia antichissime e carico di tanta storia.

 Grazie ad un amico, ho girato nei paesi limitrofi della provincia ed ho notato il loro progredire e le migliorie apportate dagli uomini politici che sono stati eletti, in campo Regionale e Nazionale, con la massiccia partecipazione dei cittadini di questi centri.

 Il così tanto alto tasso di disoccupazione che si manifesta in questo centro, è dovuto principalmente alla mancanza di uomini politici, capaci di rappresentare i bisogni locali, in campo Regionale e Nazionale.

 E la domanda che mi assilla maggiormente e che continuamente mi pongo è: come mai la cittadinanza di questo martoriato centro abitato, non riesce o non voglia far eleggere un proprio cittadino nelle elezioni Parlamentari o Regionali?  Possibile che non ci sia, tra le diecine di migliaia di uomini e donne che la compongano, una o due persone, degne di fiducia?!

 Non trovando una risposta valida, mi arrendo all’evidenza e passo oltre.

 Delle sei centrali elettriche, esistenti in loco, solo quella termoelettrica, alimentata a carbone denominata Federico II, la più grande d’Europa, concede ogni anno, delle grosse sovvenzioni al Comune, per sostenere il Teatro Verdi, per la squadra di basket e per altre necessità.

 Nel contempo tutte e sei, rendono l’atmosfera inquinata, con le loro emissioni chimiche, per cui con l’impatto sulla salute della popolazione,  tre ricercatori del C.N.R. di Lecce e Bologna, dopo uno studio choc elaborato, così scrivono: “emerge in maniera inequivocabile come in presenza di emissioni da installazioni industriali che portano alla formazione di particolato secondario debba essere considerata la Centrale ENEL termoelettrica di Cerano, con le sue reazioni chimiche, nell’impatto della salute, sulla popolazione, ben 44 decessi all’anno, tra tumori al polmone, malattie dell’apparato cardiovascolare e respiratorio.

Dallo studio sulle emissioni letali, è risultato che l’esposizione a PM 10 ed al SO2 delle Centrali termoelettriche, è associata ad aumento del rischio della mortalità per tumori maligni, tumore al pancreas, tumore alla vescica (uomini), a leucemia (uomini), eventi coronarie acute e malattie dell’apparato respiratorio in particolare broncopneumopatia cronico ostruttiva (BPCO).     L’esposizione alle emissioni del petrolchimico (COV) è risultata associata alla mortalità per eventi coronarici acuti e per malattie respiratorie tra i residenti in aere economicamente più svantaggiate.

 E come la ciliegina sulla torta, a cotanto disastro salutare, non potevano mancare le malformazioni neonatali legate all’inquinamento.

 La rivista BmC. Pregnauncy and childbirth, annota che su 8.503 nuovi nati da madri residenti in Brindisi, 194 hanno avuto anomalie congenite. Le malattie coronariche sono le più preoccupanti. In 85 casi, infatti, sono stati riscontrati disturbi congeniti al cuore. Un tasso di 97,6 ogni 10 mila neonati, un terzo al di sopra di quello Europeo.

 E con 10,8% di probabilità media di morte fetinatale.

 Ora, di grazia, chiedo a voi, miei lettori, da quel grande complesso industriale, che tanto danno arreca alla salute pubblica, quali sono i vantaggi che ne derivano ai cittadini di questa nostra amata città?

 Voi mi risponderete che vi sono le grosse sovvenzioni che l’Enel elargisce annualmente.

 Ma sono sufficienti per ripagarci dall’inquinamento che esse producono e che portano solo malattie e morte perfino nei neonati ed addirittura nei feti che stanno sbocciando a novella vita!

Direi proprio di no, senza dimenticare poi i 35mila residenti disoccupati e disperati, che non lavorando, sopravvivono a stento con l’aiuto dei parenti, oziando per le vie della città e maledicendo di essere qui nati.

 A questi si aggiungono i giovani dai 18 ai 24 anni che non hanno lavoro, per cui la disoccupazione giovanile è del 39,2%. A questi dati vi sono da aggiungere, i giovani che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi. Vi sono poi molti giovani dai 24 anni in su, che hanno smesso di cercare lavoro, per cui dal punto di vista statistico non fanno più parte della massa di disoccupati

L’economia della città, è sostenuta dalla classe impiegatizia che è molto numerosa, essendo capoluogo di   provincia, anche se molti uffici sono stati soppressi o trasferiti in altre città capoluogo, dai medici di famiglia, dagli ospedalieri, dagli Insegnanti.

Tutti questi contribuiscono in maniera massiccia per sostenerla, insieme ai moltissimi pensionati dei vari Enti Statali.

 Tale sostegno però alla fin fine risulta sterile, per la tanto reclamata ricerca occupazionale, in quanto la continua apertura di nuovi centri commerciali, fa sì che le piccole botteghe scompaiano, favorendo in tal modo la crescita della disoccupazione

Ma i due poli economici che sono l’agricoltura e la pesca, che una volta erano tanto importanti e determinanti per l’economia florida della città, oggi giorno sono quasi del tutto abbandonati.

 Vi sono non poche aziende agricole, che sfruttano la manodopera degli extracomunitari, per i lavori stagionali. Ridotte a poche sono le aziende che lavorano per la produzione del vino.

 Per quanto riguarda la pesca, non esistono imbarcazioni di alto mare, mentre sono numerose le piccole imbarcazioni per la pesca lungo il litorale, lasciando alle marinerie di Manfredonia e di altre città marittime il pescaggio del mare.

 Il litorale di Brindisi bellissimo e lunghissimo, è completamente abbandonato all’incuria ed alla desolazione.

 Dove dovrebbero sorgere villaggi turistici, vegeta alta e rigogliosa l’erbaccia.

 Un unico villaggio turistico, costruito a regola d’arte, che era bellissimo e degno di essere denominato tale, colmo di tutti i conforti richiesti, tipo ristorante, bar, servizi igienici di gran lusso e piscina, da fare invidia a quelli tanto decantati di altre località di mare, era sorto sulla costa.

 Ma subito dopo appena un anno di gestione era stato sottoposto a sequestro per ordine della magistratura inquirente.

A distanza di ben dieci anni, si attende ancora l’esito, procurando un danno economico enorme agli acquirenti delle villette del villaggio, che in buona fede le ebbero ad acquistare.

 Il lido è stato completamente distrutto e vandali e ladri ne hanno fatto scempio.

Ben cento operai che lavoravano alla costruzione di un albergo che faceva parte dell’insieme del villaggio, persero il lavoro, come pure lo hanno perduto centinaia e centinaia di lavoratori dell’indotto dei lavori della manutenzione di quel meraviglioso centro turistico.

Questa è la mia, la vostra città e quando una città, la nostra città nel particolare, si presenta come un centro urbano, a sviluppo bloccato, nonostante le ricchezze storico paesaggistiche di cui è dotata, e non riesce a produrre consapevolezza dei suoi punti di forza ed imboccare la strada dello sviluppo, allora questa città, è condannata al declino.

In quel declino, essa si adagia e si culla e per abitudine e noia si adatta, ed indifferente subisce qualsiasi ingiustizia che la sorte le arreca.

Ora riflettendo su questo nostro centro urbano, nel grande specchio che è l’intero mondo, attraverso i mass-media assisto quotidianamente con ansia e disperazione al dispiegarsi di una terza guerra mondiale, combattuta a pezzi di territorio che man mano sempre di più si allarga, dove quei quattro orribili punti di nequizia umana, quali conflitti, ricatti, corruzione e morte, sono più che mai presenti.

Ed è proprio quel “non intenderci l’un l’altro” che trovando il terreno rigoglioso, ha raggiunto i piccoli villaggi, poi i paesi, le città, le regioni, le nazioni ed i continenti, creando quel mondo cancrenoso nel quale, assistiamo impotenti al succedersi di tali malevoli eventi.

 Una nuova Torre di Baybbalu si sta costruendo, grazie all’orgoglio di pochi uomini, che aspirano sempre maggiormente a conquistare il Potere.

Man mano essa cresce e si erge sempre più in alto sino a voler raggiungere il tetto del cielo, per poi, certamente fare la stessa fine di quella mitica, cadere e ridursi in polvere. le prime avvisaglie, ne sono la testimonianza.