2016/apr IL BRIGANTAGGIO POLITICO STORIE DI BRIGANTI NINCO NANCO di Antonio TRONO

 

Tra le personalità che hanno contribuito a scrivere le pagine del movimento noto con la denominazione di Brigantaggio Politico vissuto da uomini e donne che popolavano tra 1860 e il 1870, spicca la figura di Ninco Nanco.

 

Con tanti altri condivideva le grotte, le selve e le immense foreste che in quell’epoca vegetavano nelle contrade del nostro Meridione d’Italia, per contrastare l’invasione dell’ex Regno delle due Sicilie, da parte delle soverchianti ed agguerrite truppe Piemontesi.

 

Chi scrive, intende premettere che il racconto della vita e delle gesta del soggetto che sta per affrontare,  è relativo ad un vero e proprio criminale, un emerito mascalzone, un rifiuto della Società civile di tutti i tempi.

 

Un tagliagole, un assassino, un violento, nato e cresciuto nella violenza della famiglia d’origine,

 

Insomma, questa è il racconto della storia di Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, che solo l’incontro con Carmine Crocco, lo fece confluire nella grande fiumara degli Insorti, che la Storia scritta dai vincitori, definisce “briganti”, mentre quella scritta dai vinti li definisce “Patrioti”.

 

Così, mentre i fratelli Bandiera si immolavano nel Sud per la libertà e mentre Carlo Pisacane elaborava il suo pensiero socialista ed ancora, Alessandro Poerio, trovava la morte nella difesa della Repubblica di Venezia, Carlo Poerio, Luigi Settembrini, marcivano nelle prigioni Borboniche e Francesco De Sanctis era tenuto prigioniero in Castel dell’Ovo, Ninco Nanco regolava i suoi conti con la Giustizia Borbonica per questioni di delinquenza comune.

 

Lo storico Giordano Bruno Guerri nel testo “Il sangue del Sud” testualmente scrive: “Giuseppe Nicola Summa, nato ad Avigliano (Potenza) nel 1833, apparteneva ad una famiglia dal curriculum criminale di tutto rispetto, in particolare lo zio materno, Giuseppe Nicola Coviello, era stato un bandito tra i più temuti del luogo e finì bruciato vivo dalla polizia borbonica nella capanna ove si era nascosto per sfuggire alla cattura.

 

Uno zio paterno, dopo aver scontato dieci anni di reclusione per aver schiaffeggiato una guardia borbonica, uccise, per una questione di gioco, un cittadino e per questo fu costretto a fuggire in Puglia, dove uccise il massaro presso cui lavorava dandosi così al brigantaggio.

 

Gli esempi familiari e la personalità ribelle di Ninco Nanco, offrivano ampie garanzie di un futuro da fuorilegge.

 

Sia l’aspetto che il contegno non erano di meno”.

 

Il Guerri ci fa intendere che la sua strada è segnata e che lo stesso brigante Carmine Crocco, definisce Ninco Nanco un “rozzo e tartaglione”, ma sono acclarate dagli storici gli inizi della sua vita giovanile di fuorilegge durante il regime borbonico.

 

Aveva venti anni nel 1853 quando fu ferito con un colpo di scure alla testa, durante una lite per questioni di gioco.                   

 

Questo primo violento episodio, nel quale egli ebbe la peggio, nel quale venne umiliato sia nel corpo che nello spirito, fu quello che fece scattare la molla scatenante del suo odio, della cattiveria verso i suoi simili e che incise in maniera determinante nel farlo divenire quello che in seguito diverrà un uomo privo di scrupoli e di crudeltà disumana.                                           

 

In una via retrostante la Chiesa della Santissima Trinità, nel quartiere “Le Rocche” di Avigliano, in un agglomerato di case e casupole che fiancheggiavano la strada, vi era la bottega del vinaio del paese, dove i contadini, i braccianti ed i nulla facenti del luogo si ritrovavano dal mattino sino alla sera per giocare, chi a “morra” e chi con le carte da gioco. L’oste dava loro, un litro di vino, in cambio di due tornesi di rame che i perdenti regolarmente pagavano.

 

Il locale era costituito da uno stanzone illuminato da lumi con riflettori di latta, tappezzato fino all’altezza delle tavole di una sudicia carta da parati e lungo i muri, correvano panche di legno, con tavoli pure di legno, poste a circa un metro l’uno dall’altro.                                                        

 

Quel pomeriggio domenicale del 30 ottobre 1853, il locale era molto frequentato, circa 40 – 50 giovani ed anziani, in abito festivo, dalla faccia infuocata dal tanto vino trangugiato, trascorrevano il tempo giocando.                             

 

In un angolo del locale, due giovani molto alticci, discutevano a chi dei due toccasse pagare il vino consumato. Uno di loro era Giuseppe Nicola Summa alias Ninco Nanco che, pur avendo perso nel gioco, insisteva di non voler pagare quanto dovuto.

 

 L’altro, un certo Vito, un suo vecchio compagno di giochi, ad un tratto, preso da cieca ira, alimentata dall’alcol ingerito, tirata fuori da sotto il tavolo una scure che il mattino aveva acquistato al mercato festivo, gli assestava un colpo di sbieco alla testa, facendolo crollare sul pavimento, privo di sensi.                                 

 

Dopo una lunga degenza, una volta guarito, riprese la sua solita vita di soprusi e di angherie, e così, tre anni più tardi, venne assalito e pugnalato da cinque individui, che gli procurarono altri tre mesi di degenza, ma i cui nomi non fece mai alla polizia, meditando di vendicarsi personalmente.                                         

 

Trascorsi alcuni mesi Infatti, uccise a colpi di scure, uno dei suoi feritori e per questo, dopo aver confessato il delitto, fu condannato a dieci anni di carcere e rinchiuso nel penitenziario di Ponza, da dove evase nell’agosto del 1860.             

 

Una volta evaso, tentò prima di arruolarsi nelle file Garibaldine, ma scartato, si presentò a Salerno a Nicola Mennuni, comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, dal quale ebbe un’identica risposta, anzi a stento scampò alla vendetta dei parenti della sua vittima presenti in quella colonna.

 

Tornato ad Avigliano presentò domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale, ma l’esito fu lo stesso, come uguale fu il rifiuto alla sua richiesta di incorporamento nel Battaglione Lucano.Di ritorno da Potenza un sacerdote gli consigliò di tenersi nascosto, perché i nuovi Governanti non avrebbero sorvolato sui suoi reati passati, e così il guardiano di vigne di Avigliano decise di darsi alla macchia, vivendo di rapine fino al 7 gennaio 1861, quando in casa di Giuseppe Allamprese, proprietario di Ginestra, incontrò la banda di Crocco e si unì ad essa. 

 

D’ora in poi, Ninco Nanco, seguirà le orme di Carmine Crocco.                                           

 

Con la sua banda fu presente nella rivoluzione contadina del Melfese fino alla battaglia di Rionero, successivamente fuggì con Crocco nell’Irpinia; il 10 agosto era a Ruvo del Monte; il 13 gettò lo scompiglio in Avigliano, intenzionato ad occuparlo, ma senza riuscirvi; con Borjes e Crocco partecipò alla vita attiva della banda, finché nel febbraio del 1862 ottenne un territorio su cui aveva una illimitata  libertà di agire, con la sua banda di 48 uomini, rimanendo sempre disponibile agli ordine di Crocco in occasione di qualche grande scorreria.     

 

Il brigante Aviglionese, assieme a Crocco, partecipò ancora a numerosi saccheggi, conquistando quasi tutto il Vulture e le città di Melfi, Rionero, Ruvo del Monte, senza mai riuscire a prendere la sua città natale, Avigliano, poi gran parte della Basilicata e spingendosi fino all’Avellinese ed il Foggiano.

 

Si distinse soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei Briganti e dimostrando la sua padronanza in campo bellico.

 

Ninco Nanco era accusato a quel tempo, anche per la sua capacità di compiere atti ferini. La sua compagna, Maria Lucia di Nella (nota come Maria ‘a Pastora), brigantessa di Pisticci, era sempre accanto a lui durante gli assalti e le imboscate. Secondo i racconti popolari della zona, quando Ninco Nanco strappava il cuore dal petto dei bersaglieri suoi prigionieri, Maria gli porgeva sempre il coltello.          

 

Il primo marzo 1862, assieme a Crocco e Caruso, con fu costretto alla fuga da due compagnie di bersaglieri e un reparto di guardie nazionali; il sei maggio nel bosco di Ruvo in uno scontro con la guardia nazionale perse 10 uomini, mentre altri due li perse in agro di Venosa il 9 giugno.

 

 Per cinque anni in tutto il Vulture-Melfese e la valle di Vitalba (da Atella fino al castello di Lagopresole) non vi fu un viaggio non disturbato da briganti o che sfuggisse alla loro vigilanza.

 

Chi si avventurava senza una adeguata scorta armata (per esempio agli operai addetti ai lavori di costruzione della strada Moliterno - Montalbano fu predisposta una scorta armata), veniva sistematicamente depredato, come capitò al corriere postale ai primi di giugno 1861 nel territorio di Venosa e a quello proveniente da Melfi nell’aprile del 1864, o al saccheggio effettuato a scapito di un carretto carico di sale e tabacco nel luglio 1862 ad opera delle bande di Ninco Nanco e di Tortora.

 

Nel gennaio 1863, Ninco Nanco si rese colpevole della più feroce carneficina, quando uccise a tradimento ed infierì sui cadaveri del capitano Capoduro, di un vecchio contadino, di quattro soldati e del delegato di Polizia di Avigliano Polesella, quest’ultimo, artefice del piano che prevedeva la costituzione di Ninco Nanco e della sua banda.

 

Nel marzo del 1863 a San Nicola di Melfi, assieme alle bande di Crocco, Caruso, Marciano, Secchetiello, Caporal Teodoro e Malacarne di Melfi, partecipò anche al massacro di uno squadrone di Cavalleggeri di Saluzzo, comandato dal Capitano Bianchi. Dei 21 cavalleggeri 15 furono seviziati e successivamente uccisi.                                    Nel settembre dello stesso anno partecipò alle trattative di resa col Prefetto di Potenza, Bruni, ragioni per il quale quest’ultimo fu costretto a dimettersi, Ninco Nanco però, non si costituì e continuò a commettere omicidi e ricatti sino al 26 gennaio 1864.

 

L’8 febbraio 1864 la banda venne decimata presso Avigliano, perdendo 17 uomini, triste presagio di ciò che sarebbe avvenuto un mese dopo, il 13 marzo, quando presso Lagopesole, Ninco Nanco e tre suoi compagni vennero catturati dalla Guardia Nazionale di Avigliano, capitanata da Bededetto Corbo, vecchio protettore di Ninco Nanco.

 

Il 27 giugno 1863, appena catturato, Ninco Nanco fu subito freddato dal caporale della Guardia Nazionale Nicola Coviello, ufficialmente per vendicarsi della morte del cognato, ucciso da Ninco Nanco, ma molto probabilmente fatto eliminare su ordine dallo stesso Corbo e dai molti manutengoli.

 

 Lo stesso Corbo due mesi dopo, fu coinvolto assieme al giudice mandamentale di Avigliano, Giorgio Marrano e al delegato di Pubblica Sicurezza, Mariani, in un’altra vicenda di complicità con i briganti.

 

I tre furono accusati dal generale Baligno, comandante delle truppe di Basilicata, di aver rilasciato il 12 aprile “senza aver nessuna autorità” due salvacondotti a due briganti appartenenti alla banda di Ninco Nanco, Luccio Domenico e Colangelo Santo.

 

I due salvacondotti, che valevano 8 giorni, furono ritirati dal capitano De Maria, comandante della 8^ Compagnia del 22° Fanteria, il 16 aprile, quando la compagnia arrestò i due individui che scorrevano le campagne di Avigliano.

 

La morte di Ninco Nanco, il più valido luogotenente di Crocco, fu salutato con gioia da tutte le Autorità della Provincia e del Regno, e la stessa stampa riportò ampi resoconti, con vivacità di stile e ricchezza di particolari.

 

Il giorno successivo, il suo cadavere veniva trasportato a Potenza ed esposto al pubblico ludibrio per qualche giorno.

 

Tra gli oggetti ritrovati addosso al cadavere, ci furono due pacchi di monete d’oro, sette piastre, una rivoltella, due fucili, una carabina, due orologi a cilindro d’argento e una catenella d’oro.                               

 

La morte eliminò fisicamente Ninco Nanco, ma non le polemiche che si scatenarono in seguito, tra il capitano della Guardia Nazionale di Montemurro, Giovanni Padula, che accusò Benedetto Corbo di essere un manutengolo ed un protettore di Briganti.

 

Infine i resti della banda di Ninco Nanco confluirono nella banda Ingiongiolo di Oppido Lucano. Sull’uccisione del brigante Ninco Nanco, la Gazzetta militare del 26 marzo 1864, così scriveva: “Il Maresciallo d’Alloggio e tre Carabinieri di Avigliano, con due Preti ed alcuni valorosi giovani associatisi volontariamente ai medesimi, avuto contezza dei briganti, si aggiravano per la campagna nei dintorni di quella città, quando si incontrarono con le Guardie Nazionali, comandate da Benedetto Corbo. Unitasi assieme e saputo che Ninco Nanco con due soli briganti trovavasi accovacciati in un pagliaio, si diressero a quella volta. La pagliara essendo in sito elevato, la Guardia Nazionale si arrestò a mezza strada ed il comandante di essa si pose a gridare: “Carabinieri avanti!” Il Carabiniere Segoni ed il Prete Pace corsero immediatamente alla pagliara da cui sbucò per primo il brigante Lo Russo, che si arrese subito; dopo vide comparire sulla soglia Ninco Nanco stesso, armato di fucile e revolver accennando a difendersi; ma il Carabiniere Sagoni gli intimò la resa, minacciandolo di morte. E fu allora che il famigerato capobanda cedette le armi e mentre il carabiniere Sagoni, stava per assicurarlo con le manette, un colpo di ignota provenienza colpiva Ninco Nanco al collo e lo stendeva cadavere al suolo.                           

 

Si procedette in seguito alla cattura del terzo brigante Mangiullo. Si hanno gravi indizi a vedere se chi ha ucciso il Ninco Nanco, quando era già in potere del carabiniere Sagoni, fosse qualcuno che abbia voluto impedire che compromettenti rivelazioni uscissero dalla bocca di Ninco Nanco.                                 

 

In seguito si verrà al chiaro di qualche cosa”.          

 

Giunti al termine del racconto, rimane scarsamente importante approfondire la palese combutta di Benedetto Corbo, con il brigante Ninco Nanco.                                   

 

Rimane, però, a distanza di oltre 150 anni, l’obbligo di conoscere quale fosse la durezza di vita di quella tanto, per noi Meridionali, funesta epoca e di sapere come fosse organizzata la Società Civile che circondava l’uomo che rivestiva le umane spoglie di Giuseppe Nicola Summa.                                        

 

Per scrivere ciò, mi sono servito delle memorie che eminenti storici, giornalisti e gente comune, ci hanno lasciato, perché non dimenticassimo chi siamo, chi erano i nostri progenitori e da quale terra, noi proveniamo, resa a tutt’oggi ancora povera ed infelice.                         

 

Nel 2009, dal dvd Live “Kaulonia Tarantella Festival 2009” La guerra al Brigantaggio e la questione Meridionale dell’Italia postunitaria un Piemontese così scriveva:  “Io personalmente, benché sia un piemontese verace, provo un vero disgusto al solo pensiero delle celebrazioni di questa falsa “Unità dell’Italia” nata dalla violenza e dal sangue, che tra non molto ci investiranno con il loro corredo di retorica patria e napolitanesca (mi riferisco al nostro Presidente, capo di tutti i retori), beh, non sono qui a fare il neoborbonico e non sono certo neppure a celebrare Ninco Nanco come  un partigiano ed uno sfortunato eroe rivoluzionario.      

 

Ninco Nanco prima di diventare uno dei luogotenenti più vicini a Carmine Crocco, e a trascorrere quattro anni intento a massacrare le truppe Piemontesi, che a suon di massacri intendevano convincere i nostri avi Meridionali di aderire spontaneamente alla gloriosa Unità d’Italia, fu un violento delinquente e tagliagole che finì Brigante perché non era riuscito ad arruolarsi con Garibaldi e nella Guardia Nazionale in modo di ottenere la grazia e l’impunità per i suoi delinquenziali trascorsi penali.                            

 

Lo storico Lorenzo del Boca, nel suo libro “Maledetti Savoia”, Ed. 1998 a pp.156 – 158, così si esprime in merito all’invasione del Meridione da parte delle truppe Piemontesi: “La durezza disumana dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali. Il numero degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.            

 

I cosiddetti fuorilegge, riuscirono a costituire 400 bande agguerrite”. Con un calcolo meticoloso Tarquinio Maiorino (giornalista e saggista Molisano), ha potuto stabilire che contavano 80.702 combattenti. Almeno altrettanti furono coloro che facevano parte delle organizzazioni ausiliarie, gli informatori, i vivandieri, gli agenti di collocamento, i conviventi, i familiari e le amanti.     

 

I banditi godevano di solidarietà diffusa tra la gente e quando arrivavano nei paesi, era festa grande.

 

Molti vennero uccisi.

 

Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare nel carcere. Gli altri vennero sterminati in massa. Quanti?

 

Michele Topa (giornalista e autore de “I Briganti di Sua Maestà”, cita i giornali stranieri, che in quegli stessi anni, tentarono un bilancio di questa guerra nascosta e dimenticata.         

 

Risultò che dal settembre 1860 all’agosto 1861, poco meno di un anno solare, vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri. Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 610 giovani sotto i 12 anni e 50 donne.                                           

 

Le case distrutte furono 918, sei paesi cancellati dalla carta geografica.                                 

 

Cifra materialmente provvisoria ed ampiamente parziale per difetto. Con il ferro e con il fuoco distrussero Guardiaregia e Campochiaro nel Molise, Pontelandolfo e Casalduni nella provincia di Benevento. Forse esagerano gli storici, che leggendo il Risorgimento in chiave Borbonica sostengono che il Meridione pagò l’unità con 700.000 vittime.                                          

 

E probabilmente è un impeto di polemica quello che porta Antonio Ciano a ipotizzare un milione di morti. Ma certo la parola “Massacro”, non è gratuita e né esagerata.                 

 

Questo è il racconto della storia di Ninco Nanco che ho scritto per voi, miei lettori, come quelli scritti per Carmine Crocco e del Sergente Romano che sono simili a quelle di tanti altri centinaia di uomini che incattiviti ed esasperati dal brutale comportamento delle truppe piemontesi, colmi di odio e di rancore, nei loro riguardi, li aveva resi selvaggi e sanguinari, tanto a volte da uguagliarsi, se non a superarsi a vicenda, per lo spargimento di tanto sangue di umana gente. Ma la catastrofe permanente rimane, perché nel presente noi Meridionali, paghiamo ancora le conseguenze di quella ingiusta invasione compiuta dal popolo del Nord, spogliandoci delle nostre ricchezze, super tassando i nostri prodotti, succhiando come tanti vampiri il nostro sangue e privandoci della nostra vere origini, rimanendo per loro, a tempo indeterminato “la questione Meridionale” buona solo per condire la retorica e tacitare e condizionare ogni possibile via allo sviluppo sociale culturale ed economico del meridione.

 

Brindisi, 24 marzo 2016