La ragazza contesa

Della mia esperienza di vita vissuta, nell’incessante vagare del pensiero, mi assillano le rimembranze del carico di ricordi, racchiusi nella mia mente.

Sono ricordi spezzati ed apparentemente slegati, altri rimasti insoluti, con la caratteristica di sogni colorati, costellati da intervalli di bianco e nero; fuochi di strega che brillano silenziosi e rossi in una atmosfera di grande desolazione.

Ora che mi ritrovo ritto ed impavido, sulla sponda dell’eternità, mi volto per un ultimo sguardo verso la terra nella quale per lungo tempo ho vissuto e vedo che lì, sono rimaste impronte distinte, orme di piedi stanchi che hanno attraversato il mondo, conosciuto l’orrore e il dolore, serpeggianti e insicure come quelle di un uomo che barcolla sotto un carico.

Ma quel carico, non è affatto un carico di cose materiali, ma è un carico gravido di memorie di fatti cruenti, di giovani vite spezzate, di donne uccise ed oltraggiate, di uomini scippati della loro dignità umana e calpestati dalla superbia e dell’arroganza di altri uomini, che nel loro ristretto, limitato e misero mondo, godevano di privilegi e di una supremazia dettata solo ed esclusivamente dal possesso della “roba” cioè della terra, che in quella epoca di cui racconto, costituiva la ricchezza economica e sociale in assoluto.

A volte, mi sovvengono alla memoria e rivedo, frammenti di vita di uomini con i quali ho convissuto, ricordi smembrati di vicoli, di strade, di piazze, di giardini e di chiese dei paesi dove nel passato, ho sostato, trascorrendo parte della mia giovane vita. Volti di uomini e di donne, di vecchi, giovani e fanciulli, con i quali mi sono intrattenuto, con i quali ho dialogato ed a volte perfino giocato. Incendi di case andate distrutte, corpi senza vita di uomini uccisi da mano fratricida, parti di corpo umano sezionato e gettato tra i rifiuti, questo e quanto altro prodotto da delitti senza logica che altri uomini hanno portato a compimento.

Posso con certezza affermare che a volte mi pare di rivedere tutto l’orrore di cui è capace l’uomo nella sua insana follia. Come attraverso un caleidoscopio, si sovrappongono le presenze contemporanee  di figure e di immagini diverse, mentre fissate, appaiono a sbalzi le istantanee di quei miseri volti di morti ammazzati, ferocemente  deturpati, che attraverso i loro occhi fissi ed immoti, sembrano fissarmi attoniti ed increduli e mi chiedono in un chiesastico silenzio, il perché di tanta ferocia.

Non crediate però, oh! Miei lettori, che ero solo a convivere ed a lottare quelle atroci e malvagie nefandezze. Vi erano altri uomini che mi affiancavano o che affiancavo, con i quali condividevo il gravoso compito Istituzionale.

Di tali personaggi, ne ho conosciuto tanti e tanti, nella mia lunga esperienza di militare dell’Arma dei Carabinieri, per cui  sarebbe difficile, se non impossibile descriverli tutti, quindi, prima di passare al racconto, desidero immortalare almeno sulla carta, le figure che divisero con me l’ingrato compito e descrivere per sommi capi, le condizioni socio-economiche dei cittadini del  paese, di cui tacerò il nome e del quale ho già narrato nei precedenti racconti.

Ora, però, nel descrivere tali personaggi sui quali mi soffermerò, vorrei dire che di loro, mi colpirono le singolari fattezze, il fascino del loro dialogare e l’acutezza della mente ed anche la forma superficiale del corpo.

Allora ero giovane e solo ora, rivedo in loro gli uomini di una volta, saggi e grandi, non come quelli di oggi, piccoli e malvagi, fanciulli volubili e nevrotici che testimoniano la sventura di un mondo che sempre di più invecchia, precipitando sempre di più negli abissi della follia collettiva.

Inizierò quindi dal Magistrato Inquirente e dato che il Pretore, nelle varie circostanze in cui si verificavano fatti delittuosi, si trovava fuori sede, tale figura la rappresento nella persona   del   Vice Pretore, che mi era sempre vicino e del quale ricordo la vasta erudizione giuridica, l'affabilità, l'intelligenza ordinata e sicura. Era di bello aspetto, di statura normale. Aveva occhi neri, vivi penetranti, naso aquilino ed una bocca regolare. Vestiva con eleganza e sobrietà, come si addiceva ad un buon professionista. Aveva una buona clientela ed era molto rispettato dalla popolazione del luogo. Ricordo ancora, la sua sollecitudine nel fornirmi consigli tecnico-giuridici su questioni di procedura penale.

C'era poi il medico legale. Laureato in medicina presso l’Università di Palermo, profondo studioso di anatomia e quindi patologo dell’Ospedale Civile del paese, era il medico che il paziente non vedeva mai, quello che lavorava tra le provette nei laboratori dell’Ospedale, esaminava le radiografie, studiava i tessuti sui vetrini, effettuava le lugubri autopsie ed aveva molto spesso il compito di dettare l’ultima diagnosi, capace di salvare una vita. Aveva superato i cinquanta anni, di carattere piuttosto irascibile, era  il Signore incontrastato del suo dominio presso l’Ospedale e la disperazione del primario di Chirurgia, con il quale a volte non andava d’accordo. Mi era molto utile nelle indagini su fatti di sangue che di tanto in tanto si verificavano.

Il terzo, era la figura del mio capitano, che aveva il Comando della Compagnia, dalla quale dipendeva la Stazione Carabinieri e la Squadra di Polizia Giudiziaria, della quale ne avevo il comando. Era un  ufficiale ed un gentiluomo  di vecchio stampo, retto, saggio ed umano.

Aveva circa quarantacinque anni, di altezza media e di carnagione bruna, da buon siciliano quale era. Era sereno nel giudizio e sapeva mantenere la disciplina dei suoi dipendenti, senza avventate punizioni, sempre inflitte rispettando pienamente la dignità del dipendente. Era inoltre un gran maestro nelle indagini di Polizia Giudiziaria. Lo rammento con stima, perché, fu davvero per me un buon istruttore ed io un suo bravo allievo. Soleva affermare nei miei confronti che ero il sottufficiale più  intelligente della sua compagnia, ma che agivo solo e sempre di testa mia. Di lui mi rimane un ottimo ricordo.

Ed ora mi sforzerò ancora maggiormente per ricordare e descrivervi nella maniera più completa, le fattezze, il modo di pensare e di agire del mio più stretto collaboratore, l'appuntato Giuliano Sanfilippo. Aveva circa quaranta anni, corporatura più alta della media, carnagione bruna, occhi nerissimi e vivissimi. Possedeva lineamenti energici ed era alquanto taciturno. Aveva  un fisico robusto ed una intelligenza non ricca, ma lucida. Conosceva in profondità, i vizi ed i pregi degli abitanti del paese ed era come se avesse nella mente una lavagna, dove divideva i buoni ed i cattivi dei cittadini del luogo. Dei suoi giudizi mi fidavo, perché lui solo, attraverso il lavorio della mente e la frequentazione quotidiana della gente, conosceva in maniera esatta e precisa i loro pensieri e le loro azioni. Per questa sua particolare attitudine, lo stimavo molto e mai, nel corso del mio soggiorno in quel centro, presi delle decisioni, senza che non venissero da lui avallate.

Vi erano anche altri uomini, capaci e volitivi, che collaboravano in pieno nel mio operare, ma di loro ho scarsi ricordi e mi conforta ricordarli ancora giovani e bravi nel modo in cui li vidi e nel modo in cui ebbero ad agire.

Particolare attenzione meritano anche i luoghi e principalmente il paese. Il centro in cui operavo, era popoloso e prettamente agricolo. Zona collinosa, adatta alle varie colture. Vi primeggiavano estensioni di oliveti e mandorleti che sovrastavano le colline circostanti, mentre il terreno in pianura, era coltivato a carciofi ed ortaggi vari.

Le grosse proprietà terriere, erano in mano a due o tre famiglie, che avevano avuto la fortuna di avere ascendenti di antiche nobili origini, per cui si può affermare che vi era una o al massimo due famiglie di Baroni, l’uno ricco di molta proprietà terriera e l'altro, non più tanto ricco. Vi erano poi poche altre famiglie che avevano avuto ascendenti cavalieri e di tale titolo, gli eredi si fregiavano. Avevano conservato parte del patrimonio terriero, un tempo usurpato al pari di quello dei Baroni. La rimanente parte dei terreni coltivati, era suddiviso in moltissime particelle, in possesso di piccoli e medi coltivatori diretti. Poi seguiva un nutrito numero di operai, assunti dal Dipartimento regionale dell' Agricoltura e Foreste, che accudiva i terrapieni delle zone boschive di proprietà del Demanio; un buon numero di pastori, che viveva di pastorizia. Poi i campieri e le guardie giurate, queste ultime riunite in Istituti di vigilanza campestre, che si dividevano i terreni da vigilare e dal cui lavoro traevano il loro sostentamento. Infine vi era la classe bracciantile, che era la più misera e carica di bisogni mai appagati.

La classe media e borghese era formata dalla casta impiegatizia, da quella medico-sanitaria, che comprendeva sia i medici e gli infermieri che svolgevano la loro libera professione e quella dei medici ed infermieri dipendenti del locale Ospedale Civile. A questa classe si aggiungevano i numerosi commercianti ed artigiani, che godevano di una discreta agiatezza.

Con il risultato che mentre nel Nord e Centro Italia, le industrie prosperavano, nella Sicilia e nel Meridione in genere, la vita socio-economica era rimasta ancora ancorata ai tempi precedenti alla rivoluzione industriale  del diciannovesimo secolo.

Dal punto di vista delinquenziale, per quanto riguardava la Pubblica Sicurezza e l’Ordine Pubblico, il  paese era alla pari della stragrande maggioranza dei paesi dell’Isola. Esisteva una enorme moltitudine di persone oneste, ligie e rispettose delle leggi e dell’ordine sociale ed una sparuta minoranza che sia per sopravvivere che per altri motivi, trasgrediva quelle leggi e quello ordine sociale.

Ora, dopo aver chiosato in maniera imperfetta e forse noiosa il paese e i sui personaggi, assieme alla ragazza contesa, all’assassino ed all’assassinato, essi diverranno il palcoscenico e gli attori di questa vicenda.

Sui nomi delle persone che menzionerò nel racconto, fin d’ora vi dico, che non sono i veri nomi, in qualche modo li riecheggiano nel suono. Così aiuto la fantasia di scrittore, che pure traendo storie e personaggi dalla realtà, si libera delle sue stesse invenzioni, per garantire vita autonoma e completa ai personaggi.

E dopo questo lungo preambolo illustrativo, passò a  narrarvi dell’omicidio premeditato, studiato nei minimi particolari e portato a compimento dall’assassino.

Era il mattino del Venerdì Santo, che in quello anno di Grazia 1967, ormai molto lontano, coincideva col 24 del mese di Marzo.

Non so dirvi il perché, ma quel mattino, mi ero levato dal letto molto presto ed osservavo da dietro la finestra della mia stanza, il pallido sole che sorgeva all’orizzonte della pianura, che da Oriente si stendeva su buona parte del paese, irrorando dalla sua luce obbliqua, attraverso la fine nebbiolina d’argento, le cime degli alberi. Ammiravo la rugiada che scintillava sulle foglie verdi ed i sottili fili intrecciati delle ragnatele che brillavano sulla fresca verzura dell’orto sottostante, quando squillò ripetutamente il telefono. Risposi! Era il piantone, cioè il militare di servizio alla caserma, che mi comunicava che l’addetto della stazione di servizio carburanti, sito sulla strada che dal centro abitato, conduceva al paese di San Polito, era stato avvertito da un automobilista in transito, che a qualche chilometro di distanza, vi era nella campagna a lato della strada provinciale, una autovettura ribaltata e crivellata da colpi di arma da fuoco.

Immediata fu la mia reazione. In pochi minuti, riuscì a recuperare i due militari di pattuglia che rientravano dal servizio ed insieme, a bordo dell’auto a disposizione, mi portai sul luogo ove era stata segnalata la presenza dell’auto.

Si trattava di una Fiat 1200 Gran Luce, macchina di gran lusso per quei tempi, che rinvenni a circa dieci metri dalla strada, nell’aperta campagna, crivellata di colpi di fucile automatico, nella parte destra del vetro anteriore e della fiancata destra. L’auto si era letteralmente arenata nel fango della campagna e si presentava con lo sportello della parte del guidatore completamente aperto, ma del guidatore non vi era nessuna traccia. Dai documenti rinvenuti, risultava appartenere a Giovanni Branciforte, persona molto nota in paese e che conoscevo benissimo. Egli era il Barone ricco di quel centro e possedeva vasti terreni in quelle contrade. Età quaranta anni. Intelligente, istruito e buontempone. Devoto alla moglie, non aveva figli ed aveva un unico difetto, gli piacevano molto le donne.

Tale difetto lo portava ad essere talmente lussurioso, da considerare tutte le belle donne del paese,  come merce oggetto di scambio, per cui, si diceva, che dava in cambio del piacere ottenuto, denaro o posti di lavoro nella sua vasta azienda agricola.

Assieme ai due militari, mi diedi alla ricerca del guidatore e seguendo le tracce di sangue lasciate, nel giro di pochi passi, dietro un leggero dosso, rinvenni il suo cadavere.

Si trovava a circa cinque metri dalla macchina ribaltata. Giaceva bocconi sulla terra, di traverso, quasi contro le radici di un albero di olivo. Era chiaro che aveva cercato di appoggiarsi con una mano, o con tutte e due all’albero, che era scivolato in avanti ed era morto così con la bocca nella terra.

Da sotto la gamba destra, dalla cassa toracica  e dal collo, si erano formate nella terra, tre evidenti macchie di sangue coagulato, che dimostravano chiaramente i punti in cui i proiettili lo avevano attinto.

Mi diedi immediatamente alla ricerca del probabile luogo, da dove l’assassino si fosse appostato, per colpire con una raffica della sua arma, l’auto in arrivo del malcapitato, e non ci volle molto a rintracciarlo.

Sul lato sinistro della strada ed a pochi metri dalla stessa, vi era un rudere di una antica casa colonica diroccata, il cui muro perimetrale, era prospiciente al manto stradale, fu proprio all’inizio del muro, che rinvenni sparsi per terra una ventina di bossoli ben oleati di arma automatica calibro 45, sicuramente un fucile Thompson, di fabbricazione Inglese, residuato bellico, delle evidenti orme di scarpe chiodate e numerose cicche di sigarette “Alfa”.

Feci circoscrivere quel tratto di terreno, prelevai le impronte delle scarpe, con del gesso bagnato e colato, repertai i bossoli e le cicche, utili per le indagini da svolgere per l’identificazione e la cattura dell’omicida.

Nel contempo, segnalai al mio capitano l’omicidio avvenuto e feci intervenire sul luogo, il Vice Pretore ed il medico legale, per l’esame esterno del cadavere e la relativa rimozione.

Mentre il medico legale mi confermava che l’ora della morte risaliva alle ore 18-19 del dì precedente, ed il Magistrato dava l’assenso alla rimozione del cadavere, giunsero sul posto diverse auto civili ed una militare, da questa scese il maresciallo comandante la Stazione Carabinieri ed alcuni militari, mentre da quelle civili, molti uomini e donne, che tentarono di avvicinarsi alla salma, sulla quale, al termine dell’esame esterno, avevo fatto distendere un lenzuolo. La piccola folla, venne bloccata dai militari sopragiunti, tra scene di disperazione e di selvaggio dolore.

Erano tutti parenti ed amici stretti del defunto. Dal maresciallo, mi fu indicata la moglie del Barone, che era nell’apparire, sconvolta quale era, una donna non tanto bella, alta e spigolosa, dai capelli di un biondo slavato e dal viso allungato.

Solo a lei venne concesso di avvicinarsi per pochi minuti al cadavere del marito, poi venne allontanata con gli altri dal luogo.

Ci vollero ben quattro ore, perché tutto quanto venisse portato a compimento, infine la salma venne portata nella sala mortuaria del locale Cimitero, per l’esame autoptico, mentre l’auto, rimorchiata, venne condotta nel giardino esterno della Stazione Carabinieri e messa a disposizione della Autorità Giudiziaria.

Quando rientrai in paese, dovetti assistere al tradizionale evento di altro manifestato dolore Per le vie del centro, si svolgeva la processione del Cristo morto, della Vergine Addolorata, con la Maria  Maddalena che lo seguiva.

La processione, dava una visione veramente triste e spettacolare, ma nel contempo colma di speranze per l’umanità. Vi erano tutte le congregazioni delle varie chiese; uomini scalzi e penitenti, con le loro tuniche bianche ed i cappucci calati sul viso, con delle piccole aperture all’altezza degli occhi, che salmodiavano e nel contempo facevano dondolare le sacre statue, conducendole da una chiesa all’altra, con al seguito una enorme folla di popolo che pregava.

Con la morte di Cristo, si celebrava la imminente resurrezione della Natura, che era vicina, con l’arrivo della primavera.

Rientrato in ufficio, verso le ore 10,30, mentre ero intento a stilare il verbale del sopraluogo , giunse il capitano, al quale brevemente e succintamente esposi i fatti e le indagini sin lì eseguite ed egli da quel momento ne assunse la direzione.

Seguendo le sue direttive, l’indomani mattina, prima dell’alba, verso le ore quattro, convennero presso la Stazione Carabinieri, numerosi militari che al suo comando, avvalendosi dell’articolo quaranta del Testo Unico della Legge di Pubblica Sicurezza, che consentiva di effettuare perquisizioni sulle persone e nelle abitazioni, per la ricerca di armi, senza l’autorizzazione della Magistratura, fecero, anzi feci anch’io con loro, irruzione in molte case di pregiudicati, allo scopo di rinvenire armi o munizioni attinenti all’assassinio compiuto. Ma dette perquisizioni, diedero esito negativo. Per cui vennero arrestati alcuni elementi, nelle cui case erano state trovate delle munizioni e delle armi detenute illegalmente e deferite all’Autorità Giudiziaria.

Dato il nome eclatante dell’ucciso, la stampa, sia isolana che nazionale, si limitò inizialmente solo a dare a caratteri cubitali, la notizia dell’avvenuto omicidio, ma con il trascorrere dei primi giorni poiché non si era ancora arrivati alla scoperta dell’autore o degli autori, iniziò a divenire incalzante, direi quasi vessatoria nei confronti dell’Arma locale, accusandola di essere poco diligente nelle indagini sino allora condotte.

Ciò avveniva in quanto, all’epoca, veniva rigidamente rispettato il segreto istruttorio e nulla trapelava dagli uffici giudiziari, al contrario di quanto avviene oggi, quando i fatti di sangue, vengono pubblicamente celebrati su tutte le reti televisive.

Sin dal secondo giorno dell’accaduto, assieme al Sanfilippo, ci eravamo prodigati nel sentire incessantemente diecine di soggetti, che nel passato avevano avuto a che dire o fare, o che nel passato avevano lavorato nell'azienda agricola del defunto e che erano stati licenziati, apparentemente senza motivo o, se motivo vi era, per quanto si diceva in paese, era quello che le loro donne, si erano ribellate alle continue pretese sessuali del barone, o erano state da lui abbandonate. E così, pian piano, dopo averli ascoltati ripetutamente, notte e giorno, con  meticolosità e pazienza, qualcosa di sostanzioso venne fuori.

Il quinto giorno del nostro lungo e laborioso indagare, d’improvviso, un soggetto conosciuto dal Sanfilippo, indicò un bracciante che molte cose sapeva in proposito.

Venne immediatamente avvicinato. Si trattava di un individuo losco ed ambiguo, che corrotto dall’offerta di una certa somma di denaro, dietro varie insistenze ci fece conoscere che nelle vicinanze della sua abitazione, viveva una bellissima ragazza, figlia di braccianti agricoli, la cui madre era deceduta da circa un anno ed il padre lavorava nell’azienda agricola del barone defunto e che più volte aveva visto lo stesso entrare nella casa di costei.

Feci convocare nel mio ufficio,la giovane donna, ma prima di proseguire, permettetemi di soffermarmi a descriverla.

Era davvero una bella e piacente ragazza, di circa venti anni, dal colorito roseo, dagli occhi neri e splendenti ed i capelli biondi, lunghi e ben pettinati. Alta, flessuosa e dal portamento eretto e gentile da fare invidia ad una vera Signora. Il suo nome era Gloria e tale nome molto le si addiceva, in quanto glorificava la bellezza femminile in assoluto.

Con lei, fui molto gentile, cortese e premuroso durante l’interrogatorio al quale la sottoposi. Ella dopo molte sollecitazioni e titubanze, ebbe a narrarmi, di essere fidanzata da un paio d’anni con Luciano, ma che negli ultimi due mesi e cioè da quando suo padre era stato assunto in maniera semi stabile nell’azienda agricola del barone ucciso, era iniziata da parte di questo ultimo, una vera persecuzione, una  quotidiana offerta di regali che le venivano portati in casa dallo stesso. Ciò aveva sollevato aspramente la gelosia del fidanzato, che scorgeva di giorno in giorno sempre di più incupito, malgrado che lei lo assicurasse che nulla potesse incrinare il loro amore.

Poi, con un senso di colpa, che di più l’angustiava, piangendo, ebbe a confessarmi che nei quindici giorni precedenti, le avances del Barone si erano fatte sempre più pressanti ed insistenti, ed ella per paura che il padre perdesse il lavoro, era stata costretta a sottostare alle sue voglie. Alla richiesta specifica di indicare approssimativamente l’ora in cui si era incontrata col fidanzato, la sera precedente il Venerdì Santo, ella mi riferiva che contrariamente ai giorni precedenti, questi, era arrivato in casa verso le ore 21, mentre abitualmente, le sere prima, si recava da lei non più tardi delle ore 18, e che quella sera lo vide diverso, quasi sollevato come se si fosse finalmente liberato da un peso che lo angustiava.

Non era più cupo e silenzioso come prima, ma allegro e ciarliero, tanto che ella ebbe a meravigliarsi di così totale cambiamento. Felice di ciò, non si era soffermata a chiedergli il motivo del ritardato incontro di quella sera.

Fermammo Luciano, che posto di fronte all’evidenza dei fatti resi noti dalla sua fidanzata, dopo molte reticenze, confessò il suo delitto, evidenziando in particolar modo, che a causa dell’onta atroce subita dalla propria fidanzata, nulla più lo interessava nella vita, nulla più gli restava, salvo la vendetta. Uccidere il barone era stato necessario, perché la vendetta era l’ultimo filo che lo legava alla vita. Aveva atteso di compiere il delitto, nel tardo pomeriggio della vigilia del venerdì Santo, in quanto sicuro che solo l’indomani di quella giornata Santa, il cadavere sarebbe stato ritrovato, agendo in siffatta circostanza, era certo che solo in tale maniera la sua vendetta sarebbe servita di monito e di ricordo indelebile a tutti coloro che abusando del loro potere, assoggettavano al loro volere, misere ragazze, rese inermi ed indifese a causa della loro povertà.

Era consapevole che ora per lui restava solo la prigione e l’odio dei parenti del defunto, ma che tutto ciò con rassegnazione accettava.

Così il fucile automatico Thompson, assieme alle munizioni venne recuperato e sequestrato, l’assassino venne arrestato, la stampa lodò ed esaltò l’Arma dei Carabinieri, che era riuscita in breve tempo ad assicurare alla Giustizia l’omicida e tutto tornò come prima, con la pace di tutti, malgrado che la disuguaglianza di classe fosse imperante, i soprusi sempre più sopportati, i ricchi continuassero ad essere sempre più ricchi ed i poveri, sempre più poveri diavoli.

 

Brindisi, 19 marzo 2012.

 

Antonio TRONO