Il brigantaggio politico - Il sergente Romano - di Antonio TRONO

Nella giornata del 26 maggio 1861, gli abitanti della cittadina di Gioia del Colle (Bari), festeggiavano la ricorrenza del Santo Patrono della città, San Filippo Neri e la gente vestita a nuovo, nella serata di quel dì, si riversava per le strade cittadine, dirigendosi verso la via del Duomo, per raggiungere la Chiesa Madre e che i venditori ambulanti, avevano invaso, con le loro bancarelle ricolme di frutta secca d’ogni genere noccioline ed altre mercanzie.

 

Dalla finestra del palazzo San Domenico, sede del Municipio, sventolava una grande bandiera tricolore, con lo stemma Sabaudo ed il nastro azzurro a frange d’oro.

 

La processione del Santo, era terminata ed il Sindaco del luogo Filippo Taranto, unitamente alla Giunta comunale ed alle altre Autorità cittadine, allo scopo di voler affermare maggiormente il passaggio dal regime Borbonico a quello Sabaudo, a scopo di beneficenza, aveva indetto nella sala consiliare del Comune, un ballo, al quale aveva invitato le famiglie più in vista ed i maggiori esponenti politici e militari.

 

La gente si fermava al passaggio delle carrozze che dal castello Normanno-Svevo, accedevano giù sino al municipio. Non era uno spettacolo di tutti i giorni, vedere il via vai delle carrozze e la sfilata delle belle donne, accompagnate dai rispettivi cavalieri, che si recavano al ricevimento.

 

Il Sindaco giunse quando la festa era già iniziata. La prima persona che incontrò, fu il Giudice supplente Alessandro Cinque. Dopo essersi scambiati il saluto, il Sindaco iniziò dicendo: “Caro amico, dobbiamo ammettere che la fine del regno  delle due Sicilie di Francesco II, ad opera dell’esercito di liberazione di Garibaldi, ha aggravato la situazione interna della nostra Regione.

 

Durante la sua avanzata, nel risalire la penisola, Garibaldi non ha pensato a ricostruire la polizia, per il mantenimento dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza.  Infatti, non ha fatto altro che aprire le carceri, dando ai reclusi la possibilità di ritornare liberi ed indossare la camicia rossa e fare parte dell’esercito di liberazione, pronti a vendicarsi contro chi giustamente o ingiustamente li aveva fatti arrestare”.

 

A questo punto, obiettò il giudice asserendo che, pur essendo vero tutto ciò, era pur vero, che al potere luogotenenziale della dittatura di Garibaldi, era subentrato quello del Regio Governo che aveva dato disposizioni di vigilare su tutta quella gente. E continuava, asserendo anche di non negare che borbonici e gendarmi, minacciati di prigione o di essere fucilati, a migliaia, andavano ad ingrossare le file di briganti, guidati da quei capi che si autodefinivano ligi a Francesco II di Borbone.

 

Ma la verità è, riprendeva il Sindaco, “che la colpa di quanto si è verificato è anche nostra, perché non abbiamo saputo far fronte alla nuova situazione, con la fine dei Borboni e lo scioglimento dell’esercito. Quei reduci borbonici, li abbiamo oltraggiati, derisi, maltrattati, trattati come esseri inferiori, senza saper spiegare loro il perché della fine di quel regime che abbiamo combattuto e continueremo a combattere, mentre sappiamo molto bene che l’ex re Francesco II, rifugiatosi a Roma nel palazzo Farnese, finanzia da quel quartiere generale i vari capi banda, sperando nella restaurazione del suo regime.

 

“Come avvenne nelle tristi vicende della fallita Repubblica Napoletana del 1799”, aggiunse molto preoccupato il giudice Alessandro Cinque.

 

“Proprio così” replicò il Sindaco “e ricordiamoci che il brigantaggio, dopo aver arrecato lutti e distruzioni nel 1799, risorse più spaventoso nei primi anni del 1806 e dette filo da torcere fino al 1815”.

 

Militari sbandati, delinquenti comuni, malfattori e grassatori, con la scusa di servire il re Borbonico cacciato dai Francesi, si dettero alla macchia ed infierirono selvaggiamente contro le persone e la proprietà.

 

E questa, fu opera di Ferdinando IV di Borbone che, prima di essere deposto, non rassegnato alla dura perdita del Regno Napoletano, era ricorso a quei personaggi per creare ostacoli a Giuseppe Bonaparte ed a Gioacchino Murat, divenuto re di Napoli, per mantenere viva nel cuore del popolo la fiamma della ribellione contro gli usurpatori francesi. La calma e l’ordine che regnavano nel Mezzogiorno furono sconvolti dalle gesta dei briganti, che da Palermo i Borboni alimentavano con molti denari e mezzi. “Fortunatamente per Gioia del Colle, quella parentesi di disordine le fu estranea”, disse il Giudice.

 

“Non è vero” - replicò il Sindaco – “perché nel mio studio, se ben ricordo, ho una copia del Giornale dell’Intendenza, in cui si legge che da un censimento di briganti fatto nella provincia di Bari, il nostro paese figurava nei primi posti per il numero di partecipanti”.

 

Da poco erano suonate le due della notte ed il Giudice Cinque, molto curioso disse: “se non fosse per l’ora, sarei molto ansioso di conoscere chi erano quei personaggi”.

“Con molto piacere” rispose il Sindaco “e visto che siamo nelle vicinanze della mia casa, quale occasione migliore per invitarti a salire un momento”.

Giunti nella casa, il Sindaco ed il Giudice, senza far molto rumore, dopo aver attraversato il corridoio in punta di piedi ed arrivati nello studio e trovato il giornale dell’Intendenza, si posero a leggerlo.

L’episodio narrato era quello del 1809, ed in quell’anno, il fior fiore dei briganti era costituito dai Donvito Giuseppe, Anselmo e Nicolò; da Esposito Giuseppe, Pace Vitantonio, Cuscito Pietro, Covello Filippo, Santeramo Francesco, Surico Vito Nicola, quest’ ultimo fu condannato a dieci anni di ferri per resistenza alla forza pubblica, e poi ancora, da Verrelli Donato, dai Melchiorre Vitantonio e Francesco, D’Ambrosio Domenico, Barba Giuseppe e infine è scritto il nome di Buonsante Natale, il quale, accusato di furto in una masseria, morì nelle carceri di Trani prima del processo.

L’articolo continuava ricordando che di quella teppaglia, molti godettero dell’indulto emanato da Gioacchino Murat, nel dicembre dello stesso anno e che altri invece, come Scarpetta Domenico, Bosco Matteo, Ripa Orazio e Galatola Tommaso, colpevoli di reati minori, beneficiarono dell’indulto, con l’obbligo di partire per Napoli e fare il servizio militare.

“Bel modo di cancellare i reati” osservò il Giudice.

Rimesso il giornale al suo posto nello scaffale, il Sindaco continuò con i suoi ricordi.

Ritornati i Borboni a Napoli, si accorsero ben presto che i briganti, dopo essere stati finanziati e protetti nel periodo della dominazione francese, rivolgevano le armi contro di loro.

Il re delle due Sicilie cercò in tutti i modi di eliminarli. E vi fu solo clemenza per coloro i quali avevano operato nel decennio francese e a condizione che si presentassero entro un mese a Napoli, davanti alla Commissione incaricata di esaminare la posizione di ognuno.

“La caduta di Francesco II conduce nuovamente alla ribalta il problema del brigantaggio, non è così” interloquì il Giudice Cinque.

Purtroppo è così?, concluse il Sindaco.

Erano trascorse da un pezzo le ore due, quando i due amici si strinsero la mano e si dettero la buona notte.

E mentre il Sindaco rimasto in casa, andava a dormire, il Giudice, accelerando il passo, quasi preso da un tremore improvviso, raggiunse la sua abitazione che si trovava di fronte alla Chiesa Madre.

Effettivamente quanto affermato dal Sindaco, rispondeva alla cruda realtà dei fatti, sia in quel di Gioia che in gran parte del Meridione peninsulare italiano.

I briganti, in quella triste epoca, si affermavano quali novelli liberatori militarmente organizzati, nella Capitanata, nella Basilicata con Crocco e Ninco Nanco, a Santeramo in Colle già il 10 dicenbre 1860, il sergente Perniola, si impossessava della sua città e a Gioia del Colle il sergente Romano.

Pasquale Domenico Romano, nacque a Gioia del Colle il 24 agosto 1833 da Giuseppe e Angela Concetta Lorusso. Ebbe un educazione semplice, sana ma rigida che ne rafforzò il carattere.

Fin dall’adolescenza aiutò il padre nella pastorizia che gli permise una particolare conoscenza di quei boschi e di quelle contrade, che poi lo videro padrone incontrastato.

Nel 1851 si arruolò nell’esercito borbonico, dove intraprese una brillante carriera, assumendo ben presto il grado di “primo sergente” e dov,e per le sue particolari doti militari, ebbe l’onore di diventare “Alfiere”, della prima Compagnia del 5° di Linea d’Assalto dell’Esercito del Regno delle due Sicilie.

Verso la fine del 1860, quando venne disciolto l’Esercito, prima di intraprendere il viaggio di ritorno verso il suo paese d’origine, aveva formulato al capitano, comandante della sua compagnia, questa serie di domande: “quale sarà ora la nostra sorte? Come ci comporteremo una volta arrivati nel nostro paese? Chi ci proteggerà dai nemici di Francesco II”.

“Nessuno potrà far niente per noi e per voi”, rispose l’ufficiale. “Dobbiamo restare tutti idealmente presenti per la controrivoluzione, non appena il Re ci chiamerà all’appello; Nell’attesa rimaniamo in contatto con i Circoli Borbonici, da cui avremo istruzioni ed appoggio”.

Congedato dal servizio militare, il Romano, faceva dunque, ritorno a Gioia del Colle, munito dal seguente foglio di congedo:

Real Piazza di Nocera – Battaglione d’Assalto.

Si permette al nominato Pasquale Romano, 1° Sergente, appartenente al predetto Battaglione d’Assalto di recarsi a Gioia del Colle provincia di Bari per tempo illimitato, dovendosi attenere alle prescrizioni contenute nel Real Decreto del 20 Novembre 1860.

Lo stesso ha ricevuto la somma competente di congedo di ducati dieci.

Nocera il 1 gennaio 1861.

Il Comandante del Seguito: Paolo Spada 1°Sergente;

Il Comandante del Battaglione: D’Affitto il Capitano;

Visto il Luogotenente: Colonnello Pallavicini;

Visto il Comandante la Piazza.

Ritornato alla vita civile, vistosi beffeggiato e deriso per i suoi trascorsi militari borbonici, benché molto amareggiato, fece parte del Comitato clandestino borbonico, divenendone Comandante.

Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mal sopportando l’inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo, abbandonò i salotti e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i Piemontesi.

Nel giro di qualche settimana costituì una prima squadra formata esclusivamente da militari del disciolto Esercito Borbonico, ai quali fece pronunciare il seguente giuramento:

“Nel momento medesimo di disposizioni si conferma che nell’anno milleottocentosessantuno, il mese di luglio e giorno ventitré noi tutti in unanimità di voti prestiamo atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli:

1-    Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il Sommo Pontefice Pio IX, Francesco II del Regno delle Sicilie, ed il Comandante della nostra Colonna degnamente affidatagli, e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei soprannominati articoli, così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della Santa Chiesa.

2 -   Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro Re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli sacrosantamente rispettare ed osservare da tutti quei Comuni li quali sono subordinati al partito Liberale.

3 -   Promettiamo e giuriamo inoltre di non mai appartenere a qualsivoglia setta, contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita.

4 -  Promettiamo e giuriamo che durante Il tempo della nostra dimora sotto il Comando del predetto Comandante di distruggere il partito dei nostri contrari, i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità della nostra intera colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro Re Francesco II.

5 -  Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai ad altre nostre colonne senza il permesso del nostro Comandante per effettuarsi un tal passaggio.

6-   Il presente atto di giuramento si è da Noi stabilito volontariamente a conoscenza dell’intera nostra colonna e per non vedersi più abbattuta la nostra Santa Chiesa cattolica romana, della difesadel Sommo Pontefice e del nostro Re. Per quanto sopra stabilito abbracceremo qualunque morte.

Al termine del giuramento. uno dopo l’altro, a cominciare dal Romano, i convenuti sottoscrissero l’atto, dopo aver pronunciato il rituale “ lo giuro“.

Il 26 luglio 1861, si rifornì di armi e munizioni assaltando e prendendo prigioniera l’intera guarnigione di Alberobello, nonché i militari del presidio di Cellino. Il 28 luglio 1861 con i suoi militi attaccò Gioia del Colle dove si impegnò in una vera e propria battaglia, travolgendo le truppe del Maggiore Francesco Calabrese, costringendolo  a ripiegare nel borgo San Vito.

Alla vista della fuga dei militari piemontesi, si sollevò l’intera cittadina di ventimila abitanti.

Nella confusione furono molti i giovani che si unirono ai ribelli. Tra cui Vito Romano di soli 17 anni, fratello minore del Sergente.

Fu questa la prima vera e propria azione di guerriglia, con la quale il Sergente Romano inaugurò la lunga storia di colpi contro le truppe piemontesi, la Guardia Nazionale ed i nemici liberali, ma fu anche l’inizio delle vendette trasversali, da parte di questi ultimi, ai suoi amici ed alla sua famiglia che, subito dopo la ritirata da Gioia del Colle, venne colpita duramente.

Ciò non fece altro che inasprire ulteriormente il suo risentimento, infondendogli maggiore risolutezza e rabbia, contro chi considerava senza mezzi termini “usurpatori, invasori senza Dio, oppressori del popolo”.

Le azioni di guerra fulminea che egli conduceva erano imprevedibili, ma nello stesso tempo dimostravano, anche nella spietatezza dell’azione, la lealtà e l’alto senso dell’onore.

La ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimistiche e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione,  l’assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa, lo resero nell’opinione pubblica del tempo: l’eroe che difendeva gli oppressi; la giusta rivalsa sui conquistatori; il partigiano imprendibile e coraggioso; il guerriero invincibile; la volpe dei monti e dei boschi; il “brigante” degno dell’ammirazione delle popolazioni meridionali.

Effettivamente fu un grosso problema per Carabinieri, Esercito e Guardia Nazionale che a migliaia gli diedero la caccia giorno e notte, d’estate e d’inverno.

Benché il suo seguito fosse costituito da decine e decine di uomini che combattevano contro migliaia e migliaia di altri uomini, egli si dimostrava una vero stratega nell’arte della guerriglia; infatti era capace di apparire velocemente in alcuni luoghi, allo scopo di distogliere l’attenzione delle truppe nemiche e colpire nello stesso tempo in località tra loro distanti, reperendo così armamenti, munizioni e vettovagliamenti. Riusciva in tal modo a reclutare uomini, a stringere accordi con altri guerriglieri, a contattare Sindaci e patrioti, infliggendo colpi micidiali in tutta la Regione.

Il 24 febbraio 1862 insieme a Carmine Donatelli, detto “Crocco”, bloccò le strade di accesso di Andria e Corato: tese un’imboscata alla Guardia Nazionale e dopo averne avuto la meglio, ebbe via libera nell’assalire tutte le masserie dei liberali ed ex Garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i : “traditori del popolo meridionale”.   

Qualche giorno dopo toccò alla strada tra Altamura e Toritto, dove furono intercettati e colpiti il corriere e la scorta armata. Tra maggio e luglio 1861 il Sergente Romano entrò più volte in Alberobello con la sua truppa, immobilizzando la Guardia Nazionale, rifornendosi di armi e munizioni, innalzando i vessilli Borbonici e sparendo puntualmente nel nulla.

Il 9 agosto 1862, dopo la solita scorribanda per Alberobello, assaltò la fattoria di un certo Vito Angelini, accusandolo di essere il delatore che aveva permesso l’assassinio della sua fidanzata Lauretta D’Onghia. Dopo averlo “processato” lo fece fucilare sull’aia.

Qualche giorno dopo il Romano, dopo essersi unito nel bosco Pianella con i capibanda Laveneziana e Trinchera, si accampò nel cuore della penisola Salentina da dove avrebbe potuto colpire con maggiore sicurezza. I primi di ottobre assaltò nuovamente il Presidio di Cellino, ma questa volta ne fucilò tutti i militi.

Il 24 ottobre 1862 verso le ore 12 la compagnia al completo puntò nuovamente sulla masseria Angelini, forse per completare la vendetta, quando fu attaccato da due squadre di Guardie Nazionali accompagnate da Carabinieri a cavallo, comandate da due ufficiali anch’essi a cavallo. Nello scontro che fu violentissimo, la Guardia nazionale accortosi di chi aveva di fronte,  si disimpegnò scappando verso Cellino, mentre i Carabinieri cercarono in qualche modo di proteggere la ritirata. Dopo un accanito inseguimento vennero però raggiunti e sopraffatti: dodici di essi caddero prigionieri, due vennero fucilati immediatamente, mentre gli altri furono liberati dopo aver subìto il taglio dei lobi anteriori. Nel frattempo la masseria Angelini venne data alle fiamme.

Il 21 novembre 1862 il Sergente Romano e la sua truppa entrarono trionfalmente in Carovigno dove, dopo una travolgente scorribanda per le vie del paese, si concentrarono nella piazza principale per abbattere i simboli Sabaudi ed innalzare quelli Borbonici. Qui il Sergente Romano,  dall’alto di un balcone, tenne un appassionato discorso alla folla in delirio, invitando tutti alla rivolta contro gli invasori piemontesi ed i traditori liberali loro alleati.

A questo punto il resto del paese scese tumultuante per le strade inneggiando  a Francesco II, le case dei liberali vennero date alle fiamme, fu devastato il Comune, distrutto il Presidio militare, poi l’intera popolazione si portò in processione al Santuario della Madonna del Belvedere per un solenne “Te Deum” .

Lasciato Carovigno con l’aiuto di Cosimo Mazzeo e la sua squadra che, rimasta di guardia nelle campagne circostanti, si avventò con incredibile ardimento sui soldati piemontesi accorsi dai dintorni, il Romano ed i suoi uomini, si diressero sicuri verso Sud marciando tutta la notte per raggiungere i vari centri abitati della zona dove contadini festosi li acclamavano quali liberatori. I loro spostamenti,  diventarono rapidissimi onde evitare l’accerchiamento delle truppe piemontesi che con marce forzate, fin dal giorno precedente, cercavano di agganciare la formazione.


Intuendo come le volpi il pericolo imminente, i guerriglieri si rifugiarono nel bosco di Avetrana dove uccisero l’ostaggio che aveva tentato di avvertire le truppe Sabaude.

Ormai il Sergente Romano era diventato un mito, la sua fama aveva raggiunto ogni angolo della Regione tanto che poteva girare sicuro come un trionfatore, ma fu questa sicurezza che poi gli fu fatale.

Preoccupato dall’accresciuto numero di soldati piemontesi nella zona, verso la fine di Novembre decise di rientrare nel bosco Pianella, marciando spavaldamente in formazione militare, per chilometri e chilometri, attraverso campagne e paesi, con in testa tanto di bandiera, tamburino e tromba. Ovunque lasciava simboli Borbonici, abbatteva linee telegrafiche, bruciava fattorie di liberali, rincorreva e colpiva squadriglie della Guardia Nazionale, bruciava archivi comunali.

Il 1° dicembre, presso la fattoria Monaci, poco distante da Alberobello, l’intera armata dei ribelli era intenta a bivaccare tranquillamente, riposandosi dopo la lunga campagna effettuata nel Sud della Regione. Ma il rientro in grande stile, ed il clamore delle gesta, avevano fatto spostare nella zona anche le truppe piemontesi che da mesi cercavano invano un vero e proprio scontro militare.

Il Sergente Romano non immaginava nemmeno cosa si stava preparando di lì a poco e non si preoccupò di attivare spie e vedette, come era solito fare, consentendo così all’avanguardia della 16^ Compagnia del 10° Reggimento di fanteria, di scorgere il campo senza essere avvistata.

Il capo pattuglia intuendo l’importanza della scoperta, senza esitare avvertì il grosso della truppa. Dopo poco, l’intero reparto, si scagliò sui guerriglieri sorprendendoli disarmati e nel sonno; fu una carneficina. Il Romano ed i suoi cercarono di organizzare una mnima resistenza, ma essendo la situazione estremamente critica, l’unica via d’uscita che gli restava era quella di disimpegnarsi velocemente. Abbandonò in fretta, con i rimanenti, la zona, perdendo il grosso degli uomini, dei cavalli e degli armamenti.

Aiutato dalle tenebre e dalla perfetta conoscenza dei luoghi, il Romano ed i suoi riuscì a riparare nel bosco Pianelli fece curare i feriti, recuperò gli sbandati e soprattutto si contarono.

Erano rimasti in cinquanta.

Ma il Sergente non si scoraggiò per il duro colpo e subito dopo mandò in giro i suoi uomini a reclutare altre forze e a metà dicembre, riprese nuovamente le ostilità. Più velocità negli spostamenti e soprattutto spietati negli scontri che dovevano essere esclusivamente agguati. Ormai li aveva tutti addosso, veniva braccato senza tregua da migliaia di uomini, tra soldati, guardie nazionali e carabinieri.

Le campagne di Alberobello, Fasano, Castellaneta, Putignano, Cisternino e Gioia del Colle, venivano percorse solo di notte e durante i temporali, con assalti brevi ed incisivi alle masserie e solo a piccole squadriglie di carabinieri e guardie nazionali, evitando con rapidissime ritirate ed audacissimi aggiramenti le grosse guarnizioni piemontesi.

La notte di Natale tutta la compagnia la trascorse presso la masseria di Antonio Sarico, amico di famiglia del Romano, ma i carabinieri avendo sistemato lungo le vie di accesso alle masserie dei non liberali i propri uomini, con il compito di segnalare ogni spostamento sospetto, localizzarono i guerriglieri.

L’area di azione ormai era stata individuata ed il Romano aveva perso un fattore fondamentale della sua guerra: “la segretezza negli spostamenti”.

Il 30 dicembre mentre i Borbonici erano intenti a mangiare, piombò loro addosso una squadra di guardia nazionale comandata dal Dr. Lino Romeo.

La risposta però fu immediata ed addirittura la situazione si capovolse a favore dei legittimisti, quando arrivò improvvisamente un intero reparto di cavalleggeri di Saluzzo che, richiamato dagli spari, era accorso immediatamente. Per il Romano e la sua squadra fu di nuovo un’altra sconfitta e l’unica via di salvezza fu la fuga precipitosa lasciando sul terreno morti, feriti, armi e attrezzature.

Per evitare un facile inseguimento, appena fuori della mischia, la truppa legittimista si divise in più squadriglie, con la promessa di riunirsi in tempi migliori. Quindi il grosso della compagnia si mosse alla volta delle alture della Murgia, zona più sicura. Il Sergente continuò la sua lotta legittimista ed il 4 gennaio lungo la strada che porta al Santuario di Melitto, nei pressi di Cassano, tese un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura. Nello scontro furibondo, i militi vennero letteralmente fatti a pezzi dagli uomini del Romano che si abbandonarono a violenze inaudite, dettate da un odio e un desiderio di vendetta incolmabile.

Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona, il Sergente, a notte fonda, si spostò nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle, nello stesso posto dove nel 1861 erano iniziate le sue prime azioni di guerra.

Ma anche questo suo spostamento fu intercettato da un informatore del Capitano Balasco, che comandava il 1° Squadrone dei cavalleggeri di Saluzzo, il quale, nel giro di qualche ora fece circondare il bosco dai militari del suo reparto e da un plotone di guardie nazionali, al comando del Maggiore Calabrese, accorso in forze da Gioia del Colle.

Il Sergente Romano ed i suoi uomini, sentendo il rumore del nemico che si addentrava nella fitta vegetazione da tutte le direzioni, intuì la grave situazione a cui era esposto ed aspettò immobile nei nascondigli sino all’ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu violentissimo e micidiale, e terminate le munizioni, seguì un corpo a corpo all’arma bianca.

Quasi tutti i suoi uomini caddero sotto i colpi della soverchiante truppa Sabauda, quando ad un tratto il Romano si sentì afferrare e stringere alla gola. Due braccia robuste, quelle del sergente piemontese Michele Cantù del primo squadrone del reggimento “Saluzzo Cavalleggeri”, l’avvinghiarono come in una morsa, togliendogli il respiro. Riuscito a liberarsi dalla stretta, il Romano ingaggiò con l’avversario un furioso corpo a corpo, sino a quando, coperto di sangue e mortalmente ferito,  cadde gloriosamente  gridando: “ Evvivaore “.

Alla sua morte i pochi uomini rimasti, ancora vivi, smisero di combattere e si lasciarono arrestare.

Il corpo del Romano, fu miseramente spogliato dalla divisa Borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in Via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana.

Nonostante ciò la popolazione non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a narrarne le gesta, ed aspettare il suo ritorno; a sperare in un futuro di Giustizia, ma il Sergente Romano era morto e con lui era finita la resistenza armata all’invasione piemontese in Puglia.

Ma a sfatare quella Sua morte terrena, in Sua memoria, in vari paesi della Puglia, come ad esempio a Laterza (TA) è ubicato un monumento a lui dedicato ed ai suoi uomini, caduti per difendere la Patria, il Re e la Religione Cattolica dall’invasore. Lì si trovano i nomi dei 18 uomini della colonna guidata da Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio” i nomi di quelli arruolati da Laveneziana, Spadafora ed altri (i  nomi si trovano nella lista, nel territorio di Brindisi e Provincia).

A Villa Castelli, su iniziativa dell’Associazione “Settimana dei Briganti – L’altra Storia”, è stata intitolata una strada (privata) al Brigante Pasquale Domenico Romano. Detta strada era un vicolo di Via Garibaldi ed è stata inaugurata il 24 aprile 2010.

E ad avvalorare la tesi della disumana malvagità e della durissima repressione che il Governo piemontese ebbe ad attuare nei riguardi della popolazione del Sud, nell’invasione del Meridione d’Italia, perché fu effettivamente  una vera e propria “Invasione premeditata” di una guerra combattuta e mai dichiarata, qui di seguito riporto quanto scrisse Mariangela Ferrante, il 27 maggio 2010, in occasione della cerimonia tenuta in Piemonte a Fenestrelle, che intendo definire il primo nefasto campo di sterminio di massa, che la Storia ricorda, per commemorare le vittime dell’Unità d’Italia:

“Onore ai caduti di tutte le guerre. Memoria e rispetto per chi si è speso a tutela e salvaguardia della Patria, della terra d’origine, della famiglia e dei valori di un popolo. Degna sepoltura per le migliaia di morti senza neanche un nome, segregati nella Fortezza di Fenestrelle tra il 1860 ed il 1870 perché soldati ed ufficiali dell’esercito delle due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il Re e l’antica Patria per inchinarsi al conquistatore, o civili duo siciliani catturati con l’accusa di Brigantaggio perché combattevano a difesa della propria terra”.

Si calcola che oltre 26mila tra militari e civili Meridionali, morirono in quella fortezza piemontese, trasformata in lager, dove quegli Uomini erano costretti a soggiornarvi senza pagliericci, senza coperte, senza luce in posti dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero.

Addirittura, vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati.

Dal 2008, una targa in marmo, che ricorda quei caduti, svetta su quel luogo di guerra a memoria per le future generazioni.

Ciò perché gli Italiani non dimentichino quale è stato il prezzo dell’Unità Nazionale in termini di vite umane, e si prenda coscienza della dignità umana e del rispetto a cui hanno diritto Soldati, Ufficiali, Uomini che hanno combattuto per una causa giusta: “la difesa della propria Patria contro una guerra non dichiarata e contro le promesse non mantenute”, che hanno portato oggi, al declino del Meridione.

 

A tal proposito, prima di chiudere il racconto, permettetemi di fare questa mia breve riflessione.

 

Nel riscrivere le storie di uomini coraggiosi e patrioti, che la storia dei vincitori, ha definito “Briganti”, molte volte nel mio intimo, ho chiesto a me stesso, da chi ho ereditato questa mia spontanea e naturale ribellione contro l’ingiustizia e la sete espansionistica che alberga nell’animo di coloro i quali, chiamati a reggere il destino dei popoli, usurpano e schiavizzano gli altrui territori e gli altrui popoli al solo fine di allargare  la loro azione di potere, infischiandosene altamente dell’enorme dispendio di sangue e di vite umane che tali invasioni comportano?

 

Sempre mi rispondo che prima di ogni cosa amo la libertà  come certamente l’amavano i miei avi, ma sicuramente è stata una reminiscenza venuta dal passato e da qualcuno di Loro che nel corso della Sua esistenza, ebbe a subire nel merito, dei gravi torti, e tale rancore represso, attraverso i suoi successori, è giunto inconsapevole sino a me e che ora, fa parte del mio DNA  che si succederà nei secoli in avvenire, sino a quando questo mondo di dolore e lacrime si trasformerà in un unico Regno di Amore e Giustizia.

 

Ma questo mio pio desiderio, già lo so, è, e sarà una mera e semplice utopia, perché mai l’agnello potrà liberamente pascolare con il lupo nello stesso pascolo.

 

Ed in ricordo di Lui, che combatté sino alla morte per la Sua terra e per il Suo Re e che ebbe il solo torto di combattere dalla parte perdente, dedico il seguente breve sonetto, letto non so dove e scritto da non so chi:

“Combattiamo per la nostra Bandiera
e quando gli eserciti sono dispersi!
Combattiamo per il fratello
che abbiamo alla nostra sinistra!
Combattiamo per il fratello
che abbiamo alla nostra destra!
Combattiamo per noi stessi”

Brindisi, 13 marzo 2016.

 

 

Nella giornata del 26 maggio 1861, gli abitanti della cittadina di Gioia del Colle (Bari), festeggiavano la ricorrenza del Santo Patrono della città, San Filippo Neri e la gente vestita a nuovo, nella serata di quel dì, si riversava per le strade cittadine, dirigendosi verso la via del Duomo, per raggiungere la Chiesa Madre e che i venditori ambulanti, avevano invaso, con le loro bancarelle ricolme di frutta secca d’ogni genere noccioline ed altre mercanzie.

 

 Dalla finestra del palazzo San Domenico, sede del Municipio, sventolava una grande bandiera tricolore, con lo stemma Sabaudo ed il nastro azzurro a frange d’oro.

 

La processione del Santo, era terminata ed il Sindaco del luogo Filippo Taranto, unitamente alla Giunta comunale ed alle altre Autorità cittadine, allo scopo di voler affermare maggiormente il passaggio dal regime Borbonico a quello Sabaudo, a scopo di beneficenza, aveva indetto nella sala consiliare del Comune, un ballo, al quale aveva invitato le famiglie più in vista ed i maggiori esponenti politici e militari.

 

La gente si fermava al passaggio delle carrozze che dal castello Normanno-Svevo, accedevano giù sino al municipio. Non era uno spettacolo di tutti i giorni, vedere il via vai delle carrozze e la sfilata delle belle donne, accompagnate dai rispettivi cavalieri, che si recavano al ricevimento.

 

 Il Sindaco giunse quando la festa era già iniziata. La prima persona che incontrò, fu il Giudice supplente Alessandro Cinque. Dopo essersi scambiati il saluto, il Sindaco iniziò dicendo: “Caro amico, dobbiamo ammettere che la fine del regno  delle due Sicilie di Francesco II, ad opera dell’esercito di liberazione di Garibaldi, ha aggravato la situazione interna della nostra Regione.

 

 Durante la sua avanzata, nel risalire la penisola, Garibaldi non ha pensato a ricostruire la polizia, per il mantenimento dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza.  Infatti, non ha fatto altro che aprire le carceri, dando ai reclusi la possibilità di ritornare liberi ed indossare la camicia rossa e fare parte dell’esercito di liberazione, pronti a vendicarsi contro chi giustamente o ingiustamente li aveva fatti arrestare”.

 

 A questo punto, obiettò il giudice asserendo che, pur essendo vero tutto ciò, era pur vero, che al potere luogotenenziale della dittatura di Garibaldi, era subentrato quello del Regio Governo che aveva dato disposizioni di vigilare su tutta quella gente. E continuava, asserendo anche di non negare che borbonici e gendarmi, minacciati di prigione o di essere fucilati, a migliaia, andavano ad ingrossare le file di briganti, guidati da quei capi che si autodefinivano ligi a Francesco II di Borbone.

 

Ma la verità è, riprendeva il Sindaco, “che la colpa di quanto si è verificato è anche nostra, perché non abbiamo saputo far fronte alla nuova situazione, con la fine dei Borboni e lo scioglimento dell’esercito. Quei reduci borbonici, li abbiamo oltraggiati, derisi, maltrattati, trattati come esseri inferiori, senza saper spiegare loro il perché della fine di quel regime che abbiamo combattuto e continueremo a combattere, mentre sappiamo molto bene che l’ex re Francesco II, rifugiatosi a Roma nel palazzo Farnese, finanzia da quel quartiere generale i vari capi banda, sperando nella restaurazione del suo regime.

 

“Come avvenne nelle tristi vicende della fallita Repubblica Napoletana del 1799”, aggiunse molto preoccupato il giudice Alessandro Cinque.

 

“Proprio così” replicò il Sindaco “e ricordiamoci che il brigantaggio, dopo aver arrecato lutti e distruzioni nel 1799, risorse più spaventoso nei primi anni del 1806 e dette filo da torcere fino al 1815”.

 

Militari sbandati, delinquenti comuni, malfattori e grassatori, con la scusa di servire il re Borbonico cacciato dai Francesi, si dettero alla macchia ed infierirono selvaggiamente contro le persone e la proprietà.

 

E questa, fu opera di Ferdinando IV di Borbone che, prima di essere deposto, non rassegnato alla dura perdita del Regno Napoletano, era ricorso a quei personaggi per creare ostacoli a Giuseppe Bonaparte ed a Gioacchino Murat, divenuto re di Napoli, per mantenere viva nel cuore del popolo la fiamma della ribellione contro gli usurpatori francesi. La calma e l’ordine che regnavano nel Mezzogiorno furono sconvolti dalle gesta dei briganti, che da Palermo i Borboni alimentavano con molti denari e mezzi. “Fortunatamente per Gioia del Colle, quella parentesi di disordine le fu estranea”, disse il Giudice.

 

“Non è vero” - replicò il Sindaco – “perché nel mio studio, se ben ricordo, ho una copia del Giornale dell’Intendenza, in cui si legge che da un censimento di briganti fatto nella provincia di Bari, il nostro paese figurava nei primi posti per il numero di partecipanti”.

 

Da poco erano suonate le due della notte ed il Giudice Cinque, molto curioso disse: “se non fosse per l’ora, sarei molto ansioso di conoscere chi erano quei personaggi”.

 

“Con molto piacere” rispose il Sindaco “e visto che siamo nelle vicinanze della mia casa, quale occasione migliore per invitarti a salire un momento”.

 

Giunti nella casa, il Sindaco ed il Giudice, senza far molto rumore, dopo aver attraversato il corridoio in punta di piedi ed arrivati nello studio e trovato il giornale dell’Intendenza, si posero a leggerlo.

 

L’episodio narrato era quello del 1809, ed in quell’anno, il fior fiore dei briganti era costituito dai Donvito Giuseppe, Anselmo e Nicolò; da Esposito Giuseppe, Pace Vitantonio, Cuscito Pietro, Covello Filippo, Santeramo Francesco, Surico Vito Nicola, quest’ ultimo fu condannato a dieci anni di ferri per resistenza alla forza pubblica, e poi ancora, da Verrelli Donato, dai Melchiorre Vitantonio e Francesco, D’Ambrosio Domenico, Barba Giuseppe e infine è scritto il nome di Buonsante Natale, il quale, accusato di furto in una masseria, morì nelle carceri di Trani prima del processo.

 

L’articolo continuava ricordando che di quella teppaglia, molti godettero dell’indulto emanato da Gioacchino Murat, nel dicembre dello stesso anno e che altri invece, come Scarpetta Domenico, Bosco Matteo, Ripa Orazio e Galatola Tommaso, colpevoli di reati minori, beneficiarono dell’indulto, con l’obbligo di partire per Napoli e fare il servizio militare.

 

“Bel modo di cancellare i reati” osservò il Giudice.

 

Rimesso il giornale al suo posto nello scaffale, il Sindaco continuò con i suoi ricordi.

 

Ritornati i Borboni a Napoli, si accorsero ben presto che i briganti, dopo essere stati finanziati e protetti nel periodo della dominazione francese, rivolgevano le armi contro di loro.

 

Il re delle due Sicilie cercò in tutti i modi di eliminarli. E vi fu solo clemenza per coloro i quali avevano operato nel decennio francese e a condizione che si presentassero entro un mese a Napoli, davanti alla Commissione incaricata di esaminare la posizione di ognuno. 

 

“La caduta di Francesco II conduce nuovamente alla ribalta il problema del brigantaggio, non è così” interloquì il Giudice Cinque.

 

Purtroppo è così?, concluse il Sindaco.

 

Erano trascorse da un pezzo le ore due, quando i due amici si strinsero la mano e si dettero la buona notte.

 

E mentre il Sindaco rimasto in casa, andava a dormire, il Giudice, accelerando il passo, quasi preso da un tremore improvviso, raggiunse la sua abitazione che si trovava di fronte alla Chiesa Madre.

 

Effettivamente quanto affermato dal Sindaco, rispondeva alla cruda realtà dei fatti, sia in quel di Gioia che in gran parte del Meridione peninsulare italiano.

 

I briganti, in quella triste epoca, si affermavano quali novelli liberatori militarmente organizzati, nella Capitanata, nella Basilicata con Crocco e Ninco Nanco, a Santeramo in Colle già il 10 dicenbre 1860, il sergente Perniola, si impossessava della sua città e a Gioia del Colle il sergente Romano.

 

Pasquale Domenico Romano, nacque a Gioia del Colle il 24 agosto 1833 da Giuseppe e Angela Concetta Lorusso. Ebbe un educazione semplice, sana ma rigida che ne rafforzò il carattere.

 

Fin dall’adolescenza aiutò il padre nella pastorizia che gli permise una particolare conoscenza di quei boschi e di quelle contrade, che poi lo videro padrone incontrastato.

 

Nel 1851 si arruolò nell’esercito borbonico, dove intraprese una brillante carriera, assumendo ben presto il grado di “primo sergente” e dov,e per le sue particolari doti militari, ebbe l’onore di diventare “Alfiere”, della prima Compagnia del 5° di Linea d’Assalto dell’Esercito del Regno delle due Sicilie.

 

Verso la fine del 1860, quando venne disciolto l’Esercito, prima di intraprendere il viaggio di ritorno verso il suo paese d’origine, aveva formulato al capitano, comandante della sua compagnia, questa serie di domande: “quale sarà ora la nostra sorte? Come ci comporteremo una volta arrivati nel nostro paese? Chi ci proteggerà dai nemici di Francesco II”.

 

“Nessuno potrà far niente per noi e per voi”, rispose l’ufficiale. “Dobbiamo restare tutti idealmente presenti per la controrivoluzione, non appena il Re ci chiamerà all’appello; Nell’attesa rimaniamo in contatto con i Circoli Borbonici, da cui avremo istruzioni ed appoggio”.

 

Congedato dal servizio militare, il Romano, faceva dunque, ritorno a Gioia del Colle, munito dal seguente foglio di congedo:

 

Real Piazza di Nocera – Battaglione d’Assalto.

 

Si permette al nominato Pasquale Romano, 1° Sergente, appartenente al predetto Battaglione d’Assalto di recarsi a Gioia del Colle provincia di Bari per tempo illimitato, dovendosi attenere alle prescrizioni contenute nel Real Decreto del 20 Novembre 1860.

 

Lo stesso ha ricevuto la somma competente di congedo di ducati dieci.

 

Nocera il 1 gennaio 1861.

 

Il Comandante del Seguito: Paolo Spada 1°Sergente;

 

Il Comandante del Battaglione: D’Affitto il Capitano;

 

Visto il Luogotenente: Colonnello Pallavicini;

 

Visto il Comandante la Piazza.

 

Ritornato alla vita civile, vistosi beffeggiato e deriso per i suoi trascorsi militari borbonici, benché molto amareggiato, fece parte del Comitato clandestino borbonico, divenendone Comandante.

 

Tuttavia, avvertendo i tempi stretti, la gravità della situazione e mal sopportando l’inoperosità degli adepti del Comitato, dopo poco tempo, abbandonò i salotti e passò senza esitare alla lotta armata, dando il via alla sua guerra partigiana contro i Piemontesi.

 

Nel giro di qualche settimana costituì una prima squadra formata esclusivamente da militari del disciolto Esercito Borbonico, ai quali fece pronunciare il seguente giuramento:

 

Nel momento medesimo di disposizioni si conferma che nell’anno milleottocentosessantuno, il mese di luglio e giorno ventitré noi tutti in unanimità di voti prestiamo atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli:

 

1-        Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l’effusione del sangue Iddio, il Sommo Pontefice Pio IX, Francesco II del Regno delle Sicilie, ed il Comandante della nostra Colonna degnamente affidatagli, e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei soprannominati articoli, così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della Santa Chiesa.

 

2 -   Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro Re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli sacrosantamente rispettare ed osservare da tutti quei Comuni li quali sono subordinati al partito Liberale.

 

3 -   Promettiamo e giuriamo inoltre di non mai appartenere a qualsivoglia setta, contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita.

 

4 -  Promettiamo e giuriamo che durante Il tempo della nostra dimora sotto il Comando del predetto Comandante di distruggere il partito dei nostri contrari, i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l’umanità della nostra intera colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro Re Francesco II.

 

5 -  Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai ad altre nostre colonne senza il permesso del nostro Comandante per effettuarsi un tal passaggio.

 

6-   Il presente atto di giuramento si è da Noi stabilito volontariamente a conoscenza dell’intera nostra colonna e per non vedersi più abbattuta la nostra Santa Chiesa cattolica romana, della difesadel Sommo Pontefice e del nostro Re. Per quanto sopra stabilito abbracceremo qualunque morte.

 

Al termine del giuramento. uno dopo l’altro, a cominciare dal Romano, i convenuti sottoscrissero l’atto, dopo aver pronunciato il rituale “ lo giuro“.

 

Il 26 luglio 1861, si rifornì di armi e munizioni assaltando e prendendo prigioniera l’intera guarnigione di Alberobello, nonché i militari del presidio di Cellino. Il 28 luglio 1861 con i suoi militi attaccò Gioia del Colle dove si impegnò in una vera e propria battaglia, travolgendo le truppe del Maggiore Francesco Calabrese, costringendolo  a ripiegare nel borgo San Vito.

 

Alla vista della fuga dei militari piemontesi, si sollevò l’intera cittadina di ventimila abitanti.

 

Nella confusione furono molti i giovani che si unirono ai ribelli. Tra cui Vito Romano di soli 17 anni, fratello minore del Sergente.

 

Fu questa la prima vera e propria azione di guerriglia, con la quale il Sergente Romano inaugurò la lunga storia di colpi contro le truppe piemontesi, la Guardia Nazionale ed i nemici liberali, ma fu anche l’inizio delle vendette trasversali, da parte di questi ultimi, ai suoi amici ed alla sua famiglia che, subito dopo la ritirata da Gioia del Colle, venne colpita duramente.

 

Ciò non fece altro che inasprire ulteriormente il suo risentimento, infondendogli maggiore risolutezza e rabbia, contro chi considerava senza mezzi termini “usurpatori, invasori senza Dio, oppressori del popolo”.

 

Le azioni di guerra fulminea che egli conduceva erano imprevedibili, ma nello stesso tempo dimostravano, anche nella spietatezza dell’azione, la lealtà e l’alto senso dell’onore.

 

La ferrea disciplina militare a cui erano sottoposti i suoi uomini, le motivazioni legittimistiche e religiose che lo spingevano a lottare con coraggio e determinazione,  l’assoluta fedeltà al suo sovrano Francesco II ed al Papa, lo resero nell’opinione pubblica del tempo: l’eroe che difendeva gli oppressi; la giusta rivalsa sui conquistatori; il partigiano imprendibile e coraggioso; il guerriero invincibile; la volpe dei monti e dei boschi; il “brigante” degno dell’ammirazione delle popolazioni meridionali.

 

Effettivamente fu un grosso problema per Carabinieri, Esercito e Guardia Nazionale che a migliaia gli diedero la caccia giorno e notte, d’estate e d’inverno.

 

Benché il suo seguito fosse costituito da decine e decine di uomini che combattevano contro migliaia e migliaia di altri uomini, egli si dimostrava una vero stratega nell’arte della guerriglia; infatti era capace di apparire velocemente in alcuni luoghi, allo scopo di distogliere l’attenzione delle truppe nemiche e colpire nello stesso tempo in località tra loro distanti, reperendo così armamenti, munizioni e vettovagliamenti. Riusciva in tal modo a reclutare uomini, a stringere accordi con altri guerriglieri, a contattare Sindaci e patrioti, infliggendo colpi micidiali in tutta la Regione.

 

Il 24 febbraio 1862 insieme a Carmine Donatelli, detto “Crocco”, bloccò le strade di accesso di Andria e Corato: tese un’imboscata alla Guardia Nazionale e dopo averne avuto la meglio, ebbe via libera nell’assalire tutte le masserie dei liberali ed ex Garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i : “traditori del popolo meridionale”.    

 

Qualche giorno dopo toccò alla strada tra Altamura e Toritto, dove furono intercettati e colpiti il corriere e la scorta armata. Tra maggio e luglio 1861 il Sergente Romano entrò più volte in Alberobello con la sua truppa, immobilizzando la Guardia Nazionale, rifornendosi di armi e munizioni, innalzando i vessilli Borbonici e sparendo puntualmente nel nulla.

 

Il 9 agosto 1862, dopo la solita scorribanda per Alberobello, assaltò la fattoria di un certo Vito Angelini, accusandolo di essere il delatore che aveva permesso l’assassinio della sua fidanzata Lauretta D’Onghia. Dopo averlo “processato” lo fece fucilare sull’aia.

 

Qualche giorno dopo il Romano, dopo essersi unito nel bosco Pianella con i capibanda Laveneziana e Trinchera, si accampò nel cuore della penisola Salentina da dove avrebbe potuto colpire con maggiore sicurezza. I primi di ottobre assaltò nuovamente il Presidio di Cellino, ma questa volta ne fucilò tutti i militi.

 

Il 24 ottobre 1862 verso le ore 12 la compagnia al completo puntò nuovamente sulla masseria Angelini, forse per completare la vendetta, quando fu attaccato da due squadre di Guardie Nazionali accompagnate da Carabinieri a cavallo, comandate da due ufficiali anch’essi a cavallo. Nello scontro che fu violentissimo, la Guardia nazionale accortosi di chi aveva di fronte,  si disimpegnò scappando verso Cellino, mentre i Carabinieri cercarono in qualche modo di proteggere la ritirata. Dopo un accanito inseguimento vennero però raggiunti e sopraffatti: dodici di essi caddero prigionieri, due vennero fucilati immediatamente, mentre gli altri furono liberati dopo aver subìto il taglio dei lobi anteriori. Nel frattempo la masseria Angelini venne data alle fiamme.

 

Il 21 novembre 1862 il Sergente Romano e la sua truppa entrarono trionfalmente in Carovigno dove, dopo una travolgente scorribanda per le vie del paese, si concentrarono nella piazza principale per abbattere i simboli Sabaudi ed innalzare quelli Borbonici. Qui il Sergente Romano,  dall’alto di un balcone, tenne un appassionato discorso alla folla in delirio, invitando tutti alla rivolta contro gli invasori piemontesi ed i traditori liberali loro alleati. 

 

A questo punto il resto del paese scese tumultuante per le strade inneggiando  a Francesco II, le case dei liberali vennero date alle fiamme, fu devastato il Comune, distrutto il Presidio militare, poi l’intera popolazione si portò in processione al Santuario della Madonna del Belvedere per un solenne “Te Deum” .

 

Lasciato Carovigno con l’aiuto di Cosimo Mazzeo e la sua squadra che, rimasta di guardia nelle campagne circostanti, si avventò con incredibile ardimento sui soldati piemontesi accorsi dai dintorni, il Romano ed i suoi uomini, si diressero sicuri verso Sud marciando tutta la notte per raggiungere i vari centri abitati della zona dove contadini festosi li acclamavano quali liberatori. I loro spostamenti,  diventarono rapidissimi onde evitare l’accerchiamento delle truppe piemontesi che con marce forzate, fin dal giorno precedente, cercavano di agganciare la formazione.

 

Intuendo come le volpi il pericolo imminente, i guerriglieri si rifugiarono nel bosco di Avetrana dove uccisero l’ostaggio che aveva tentato di avvertire le truppe Sabaude.

 

Ormai il Sergente Romano era diventato un mito, la sua fama aveva raggiunto ogni angolo della Regione tanto che poteva girare sicuro come un trionfatore, ma fu questa sicurezza che poi gli fu fatale.

 

 Preoccupato dall’accresciuto numero di soldati piemontesi nella zona, verso la fine di Novembre decise di rientrare nel bosco Pianella, marciando spavaldamente in formazione militare, per chilometri e chilometri, attraverso campagne e paesi, con in testa tanto di bandiera, tamburino e tromba. Ovunque lasciava simboli Borbonici, abbatteva linee telegrafiche, bruciava fattorie di liberali, rincorreva e colpiva squadriglie della Guardia Nazionale, bruciava archivi comunali.

 

Il 1° dicembre, presso la fattoria Monaci, poco distante da Alberobello, l’intera armata dei ribelli era intenta a bivaccare tranquillamente, riposandosi dopo la lunga campagna effettuata nel Sud della Regione. Ma il rientro in grande stile, ed il clamore delle gesta, avevano fatto spostare nella zona anche le truppe piemontesi che da mesi cercavano invano un vero e proprio scontro militare.

 

Il Sergente Romano non immaginava nemmeno cosa si stava preparando di lì a poco e non si preoccupò di attivare spie e vedette, come era solito fare, consentendo così all’avanguardia della 16^ Compagnia del 10° Reggimento di fanteria, di scorgere il campo senza essere avvistata.

 

Il capo pattuglia intuendo l’importanza della scoperta, senza esitare avvertì il grosso della truppa. Dopo poco, l’intero reparto, si scagliò sui guerriglieri sorprendendoli disarmati e nel sonno; fu una carneficina. Il Romano ed i suoi cercarono di organizzare una mnima resistenza, ma essendo la situazione estremamente critica, l’unica via d’uscita che gli restava era quella di disimpegnarsi velocemente. Abbandonò in fretta, con i rimanenti, la zona, perdendo il grosso degli uomini, dei cavalli e degli armamenti.

 

Aiutato dalle tenebre e dalla perfetta conoscenza dei luoghi, il Romano ed i suoi riuscì a riparare nel bosco Pianelli fece curare i feriti, recuperò gli sbandati e soprattutto si contarono.

 

 Erano rimasti in cinquanta.

 

Ma il Sergente non si scoraggiò per il duro colpo e subito dopo mandò in giro i suoi uomini a reclutare altre forze e a metà dicembre, riprese nuovamente le ostilità. Più velocità negli spostamenti e soprattutto spietati negli scontri che dovevano essere esclusivamente agguati. Ormai li aveva tutti addosso, veniva braccato senza tregua da migliaia di uomini, tra soldati, guardie nazionali e carabinieri.

 

Le campagne di Alberobello, Fasano, Castellaneta, Putignano, Cisternino e Gioia del Colle, venivano percorse solo di notte e durante i temporali, con assalti brevi ed incisivi alle masserie e solo a piccole squadriglie di carabinieri e guardie nazionali, evitando con rapidissime ritirate ed audacissimi aggiramenti le grosse guarnizioni piemontesi.

 

La notte di Natale tutta la compagnia la trascorse presso la masseria di Antonio Sarico, amico di famiglia del Romano, ma i carabinieri avendo sistemato lungo le vie di accesso alle masserie dei non liberali i propri uomini, con il compito di segnalare ogni spostamento sospetto, localizzarono i guerriglieri.

 

L’area di azione ormai era stata individuata ed il Romano aveva perso un fattore fondamentale della sua guerra: “la segretezza negli spostamenti”.

 

Il 30 dicembre mentre i Borbonici erano intenti a mangiare, piombò loro addosso una squadra di guardia nazionale comandata dal Dr. Lino Romeo.

 

La risposta però fu immediata ed addirittura la situazione si capovolse a favore dei legittimisti, quando arrivò improvvisamente un intero reparto di cavalleggeri di Saluzzo che, richiamato dagli spari, era accorso immediatamente. Per il Romano e la sua squadra fu di nuovo un’altra sconfitta e l’unica via di salvezza fu la fuga precipitosa lasciando sul terreno morti, feriti, armi e attrezzature.

 

Per evitare un facile inseguimento, appena fuori della mischia, la truppa legittimista si divise in più squadriglie, con la promessa di riunirsi in tempi migliori. Quindi il grosso della compagnia si mosse alla volta delle alture della Murgia, zona più sicura. Il Sergente continuò la sua lotta legittimista ed il 4 gennaio lungo la strada che porta al Santuario di Melitto, nei pressi di Cassano, tese un’imboscata alla guardia nazionale di Altamura. Nello scontro furibondo, i militi vennero letteralmente fatti a pezzi dagli uomini del Romano che si abbandonarono a violenze inaudite, dettate da un odio e un desiderio di vendetta incolmabile.

 

Sapendo di avere addosso tutte le truppe della zona, il Sergente, a notte fonda, si spostò nel bosco di Vallata presso Gioia del Colle, nello stesso posto dove nel 1861 erano iniziate le sue prime azioni di guerra.

 

Ma anche questo suo spostamento fu intercettato da un informatore del Capitano Balasco, che comandava il 1° Squadrone dei cavalleggeri di Saluzzo, il quale, nel giro di qualche ora fece circondare il bosco dai militari del suo reparto e da un plotone di guardie nazionali, al comando del Maggiore Calabrese, accorso in forze da Gioia del Colle.

 

Il Sergente Romano ed i suoi uomini, sentendo il rumore del nemico che si addentrava nella fitta vegetazione da tutte le direzioni, intuì la grave situazione a cui era esposto ed aspettò immobile nei nascondigli sino all’ultimo momento. Lo scontro a fuoco fu violentissimo e micidiale, e terminate le munizioni, seguì un corpo a corpo all’arma bianca.

 

Quasi tutti i suoi uomini caddero sotto i colpi della soverchiante truppa Sabauda, quando ad un tratto il Romano si sentì afferrare e stringere alla gola. Due braccia robuste, quelle del sergente piemontese Michele Cantù del primo squadrone del reggimento “Saluzzo Cavalleggeri”, l’avvinghiarono come in una morsa, togliendogli il respiro. Riuscito a liberarsi dalla stretta, il Romano ingaggiò con l’avversario un furioso corpo a corpo, sino a quando, coperto di sangue e mortalmente ferito,  cadde gloriosamente  gridando: “ Evvivaore “.

 

Alla sua morte i pochi uomini rimasti, ancora vivi, smisero di combattere e si lasciarono arrestare.

 

Il corpo del Romano, fu miseramente spogliato dalla divisa Borbonica e, issato come una preda ad un palo sopra un carretto, fu portato a Gioia del Colle, in Via della Candelora, sotto le finestre della sua abitazione dove rimase esposto per una settimana.

 

Nonostante ciò la popolazione non volle credere alla morte del proprio eroe e continuò a narrarne le gesta, ed aspettare il suo ritorno; a sperare in un futuro di Giustizia, ma il Sergente Romano era morto e con lui era finita la resistenza armata all’invasione piemontese in Puglia.

 

Ma a sfatare quella Sua morte terrena, in Sua memoria, in vari paesi della Puglia, come ad esempio a Laterza (TA) è ubicato un monumento a lui dedicato ed ai suoi uomini, caduti per difendere la Patria, il Re e la Religione Cattolica dall’invasore. Lì si trovano i nomi dei 18 uomini della colonna guidata da Cosimo Mazzeo detto “Pizzichicchio” i nomi di quelli arruolati da Laveneziana, Spadafora ed altri (i  nomi si trovano nella lista, nel territorio di Brindisi e Provincia).

 

A Villa Castelli, su iniziativa dell’Associazione “Settimana dei Briganti – L’altra Storia”, è stata intitolata una strada (privata) al Brigante Pasquale Domenico Romano. Detta strada era un vicolo di Via Garibaldi ed è stata inaugurata il 24 aprile 2010.

 

E ad avvalorare la tesi della disumana malvagità e della durissima repressione che il Governo piemontese ebbe ad attuare nei riguardi della popolazione del Sud, nell’invasione del Meridione d’Italia, perché fu effettivamente  una vera e propria “Invasione premeditata” di una guerra combattuta e mai dichiarata, qui di seguito riporto quanto scrisse Mariangela Ferrante, il 27 maggio 2010, in occasione della cerimonia tenuta in Piemonte a Fenestrelle, che intendo definire il primo nefasto campo di sterminio di massa, che la Storia ricorda, per commemorare le vittime dell’Unità d’Italia:

 

“Onore ai caduti di tutte le guerre. Memoria e rispetto per chi si è speso a tutela e salvaguardia della Patria, della terra d’origine, della famiglia e dei valori di un popolo. Degna sepoltura per le migliaia di morti senza neanche un nome, segregati nella Fortezza di Fenestrelle tra il 1860 ed il 1870 perché soldati ed ufficiali dell’esercito delle due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il Re e l’antica Patria per inchinarsi al conquistatore, o civili duo siciliani catturati con l’accusa di Brigantaggio perché combattevano a difesa della propria terra”.

 

Si calcola che oltre 26mila tra militari e civili Meridionali, morirono in quella fortezza piemontese, trasformata in lager, dove quegli Uomini erano costretti a soggiornarvi senza pagliericci, senza coperte, senza luce in posti dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero.

 

Addirittura, vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati.

 

Dal 2008, una targa in marmo, che ricorda quei caduti, svetta su quel luogo di guerra a memoria per le future generazioni.

 

Ciò perché gli Italiani non dimentichino quale è stato il prezzo dell’Unità Nazionale in termini di vite umane, e si prenda coscienza della dignità umana e del rispetto a cui hanno diritto Soldati, Ufficiali, Uomini che hanno combattuto per una causa giusta: “la difesa della propria Patria contro una guerra non dichiarata e contro le promesse non mantenute”, che hanno portato oggi, al declino del Meridione.

 

A tal proposito, prima di chiudere il racconto, permettetemi di fare questa mia breve riflessione.

 

Nel riscrivere le storie di uomini coraggiosi e patrioti, che la storia dei vincitori, ha definito “Briganti”, molte volte nel mio intimo, ho chiesto a me stesso, da chi ho ereditato questa mia spontanea e naturale ribellione contro l’ingiustizia e la sete espansionistica che alberga nell’animo di coloro i quali, chiamati a reggere il destino dei popoli, usurpano e schiavizzano gli altrui territori e gli altrui popoli al solo fine di allargare  la loro azione di potere, infischiandosene altamente dell’enorme dispendio di sangue e di vite umane che tali invasioni comportano? 

 

Sempre mi rispondo che prima di ogni cosa amo la libertà  come certamente l’amavano i miei avi, ma sicuramente è stata una reminiscenza venuta dal passato e da qualcuno di Loro che nel corso della Sua esistenza, ebbe a subire nel merito, dei gravi torti, e tale rancore represso, attraverso i suoi successori, è giunto inconsapevole sino a me e che ora, fa parte del mio DNA  che si succederà nei secoli in avvenire, sino a quando questo mondo di dolore e lacrime si trasformerà in un unico Regno di Amore e Giustizia.

 

Ma questo mio pio desiderio, già lo so, è, e sarà una mera e semplice utopia, perché mai l’agnello potrà liberamente pascolare con il lupo nello stesso pascolo.

 

Ed in ricordo di Lui, che combatté sino alla morte per la Sua terra e per il Suo Re e che ebbe il solo torto di combattere dalla parte perdente, dedico il seguente breve sonetto, letto non so dove e scritto da non so chi:

 

“Combattiamo per la nostra Bandiera

 

e quando gli eserciti sono dispersi!

 

Combattiamo per il fratello

 

che abbiamo alla nostra sinistra!

 

Combattiamo per il fratello

 

che abbiamo alla nostra destra!

 

Combattiamo per noi stessi”

 

 

 

Brindisi, 13 marzo 2016.