Sulla strada del cammino di Santo Francesco - di A. Trono

 Ovvero


“IL MIO CANTO LIBERO AL POVERELLO”


La stagione estiva del 2015, da cento anni a questa parte, va ricordata per una di quelle più calde, che la storia della meteorologia ricordi.

Un caldo torrido ed asfissiante, imperversava su tutto il continente e di conseguenza anche sulla città di Brindisi, ove risiedo.

Un sole accecante, dal suo sorgere sino al tramonto, irradiava sulla terra, i suoi raggi solari, inaridendo la terra e facendo star male, sia gli uomini che gli animali, per il continuo bisogno di fresco e la continua necessità di dissetarsi.

La gente, così, nella vana ricerca di un po’ di refrigerio, abbandonava la città, riversandosi in molti, sulle lunghe coste della nostra Penisola, altri nelle località montane, in prossimità dei laghi e dei fiumi.

Ricordo bene, che all’inizio di quella stagione, quando i primi caldi si manifestarono, mi venne proposta la possibilità di usufruire di una settimana di ferie presso la stazione termale di Abano terme, sita sui colli Euganei, luogo ameno vicino Padova, dove i villeggianti trascorrono allegramente il loro periodo vacanziero in ottimi alberghi, muniti di altrettanti ottimi servizi, per come ebbi modo di sperimentare in occasione di un soggiorno colà, in uno degli anni precedenti.

Ma insofferente del caldo afoso dello scirocco che in quell’estate, quotidianamente spirava e ritenendo logico e naturale che in quel pur delizioso soggiorno, il caldo si sarebbe ugualmente fatto sentire, decisi di trascorrere una settimana di vacanze in una zona montuosa della nostra bella Italia.

Grazie alla stretta amicizia che mi lega all’amico “Pino”, verso i primi giorni del mese di agosto, prenotammo un soggiorno di una settimana, presso il Distaccamento Montano dell’Aeronautica Militare, posto nel comune di Terminillo, compreso nella cerchia dei monti Reatini.

E così, in una calda ed assolata mattina di una giornata della terza decade di agosto, a bordo Della vettura del mio caro Amico, assieme a alla sua gentile consorte e la mia deliziosa moglie Lina, verso le ore dieci, partimmo alla volta di quella località.

Il tragitto da percorrere si aggirava sui seicento chilometri circa.

Impiegammo ben nove ore per raggiungerlo.

Ciò fu dovuto alla sosta per il pranzo, a causa del traffico che incontrammo lungo l’itinerario ed alla prudente e rispettosa maniera di guidare del mio amico.

Il Terminillo consta di diverse cime che superano i duemila metri d’altezza ed ogni versante è seguito da ampie e profonde vallate che lo separano da altri piccoli gruppi montuosi minori che lo circondano. Tra queste valli spiccano per interesse naturalistico la Vallonina che scende verso Leonessa dall’omonima Sella di Leonessa, le valli Ravara e di Capo Scura, che scendono verso il corso del fiume Velino e l’antica via consolare Salaria.

Il clima del territorio è quello tipico delle zone Appenniniche di media ed alta montagna, fredda d’inverno e fresca e ventilata d’estate.

Ed ora per una più interessante descrizione del susseguirsi degli eventi che sto per narrarvi, desidero esprimere sulla carta, le sensazioni di gaudio e delizia che il mio fisico avvertì nello scendere dall’auto.

Una volta giunti a destinazione, in quella verdeggiante località, nel vedermi circondato da quelle alte montagne che mi sovrastavano, mi accarezzavano e mi inebriavano con la loro vivissima frescura, fu per me come un rinascere a nuova vita.

Un vento dolce e solleticante, avvolgeva le mie membra e fu proprio in quegli attimi di sublime delizia, che mi tornarono alla memoria, momenti di eguale sensazione che il mio corpo ebbe a godere, quando circa una diecina di anni prima, in altra estate, se ben ricordo di caldo meno intenso, ma ugualmente afoso, ebbi a raggiungere un paesino del Trentino, ove ebbi a trascorrere altra breve vacanza.

Le montagne circostanti del Terminillo, le foreste dai longilinei fusti di alberi di leccio e di abete, l’un l’altro vicini, tanto da costituire a prima vista una barriera invalicabile, frammisti alla tipica flora del sottobosco dell’Appennino centrale, mi esaltavano e mi trasfiguravano per la loro bellezza naturale e paesaggistica.

Mi sembrava di essere tornato bambino, frastornato da quella festa costante di colori, tra il verde intenso degli alberi e la flora del sottobosco.

Scorgevo quelle altissime vette dei monti, stagliarsi superbe e dritte verso l’azzurro cielo, dove branchi di nubi, veloci e multiformi si rincorrevano l’un l’altra, nella vana corsa di raggiungere un traguardo mai definito.

Le pareti delle montagne circostanti, si alternavano come a scacchiera, da quelle coperte da immense foreste di lecci, di abeti e di faggi a quelle in cui le foreste erano inesistenti, che presentavano la loro nuda roccia, dove la neve a Primavera si era sciolta e l’acqua l’aveva talmente levigata e frantumata ed i residui ridotti a pietrame finiti ai bordi della strada.

Nell’osservare tutto ciò, attonito e sbalordito da tanta bellezza e potenza, con l’animo in trepida attesa, mi sembrava di udire la voce di quei monti che raccontavano le loro antiche origini.

Da quando nel caos della creazione, la terra eruttò le sue propaggini. Di come si alzavano le rupi e le creste dei monti. Alla lotta fratricida sostenuta tra monti di eguale misura e volume, per avere più spazio, sino a quando l’uno giunse più in alto frantumando il fratello, tra orribili boati.

Da quei lontanissimi tempi, enormi blocchi di pietra, rupi schiacciate e spaccate si vedono penzolare qua e là fra le gole dei monti.

Ad ogni Primavera, poi le pareti dei monti non coperte da foreste o da alcuna vegetazione, quando la neve si scioglie e si tramuta in cascate d’acqua, porta via grossi massi che si riducono in minuti frammenti, lavandoli e levigandoli totalmente, facendoli ritornare alla loro cruda bellezza.

Questo mi sussurravano quelle montagne, quelle rupi crepate ed incurvate e quelle ricoperte da enormi foreste che deliziavano il mio sguardo.

Il Distaccamento dell’Aeronautica Militare, presso il quale prendemmo alloggio, si trova ad una altezza di 1625 metri, in località Pian delle Valli, nel cuore del caratteristico villaggio montano del Terminillo, posto ad appena venti chilometri da Rieti e a novanta da Roma.

La struttura del soggiorno è costituita da due immobili, posti al limite di un ampio dosso, dotate di camere, tutte provviste di servizi igienici. E’ dotata altresì da un solarium, di ampi terrazzi, saloni di soggiorno ed incontro, sale da ballo e da una mensa, che come ho potuto sperimentare, nel breve periodo della mia permanenza, ha un eccellente Chef che sa offrire agli ospiti, un ottimo servizio di ristorazione, coadiuvato da un gruppo di camerieri efficientissimo

Il villaggio è costituito da un lungo Corso che sfocia in un piazzale molto vasto, dal quale si diramano le strade per i monti che lo circondano e per i vari villaggi e paesi vicini. Ai lati del Corso, si susseguono su entrambi i lati, locali adibiti a bar, gelaterie, negozi di vario genere e moltissimi alberghi che sono presenti anche sui costoni delle scoscese pareti dei monti circostanti. Ai lati dell’ampio piazzale vi sono degli impianti sportivi e su di una altura posta sul lato destro, vi è una funivia che conduce i villeggianti sui picchi delle montagne, sia d’estate che d’inverno.

Percorso il villaggio, in fondo al Corso vi è l’ingresso del Distaccamento dell’Aereonautica, mentre immediatamente prima sul lato sinistro la Caserma dei Carabinieri e sul lato destro il Santuario del Tempio Votivo del Terminillo, scrigno di una reliquia del corpo di San Francesco.

Il Tempio, voluto dai Frati Francescani, quando il 18 giugno del 1939, Pio XII, dichiarava San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, per cui la prima pietra, proveniente dal Sacro Convento di Assisi, fu posta il 18 settembre del 1964, mentre lo spettacolare mosaico absidale venne realizzato del 1975.

Nonostante tale immenso lavoro proseguito per decenni, nel 1968 si dovette continuare la costruzione della Chiesa, realizzando un prolungamento della facciata come protezione per le avverse condizioni atmosferiche di alta montagna.

Accanto alla chiesa svetta il campanile alto cinquantadue metri.

Sulla campana maggiore vi è questa iscrizione:” E coelis abreptum Pacis Bonique omne profundo festivo sono”, che tradotto significa “vento e nuvole portino l’augurio francescano di Pace e Bene”.

L’interno del Tempio è coperto da una volta a botte longilinea che richiama la volta della Porziuncola. La Chiesa è lunga trentasei metri ed alta ventiquattro.

Su ogni lato si aprono tre cappelle. Sulla destra la cappella di Sant’Antonio, poi quella del Crocifisso e la cappella della Madonna di Loreto, Patrona dell’Aeronautica Militare, offerta dagli Avieri stessi, che celebra la gloria di Maria Incoronata Regina del Bambino, circondata da uno stuolo di angeli. Ai suoi piedi due di essi, trasportano la casa di Nazareth.

A destra del presbiterio, vi è la cappella di San Francesco, dove si conserva un’urna con le reliquie del Santo, composta da una piccola parte delle sue ceneri. Davanti all’urna arde perennemente una lampada votiva offerta in parte a turno da uno dei Comuni del Reatino ed in parte dai fedeli di tutta Italia.

Per tutto il perimetro della Chiesa, vi è l’affascinante e coinvolgente Via Crucis, costituita da quattordici tavole dello scultore Aldo Leurenzi.

Le vetrate istoriate, svolgono il tema del Cantico delle Creature ed evidenziano fortemente le forze naturali del Sole, dell’Acqua, del Vento nonchè le dolci ed affascinanti riflessioni stellari e terrestri.

Sbalordito ed inebriato di tanta bellezza. Colpito nell’animo dall’attrazione che l’alta e magnifica figura del Santo, misteriosamente infondeva sia in me che ai miei compagni di vita e d’avventura, per l’amore che Egli manifestava, attraverso l’amore della natura, decisi e convinsi “Pino” a ripercorrere il suo cammino di Fede, di quei sentieri, che Egli dal 1209 al 1225 aveva percorso a piedi. Questo allo scopo, di rivedere quei luoghi mistici e carichi di alta spiritualità, dove Egli era sia pur per breve tempo vissuto, dispensando ai propri simili la Pace ed il Bene che tanto amava dare.

Così, l’indomani mattina, dopo aver fatto colazione, partimmo alla volta del Santuario più vicino, quello di Fonte Colombo posto lungo la Via Francigena, che dall’Oltre Alpi conduce a Roma. Situato sul costone del monte Rainero, nel territorio di Rieti, a circa 549 metri sul livello del mare, è uno dei quattro sentieri che delimitano il cosi detto “ cammino di Santo Francesco, assieme a quello della “Foresta”, del convento di San Giacomo a Poggio Bustone ed infine a quello di Greccio.

Dopo aver attraversato parte della città di Rieti, seguendo la segnaletica stradale, attraversammo una strada ben tenuta che costeggia un verde bosco di lecci secolari che ci ha condotto nei pressi di un piazzale sul quale sorgeva il Tempio.

Si narra che il nome di Fonte Colombo, sia stato attribuito a questo luogo dallo stesso Francesco, il quale vide nel bosco, una fonte di acqua cristallina, che tuttora esiste, a cui si abbeveravano delle colombe bianche.

Esso si adagia nella parte più nascosta del bosco di lecci secolari, dove tutto è considerato sacro, sia gli edifici che il monte stesso, perché racchiude il sacro “speco”, cioè la grotta naturale in cui San Francesco scrisse la Regola del suo Ordine.

A Fonte Colombo, alla fine del 1225, su sollecitazione del Cardinale Ugolino, Protettore dell’Ordine, fu condotto il Santo dove venne operato nel tentativo di guarirlo dalla grave malattia agli occhi.

Il complesso conventuale è costituito da una piazzetta nella quale si affaccia la Chiesa consacrata nel luglio del 1450, dal Cardinale Nicola Cusano, Vescovo di Treviri e dedicata ai Santi Francesco e Bernardino da Siena.

Particolarmente toccanti sono il Romitorio di San Francesco, situato più in basso alla Chiesa, dove il Santo subì l’operazione agli occhi, la cappella della Beata Vergine, detta anche della Maddalena, le cui origini risalgono al XIII secolo ed il sacro Speco, dove Francesco dettò a Frate Leone la Regola.

Terminato di visitare il Santuario verso le ore 10.30, abbiamo deciso di proseguire per quello della “Foresta”, situato a pochi chilometri di distanza.

Una strada leggermente tortuosa di una piccola collina ed in una raduna appartata, tra la verdeggiante marea di boschi di querce e castagne, sorge il convento Santuario di Fabiano, noto come Santuario di Santa Maria della Fonte o più semplicemente “La Foresta”.

Esso si trova sui colli dell’Annunziata a Nord-Est di Rieti, a circa tre chilometri e mezzo dal capoluogo, sulla strada per la frazione di Castelfranco.

All’epoca dell’arrivo di Francesco, in questo luogo vi era una piccola chiesetta, che risaliva all’anno Mille, dedicata a San Fabiano.

Vi era un prete, che accudiva il luogo sacro, abitava in una casetta annessa allo stesso, coltivava una vigna e quanto altro gli serviva per condurre una vita serena e tranquilla.

Lì San Francesco vi giunse, quasi casualmente, infatti Egli era stato chiamato dal Cardinale Ugolino da Anagni, per farlo sottoporre ad una operazione agli occhi.

Il luogo è noto anche per “il miracolo del vino”. Il Santo riuscì a moltiplicare i grappoli di uva rimasti a causa di una invasione di contadini che quasi distrussero la vigna che il prete coltivava e curava. San Francesco lo rassicurò e riuscì, nonostante tutto, a far produrre al vigneto vino in quantità.

In questa località di pace e di silenzio, Francesco, dettò a frate Leone, il celeberrimo “Cantico delle Creature”.

Camminando lungo il viale per raggiungere il Santuario, è possibile vedere ai lati, nella prima parte del Convento, dei quadri fatti di maiolica del “700 che rappresentano le quattordici stazioni della Via Crucis. In un piccolo atrio, si notano una serie di vetrate policrome dipinte con le scene del Cantico delle Creature.

Vi è il portale dell’antica chiesa di San Fabiano, le cui pareti sono decorate con affreschi del 1400. Sull’abside si notano diverse raffigurazioni da Gesù, a Giovanni Battista, della Vergine e di altri Santi. Accanto alla chiesa di San Fabiano, vi è quella di Santa Maria. Tornando nell’atrio, ci si immette attraverso la porta centrale nella “domus” e subito dopo nel chiostro, con il classico pozzo al centro. Da lì, si accede attraverso una scaletta, alla cosiddetta “celluzza”, luogo in cui Francesco soleva ritirarsi in preghiera e dove probabilmente dettò il famosissimo “Cantico delle Creature”.

Terminata la visita ed usciti fuori da quei luoghi sacri, nel ripercorrere il viale che conduceva al piazzale, onde salire in auto per il rientro in sede, mentre mia moglie con gli amici procedevano innanzi, colpito dall’atmosfera mistica che aleggiava tutto intorno, all’improvviso divenni timoroso ed ammutolito da quei Santi luoghi, che in quel radioso mattino avevo visitato ed a causa dell’emozione provata, procedevo quasi a tentoni lungo il sentiero.

Un tremore reverenziale scuoteva le mie membra, tanto che percepì l’immediato bisogno di sedermi su una panchina.

Una nebbia alternata a vivissima luce invase il mio campo visivo ed in quegli attimi di smarrimento totale, mi parve di rivedere attraverso un caleidoscopio, scene, in cui si sovrapponevano quei luoghi sacri, quando in lontanissimi tempi andati, Francesco ed i suoi pochi confratelli, avevano lì dimorato.

Mentre fisse, mi apparivano a sbalzi le immagini di quei Santi Uomini. Mi parve di vedere Francesco, il Poverello d’Assisi, dal viso smunto ed emaciato, dai continui digiuni e dalle incessanti veglie, fortemente preoccupato dalla responsabilità della direzione dei suoi frati, volendo Egli vivere e far vivere i Suoi, secondo il dettame del Vangelo, pregare fervidamente il Signore, perché gli suggerisse parole semplici ed adatte per stilare la Regola del suo Ordine.

Poi la scena cambiò e rividi il Santo, vestito dal Suo rammendato ma pulito saio, dal viso dolce, calmo, sereno e colmo di giubilo e di candore, dal quale si sprigionava una luce celestiale, passeggiare con i suoi frati per quei sentieri che circondano il Santuario della “Foresta”. Poi, nella sua “celluzza”, quando in perfetta armonia con l’universo ed il suo Creatore, dettare a frate Leone l’ineffabile “Cantico delle Creature”, del quale enuncerò solo l’inizio:

“Altissimo, Onnipotente bon Signore, Tue so le lodi, la gloria e l’honore et onne benedictione. A Te solo, Altissimo, se confano et nullo homo ene degno Te nominare”.

Seguono le lodi di Dio per quanto da Lui creato.

Mi risvegliai da quella breve ipnosi, se così la posso definire, e riflettendo su quanto sognato, in quei pochi istanti di trance, mi posi a riflettere e a considerare la spiritualità che è in noi stessi. Mentre pensavo ciò, si affacciò alla mia mente la figura dell’uomo moderno, egocentrico, dissacratore e rinnegatore di tanta bellezza, di tanto amore e di tanta sublimità, che Francesco con il Suo esempio aveva lasciato, ma servo quale è del dio Potere e del dio Denaro, considera tale eredità spirituale vacua e priva di profitto.

Mi sentivo amareggiato ed avvilito da tanta neghittosità, quando d’improvviso, un raggio di luce illuminò il mio cuore e la mia anima, perché ebbi a credere e mi convinsi che il mistero della Fede permane, ed è proprio quel mistero che tramuta piccoli uomini in giganti e li fa divenire Santi.

Venni richiamato dalle voci concitate di mia moglie e dei miei amici che da tempo mi sollecitavano di raggiungerli.

Rientrammo in sede, dove ci attendeva un ottimo pranzo che veramente gustammo, con i complimenti allo Chef ed ai camerieri che lo avevano servito.

Nella mattinata del giorno successivo, con frate Sole che illuminava e riscaldava la terra, partimmo alla volta del Santuario di Poggio Bustone. Oltre passammo Rieti e dopo aver percorso circa sedici chilometri della valle Reatina, giungemmo in un piazzale a livello della Chiesa di San Giacomo e l’annesso convento posta a livello del Romitorio inferiore, dove parcheggiammo l’auto. Nei suoi pressi si diparte un sentiero in salita che dopo mezzo chilometro raggiunge il Romitorio superiore che si erge sul bordo di uno scosceso pendio, a quota più alta del paese, celebre anche per aver dato i natali al cantante Lucio Battisti.

Questo Romitorio racchiuso nella Chiesa Santuario, si trova sotto una immane parete rocciosa, alta oltre cento metri.

In questo luogo, nel 1223, San Francesco creò il primo insediamento religioso.

Nella valle Reatina, Francesco vi giunse con i suoi primi sei confratelli, perseguitati in Patria, dalla vicina Umbria. Ma molti anni prima Egli aveva visitato la zona, ed il suo arrivo si fa risalire attorno al 1209.

Nel primo incontro che Francesco ebbe con la popolazione locale, Egli li salutò con il famoso: “Buon giorno brava gente”. Rimase nella zona sino al 1226 e se ne allontanò sei mesi prima della Sua morte.

A quel tempo il suo luogo di raccoglimento preferito era una grotta Romitorio in alto sul monte e che oggi, come ho già detto, è racchiusa in una graziosa chiesetta, costruita nei primi del trecento e completata con un campanile, nel seicento.

In questo luogo, Francesco ebbe la visione che lo rassicurò sul perdono dei suoi peccati giovanili e la profezia della grande espansione del suo Ordine.

Dopo la sua morte, in quel luogo, nel tardo duecento, iniziò la costruzione del convento, che fu dotato da una nuova Chiesa. Nel seicento il convento venne maggiormente ingrandito.

La chiesetta del Romitorio superiore è costituita da una semplice navata con volta a botte.

Per quanto riguarda il Romitorio inferiore ed il convento, ben poche tracce restano delle prime fasi costruttive, realizzate nel XIII secolo. L’attuale Chiesa di San Giacomo fu costruita verso la fine del XIV secolo, in stile vagamente gotico; mentre il portico è un’aggiunta recente e diverse ristrutturazioni sono avvenute nei secoli passati.

L’interno della Chiesa è a navata unica, coperta a capriate con abside con volta a crociera, aggiungo che al momento della visita, la trovammo gremita da un numeroso gruppo di Boy-scaut che assistevano alla messa celebrata da un monaco Francescano. Essa contiene delle cappelle realizzate nel Seicento e conserva alcuni interessati dipinti ed affreschi. A fianco della Chiesa si trova la suggestiva grotta del Santo.

Il convento che sorge sulla destra della Chiesa si sviluppa su ben quattro piani. Nell’antico refettorio si trovano oltre a pregevoli dipinti seicenteschi, l’altare in legno, utilizzato da San Francesco e dai Suoi seguaci.

All’esterno del convento si trova il “Tempio della Pace”, che vuole ricordare come da questo luogo Santo Francesco iniziò a praticare la pace, spedendo per il mondo i suoi pochi confratelli.

Ultimo punto da rilevare, è quello, di aver notato, entrando nel convento dalla porta principale, appeso, sulla parete destra, di lato ad una porta secondaria un quadretto in ceramica, sul quale vi era iscritto un avviso per il viandante che bussava a quella porta e che lo avvertiva che i frati gli avrebbero concesso il ristoro e cioè, la pulizia, un letto per dormire e quanto altro, con la sola eccezione, che per il vitto, era il viandante stesso, che doveva provvedervi.

Quando terminammo di visitare il Santuario con annesso convento, si erano fatte le ore 11,30, per cui decidemmo di rientrare in sede, con la promessa di terminare l’indomani il “cammino di Santo Francesco” con la visita all’ultimo Santuario di Greccio.

Fu così che la mattina successiva partimmo dal Terminillo e percorsi circa 40 chilometri, ci portammo alla volta del Santuario.

Il luogo è senza dubbio alcuno da visitare. L’atmosfera di pace, l’immersione nella natura ed il silenzio che vi regna, rendono questo sito unico nel mondo.

Sorge a circa due chilometri dal Borgo di Greccio, incastonato nella roccia di un costone boscoso, simile ad un nido d’aquila, si erge maestoso ed è uno dei monumenti più importanti della storia e del fascino che permane sulla vita di Santo Francesco.

Il Santuario, fu realizzato dal Santo e lì realizzò il primo Presepe vivente, nella notte di Natale del 1223.

Si tratta di un complesso di costruzioni, il cui nucleo primitivo risale agli anni in cui il Poverello d’Assisi, vi dimorò.

Dopo aver percorso una lunga scalinata si giunge alla Chiesetta di San Luca, onore e centro del luogo sacro.

Nella grotta in cui fu realizzato il Presepe, infatti, fu costruita una cappella e sul masso che servì da mangiatoia, un piccolo altare.

Sul fondo della cappella, si ammira un affresco del 1400 di scuola Giottesca, che rappresenta la Natività di Betlemme con a sinistra il Presepe di Greccio.

Data la sua sacralità, l’atmosfera che si respira è colma di pace e di serenità. Percorrendo, poi uno stretto corridoio, si giunge ai luoghi che furono abitati dal Santo e dai Suoi primi frati: il refettorio, dove si vedono ancora, un piccolo lavabo, una parte del primo pavimento ed un caminetto ristrutturato. Poi, attraverso un lungo corridoio si affacciano le minuscole cellette in cui dormivano i frati, indi si arriva dove sulla nuda roccia il Santo dormiva, che l’ho trovata simile per estensione forma a quella del Romitorio di Poggio Bustone.

Tutti i luoghi, gli ambienti, ci parlano della semplicità e della povertà in cui i frati vivevano e di come mettevano in pratica la Regola dell’Ordine. Tommaso da Celano, biografo del Santo, ci informa che: “nei giacigli e nei letti era così in onore la povertà, che chi aveva poveri panni, distesi sulla paglia, credeva d’essere su un letto sontuoso”.

Nel salire sul piano superiore, si incontra la minuscola cantina del Santo ed il pulpito di San Bernardino da Siena. Successivamente attraverso una scala si arriva nel dormitorio di San Bonaventura del XIII secolo, dove vi sono 15 cellette, in cui ebbero a dormire diversi Santi dell’Ordine.

Attraversato il Coro, si entra nella prima Chiesa, dedicata a San Francesco, dopo la Sua canonizzazione, avvenuta nel 1228, due anni dopo la Sua morte.

Nel secondo piano, si trova una mostra permanente, composta da centinaia di presepi, realizzati dai numerosi artisti di tutto il mondo.

E’ bene ricordare che il Santuario è stato ricostruito una diecina di anni fa, mantenendo intatto il bellissimo stile rustico ed accogliente tipico del posto.

Nell’esterno del Santuario si trova la cella solitaria di San Francesco e la grotta dove visse per 32 anni il Beato Giovanni da Parma, settimo Ministro dell’Ordine.

Visitate Chiese e convento, passo a narrarvi come Tommaso da Celano, racconta l’evento che fa di Francesco, il Santo più amato nell’immaginario collettivo, con la scena del Presepio di Greccio, dove egli “ricrea” la scena di Betlemme con una vivacità ed uno stupore che incanta:

“Verso gli ultimi anni della Sua esistenza, la vita di Francesco viene turbata dalla malattia e dalla situazione del Suo Ordine ed è proprio in questi momenti di tristezza spirituale e corporale che Egli si trova con i suoi confratelli nel villaggio di Greccio.

C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, che il beato Francesco aveva molto caro, poiché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua Regione, trascurata la nobiltà della carne, aveva seguito quella dell’anima.

Circa quindici giorni prima della Natività del Signore, il beato Francesco, come spesso faceva, lo fece chiamare a sé e gli disse: “se desideri che celebriamo a Greccio la presente festa del Signore, affrettati a precedermi e prepara diligentemente quanto ti dico.

Voglio infatti fare memoria (memoriam agere) del Bambino che è nato a Betlemme ed in qualche modo vedere (pervidere) con gli occhi del corpo i disagi per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come fu posto nel fieno tra il bue e l’asino”.

Appena l’ebbe ascoltato, quell’uomo buono e fedele, corse sollecito e preparò nel tempo predetto tutto quello che il Santo aveva detto.

Giunse dunque il giorno della letizia, venne il tempo dell’esultanza; sono convocati molti frati da varie parti; uomini e donne della Regione, secondo le proprie possibilità prepararono con animo esultante ceri e fiaccole per illuminare quella notte, che illuminò tutti i giorni e gli anni con lo splendore delle stelle.

Arrivò alla fine il Santo di Dio e trovando tutto predisposto, vide e si rallegrò.

Subito si prepara la greppia, vi si pone il fieno e si introduce il bue e l’asinello.

Vi è onorata la semplicità, è esaltata la povertà, venne raccomandata l’umiltà e da Greccio è nata una nuova Betlemme.

La notte è rischiarata come il giorno ed è delizioso per gli uomini e per gli animali! La gente accorre e si allieta con nuove gioie al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi riecheggiano di cori festosi. I frati cantano, sciogliendo lodi appropriate al Signore e la notte intera esulta di gioia.

Il Santo sta davanti al Presepio, pieno di sospiri, vibrante di pietas e sovrabbondante di gaudio ineffabile. Si celebra la messa solenne sulla greppia ed il sacerdote assapora una nuova consolazione.

Il Santo di Dio si riveste dei paramenti diaconali (levitici) perché era diacono (levita) e canta con voce sonora, che invita tutti ai grandi premi. Poi predica al popolo circostanze e proferisce parole dolcissime sulla nascita del Re povero e su Betlemme, città piccolina.

Spesso quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di grande amore, lo chiamava “Bambino di Betlemme”, e dicendo al modo di un belato di pecora “Betlemme” (Betheehem) riempiva la bocca di voce, ma ancor più di dolce affetto. Quando diceva “Bambino di Betlemme” o Gesù, quasi passava la lingua sulle labbra, gustando con felice palato ed inghiottendo la dolcezza di quelle parole.

Là si moltiplicarono i doni dell’Onnipotente ed un uomo virtuoso ha una mirabile visione. Vedeva infatti un bambino che giaceva esanime nella mangiatoia, e vedeva il santo di Dio avvicinarsi a Lui e destare quel bimbo come dal sopore del sonno. Né questa visione era fuori luogo, perché il fanciullo Gesù era stato abbandonato alla dimenticanza nel cuore di molti, e per grazia di Dio fu resuscitato in costoro per mezzo del Suo Santo servo Francesco e fu impressa nella loro memoria amante. Termina dunque quella veglia solenne e ciascuno torna con gioia a casa sua.

Si conserva il fieno collocato nella mangiatoia perché per mezzo di esso il Signore guarisce giumenti ed altri animali. Lui che ha moltiplicato la Sua misericordia. E davvero è avvenuto che nella Regione circostante molti animali colpiti da diverse malattie, mangiando di questo fieno furono da esse liberati. Anzi anche alcune donne, che soffrivano per un parto lungo e faticoso, ponendosi addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito; anche uomini e donne accorsi per diversi infortuni, hanno ottenuto colà la desiderata salute.

Il luogo della mangiatoia, è stato poi consacrato come Tempio del Signore e sopra la mangiatoia venne costruito un altare e dedicata una Chiesa ad onore del beatissimo Francesco, affinché dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, là gli uomini possono mangiare, per la salvezza dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello immacolato ed incontaminato Gesù Cristo, nostro Signore, che con amore sommo ed ineffabile ha donato se stesso per noi.

Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli dei secoli. Amen. Alleluia, Alleluia.

Questo è quanto Tommaso da Celano scrisse per noi, a memoria di sempre, distinguendo il racconto dei preparativi, il racconto della notte ed infine il resoconto sui miracoli.

In questo mio racconto, ho tentato di narrarvi il cammino nella Natura che il Santo Francesco fece attraverso quegli altopiani e quei monti che circondano la città di Rieti, pregando e soggiornando con i Suoi, in grotte che tramutò in Eremi e che successivamente per la devozione dovutagli, sono divenuti celebri Santuari, luoghi di preghiera e di Pace. Ho attraversato quei sentieri ed ho visitato quei Santuari. Ho ripercorso quei corridoi dei conventi, che Egli ed i Suoi, in tempi lontanissimi aveva calpestato. Ho avuto la fantasmagorica visione di vedere in un mondo surreale il viso emaciato del Santo e le preoccupazioni che l’attanagliavano in quel di Fonte Colombo, per la stesura della Regola del Suo Ordine. Ho rivisto poi il Suo viso sereno e colmo di gioia, in quel di Poggio Bustone, quando ebbe la visione che gli confermò il perdono dei Suoi peccati giovanili ed ancora in quello della “Foresta”, quando vivendo in perfetta armonia con il Creato ed il Suo Creatore, mentre dal Suo viso si sprigionava una luce celestiale, dettava a frate Leone il celebre “Cantico delle Creature”.

Infine ho cercato di capire, in quel di Greccio, come Francesco viveva il Natale. Come nel Natale, Egli pone al centro della Sua attenzione il Signore Gesù, il Figlio di Dio che prende “la vera carne della nostra umanità e fragilità “. E mentre noi facciamo del Natale una festa della solidarietà e dell’amore, Egli ci ricorda con forza che il senso di questa festa è anzitutto la nascita del Figlio di Dio.

Si tratta di un messaggio importante, perché al centro vi è Dio e la Sua scelta di diventare uomo. Egli viene colpito dalla povertà di Gesù e di Sua madre, dalla scelta di nascere in una mangiatoia di Betlemme che realizza allo stesso modo a Greccio. L’attenzione che pone all’immagine di un Dio che si fa “minore”, cioè più piccolo, che è nato lungo la via e deposto in una mangiatoria, perché non c’era posto nell’albergo, che gli fa apprezzare la bellezza dell’umiltà e della semplicità.

Tutto questo provoca in Francesco l’emozione e la gioia dei sensi spirituali e diventa in Lui esperienza di vita vissuta.

Dopo tanto scrivere, non mi resta altro che ringraziarvi della paziente lettura e l’esortazione, se vi è possibile, di visitare anche voi il “cammino di San Francesco”. In questa maniera, vi immergerete in meravigliosi boschi di lecci secolari, di querce, di faggi, di castagni e roveri e troverete la pace ed il silenzio in una natura che somiglia ancora a quella che Santo Francesco vide ed amò.

Brindisi, 20 settembre 2015.

Antonio TRONO