Vita e leggende del grande condottiero mongolo Gengis Khan

 

di Antonio Trono

 

Mi affascina molto il passato, con i suoi personaggi, che hanno lasciato in memoria, la loro vita vissuta da veri ed autentici uomini, dimostrando così, a noi  loro posteri, che l’uomo è l’artefice di se stesso e del mondo che lo circonda. Di conseguenza operavano per esso,allo scopo di migliorarlo e, non come  avviene oggi, dove noi assistiamo impotenti ed indifferenti al ruotare della vita che ci trascina al pari di un immenso esercito di “robot”, trasportati come siamo dai mass-media dei giornali e della televisione in particolare, che ci assoggettano al loro volere e dove compariamo neutrali alla paranoia del “ tutto accade e nulla accade “, preoccupati come siamo esclusivamente del nostro benessere materiale e solo per esso viviamo,azzuffandoci e dilaniandoci l’un l’altro, paghi solo di aver saziato il nostro stomaco,infischiandocene del nostro prossimo miserevole e derelitto che ci sta attorno. Questo è forse il motivo che mi spinge a ricercare nei libri di Storia quei tanti uomini che con il loro operato hanno lasciato in eredità all’umanità intera, dei cambiamenti epocali capaci di modificare il mondo e per tale ragione intendo sublimarli ed esaltarli descrivendo le loro eroiche gesta perché siano di esempio e di monito a noi tutti per quel breve tratto di vita cui siamo destinati a vivere. Tra quegli uomini, le cui ceneri sono da secoli divenute polvere sparsa al vento e che solo le leggende narrate sulla quotidianità da loro realmente vissuta e  che la storia ci ha tramandato, ho privilegiato quella dell’alta figura del condottiero Mongolo Genghiz-Khan, che pur nato e vissuto tra un popolo di uomini brutali, selvaggi e sanguinari, suddiviso tra clan e tribù, talmente disarticolate e disorganizzate da costituire ognuna, un mondo a se stante, egli seppe unificarle e fare di esse un popolo di guerrieri audaci ed intraprendenti, capaci di conquistare ed assoggettare immensi territori, rimanendo per lungo tempo invincibili. Questo è quanto mi prefiggo di narrare, passando a descrivervi quanto ho rilevato, studiando ed analizzando il più possibile libri specifici che trattano il personaggio ed il suo popolo. Ed allo scopo di meglio comprendere la personalità del condottiero Genghiz-Khan, ho ritenuto necessario descrivere gli usi ed i costumi dei Mongoli, nell’epoca in cui egli visse, perché solo in tale maniera si potrà comprendere la difficile arte della sua grande   impresa di unificazione e di conquista.

Già dai tempi più remoti, orde nomadi circolavano attraverso l’immensa zona delle steppe che coprono una parte importante dell’Eurasia. I loro idiomi li apparentavano alla famiglia linguistica Altaica o Turco-Mongola.  Ma il loro stesso ambiente naturale imponeva da millenni un sistema di vita pastorale che sembrava stranamente rudimentale in confronto alle civiltà sedentarie loro contemporanee. Eternamente attirate dai paesi coltivati lungo il margine della steppa, le loro tribù si agglomeravano lentamente, accontentandosi per un certo periodo di tempo di esercitare brutali e fulminee razzie nei paesi limitrofi. Poi, bruscamente, tutto un insieme di orde si raggruppavano per effettuare una spaventosa invasione davanti alla quale fuggivano le popolazioni sedentarie dedite all’agricoltura: i loro campi abbandonati tornavano a venire invasi dalla gramigna e trasformati in pascoli dai nomadi preoccupati soltanto del benessere delle loro cavalcature e delle loro mandrie. Tutta la storia dei paesi vicini alla steppa eurasiatica è fatta di questi flussi e riflussi, in quanto i nomadi facevano dilagare la steppa sui terreni coltivati,mentre gli agricoltori estendevano le loro culture sui margini della steppa. Il relativo nomadismo delle popolazioni dei confini, il mescolarsi delle diverse tribù sui terreni lungo il percorso delle invasioni, avevano facilitato il contatto tra nomadi e sedentari. Pur restando fedeli alla cruda vita dei cavalieri e dei pastori, gli uomini della steppa, non erano meno attratti dall’opulenza e dalla raffinatezza delle civiltà evolute e, malgrado si accanissero a distruggerle, taluni si lasciavano abbagliare da esse al punto di adattarsi, all’occasione, alla civiltà sedentaria, gli uni si Cinesizzavano, quali i Mongoli qitay, che si impadronirono nel X secolo di una parte della Cina del Nord e fissarono la loro residenza a  Pechino; altri si Iranizzarono, come i Turchi Uigur che, convertiti al Manicheismo ed iniziati alle lettere, divennero i veri educatori degli altri Stati Turco-Mongoli e si rifiutarono di tornare alla vita nomade. Tra le grandi potenze che consideravano buona politica  richiedere il loro aiuto o che si videro costrette, esse si dimostrarono talvolta dei fidi alleati,ma molto più spesso, invece, una minaccia tanto grave quanto persistente. Specializzati negli attacchi fulminei, permessi dalla rapidità dei loro cavalli, essi erano avversari pericolosi e formidabili, capaci di seminare al loro passaggio solo rovine, distruzione e morte. Sicuramente, non erano ancora riusciti a dare coesione ai loro gruppi di tribù disseminate nella steppa, ma essi avevano fondato una serie di effimeri Imperi, dove nel corso dei secoli alternavano l’egemonia Turca a quella Mongola, dove spesso i meno civilizzati distruggevano i Regni, che i più evoluti erano riusciti a costruire. Per il processo storico, è bene dare una rapita carrellata al periodo che ebbe il suo inizio con le grandi invasioni del IV secolo, invasioni le cui propaggini avevano raggiunto l’Europa, con Attila e l’India con Mihirakula, perché ciò ci farà capire tanto l’origine tanto l’originalità dell’opera condotta da Genghiz-Khan.

Nel sesto secolo tre grandi gruppi si erano dispiegati dalla Cina alle Bocche del Don: i Juan – Juan in Mongolia, dalla Manciuria a Turfan; gli Unni Eftalti, dalla parte settentrionale della regione del Qarashahr a Merv, e dall’Aral  al Paryab, gli Unni d’Europa  probabilmente di razza Turca, intorno al mare d’Azov ed alla foce del Don. Ma verso il 550, i Juan- Juan e gli Eftaliti del Turchestan vennero respinti dai Tu-kue, fondatori del primo Impero nomade che abbia presentato una organizzazione più salda. Essi conservarono la loro autonomia fino al momento in cui la potente dinastia Cinese  dei T’ang, dopo avere schiacciato nel 744, i loro fratelli in Mongolia, li fece passare sotto il suo dominio. Tra le varie unità statali create da queste genti proto- mongole la più importante fu indubbiamente quella dei Khitani, che raggiunse il suo culmine tra il 907 ed il 926 sotto il regno di Ye-liu A-Paoch’i, controllando tutta la Cina dei Sung. In questo periodo tanto turbinoso, per l’avvicendarsi, il fondersi ed il frazionarsi di gruppi etnici e di entità statali nell’Asia Orientale, si verificò un fenomeno destinato ad avere la più durevole conseguenza nella storia del continente, cioè la diffusione tra la gente dell’Asia centrale dell’Islamismo che avrebbe offerto loro un’unità ed un sicuro segnale di civiltà del tutto inesistenti in precedenza. Nello stesso tempo, tra le genti  Tibetane e Mongole si era diffuso il Buddismo, sia pure in forma rozza e superstiziosa. Nel corso del XII secolo, dalle due estremità del mondo delle steppe si producono ancora le migrazioni di orde nomadi, e benché le tappe iniziali per l’affermazione dei Mongoli fossero avvenute con alterne vicende attorno alla metà del XII secolo, fu soltanto a cavallo tra il XII ed il XIII secolo che la grande espansione ebbe luogo. In questo sorprendente mosaico di popolazioni nomade talune, divenute in parte sedentarie, entra in scena Genghiz- Khan. L’unità linguistica però non compensa il mischiarsi  di credenze e di formazioni politiche disperate. I loro popoli ora Cinesizzati, ora Iranizzati, o rimasti fedeli alle tradizioni Turco- Mongole, si sono convertiti, a secondo del territorio conquistato, chi al Buddismo, che al Confucianismo, chi al Cristianesimo Nestoriano o al Manicheismo, o all’Islam ed alla religione Ebraica, per cui le loro alleanze sono effimere e si mantengono refrattari ai progressi della civiltà in cui si trovano immersi, in quanto conservano nella maggior parte le loro abitudini barbare. E se le varie orde dei Kerait o dei Naiman convertiti alla religione Cristiana  Nestoriana, sembravano essersi rivestiti di una sottile patina di civiltà, l’animo dei paesi mongoli, era rimasto dal tempo della dominazione Khitana, nella più profonda barbaria. Non esisteva nessun raggruppamento fisso o mobile, nessun agglomerato umano recintato,non vi erano altro che  miseri tuguri e poveri accampamenti, dove vivevano alcune famiglie, il più spesso una sola. In tale contesto, intanto, nel cuore della Mongolia, tra i più arretrati di questi Mongoli, gli stessi antenati di Genghiz-Khan, avevano arrischiato dei tentativi di unificazione. Un certo Quidu riunì intorno alla sua tribù i Borgighin che erano le famiglie che richiedevano la sua protezione. Dopo aver così fondato il primo “ regno “ , lasciò la direzione a suo nipote Qabul, al quale succedette suo cugino Amboqai, poi il figlio di questo ultimo, Qutula. Diventati a poco a poco più forti, i Mongoli strinsero rapporti di amicizia con i Qitay, loro consanguinei, Cinesisizzati  e divenuti sedentari. Invitato alla corte imperiale di Pechino, stupì i suoi ospiti, per quanto poco raffinati, con i suoi modi brutali ed il suo enorme appetito. Si pensi, malgrado fosse stato ricolmato di doni, temendo un agguato, egli fece in seguito massacrare gli ambasciatori dell’Imperatore e si pose a combattere contro i Qitay, i quali impegnati a fondo nella loro lotta contro i Song, non gli opposero che una misera resistenza ed abbandonarono nelle sue mani alcune posizione fortificate al Nord del fiume Sip’ing, promettendogli inoltre un tributo di buoi, di montoni e di cereali e ciò avveniva nell’anno 1147. In seguito i Mongoli ruppero i patti di amicizia con i loro fratelli Tartari.

Successivamente una coalizione di Tartari e di Qitay  riuscì facilmente a sopraffarli e la” sovranità “ Mongola scomparve nella lotta, mentre le tribù ed i clan ritornavano al loro frazionamento anarchico.

Conosciuto nella Storia con il titolo di Genghiz- Khan attribuitogli dalla sua tribù alla fine del XII secolo, il grande animatore dell’espansionismo Mongolo nacque, forse nel 1167, sotto la tenda, piantata sulla riva destra dell’Onon, con il nome di Temugjil da una famiglia aristocratica discendente da re, ma immiserita. Nipote del Khan Qutula, aveva combattuto i Tartari ed ucciso verso il 1155, uno dei loro capi, Tamugin-uga; poi,  intervenendo nelle lotte intestine dei Kerait, aveva conquistato l’amicizia del loro Khan, Toghrul, che egli aiutò a riconquistare  il potere sul suo popolo. In ricorso di questa sua vittoria egli diede  al maggiore dei suoi figli il nome di Tomugjil. Ma egli morì, avvelenato dai Tartari, quando questo ultimo aveva nove anni. La sua vedova ed i suoi figli, troppo giovani per dirigere il gruppo, furono spossessati dalle loro mandrie e ridotti in miseria. Egli ebbe  una infanzia errabonda e vissuta piena di stenti, una giovinezza trascorsa sotto il segno di continue lotte di clan, che temprò il suo fisico ed il suo spirito in maniera eccezionale e, che non fu inutile al futuro arbitro dell’Asia, in quanto gli consentì di conoscere perfettamente l’arte della guerra nella steppa e la struttura sociale delle tribù dei Mongoli, alternando alleanze e lotte con i capi delle altre tribù ed in particolare con il capo dei Kerait, Toghril del quale divenne vassallo. Il suo spirito pratico, mescolato ad astuzia e di ambizione e di abilità, gli permise di ristabilire gli affari di famiglia, poi di tentare la restaurazione, a suo esclusivo vantaggio, della sovranità Mongola, sino ad assumere il titolo di Khan che suo padre non aveva portato. Acclamato dalle tribù che egli aveva unificato nel 1196 prese il nome di Genghiz- Khan e dal 1203 al 1204 riuscì a vincere uno dopo l’altro i suoi avversari, riducendone in schiavitù le tribù ed impossessandosi delle loro terre. Quando nel 1206 Temujiin , ormai noto come Genghiz-Khan, tenne l’assemblea generale delle tribù Mongole nelle steppe lungo il fiume Kerulen egli era ormai padrone di tutta la Mongolia e poteva organizzare il suo Impero, suddividendo l’amministrazione delle terre conquistate tra i suoi fratelli e figli ed assegnando al minore di questi ultimi la funzione di “ guardiano del focolare “, cioè di detentore del territorio d’origine della famiglia. Una volta compiuta l’opera di unificazione della Mongolia, fattosi proclamare Khan Supremo ( Qahan), Genghiz-Khan  passò all’organizzazione dello Stato e dell’esercito, rivolgendo le sue conquiste verso i paesi sedentari. Iniziò con la Cina del Nord e nel 1209,attaccò i Si-Hia, poi i Qitay, la cui lotta ebbe a durare per ben venticinque anni. Senza avere completato la conquista della Cina del Nord, nel 1218 si lanciò in direzione Ovest contro i Qaraqitay e nel 1220 contro il Khwarizm, conquistando tutti i territori già sotto il controllo di questo ultimo Principato. Territori che comprendevano le vaste regioni dalla Transoxania  all’Afghanistan e la maggior parte dell’Iran. Contemporaneamente inviò verso le regioni del mar Caspio, i due suoi luogotenenti migliori, che devastarono la Georgia e l’Azerbaigian, misero a fuoco la città di Hamadan, entrarono in conflitto con gli Alani, a Nord del Caucaso e sconfissero infine nel 1221 i Qipeiaq e nel 1222 il Principe di Kiev.

Quando egli nel 1227 venne a morire, in meno di venti anni aveva costituito un vasto Impero che si estendeva da Pechino al Volga. Poi il suo terzo figlio Ogadai che egli aveva designato, quale suo successore, lo ingrandì ulteriormente, completando la distruzione dei Qitay nei cantoni della Cina del Nord-Est, conquistò la Corea  ed intraprese una lunga lotta contro i Song, iniziando infine la riconquista della Persia Occidentale. Alcuni dei suoi luogotenenti si spinsero sino alla Georgia  ed in Armenia,altri furono lanciati contro l’Europa e tra il 1236 ed il 1242, la Bulgheria, la Russia Meridionale, l’Ucrania, la Polonia, la Moravia, l’Ungheria, la Croazia, fino alle rive dell’Adriatico, divennero successivamente preda della loro devastazione e delle loro violenze inenarrabili. Sicuramente, la morte di Ogadai e le lotte per la sua successione li costrinsero a ripiegare sul Volga, ma essi avevano ingrandito il loro Impero fino alle porte dell’Europa centrale. Altro erede di Genghiz-Khan fu il Khan Guyuk, vissuto tra il 1241 ed il 1248, che a causa del suo breve periodo di regno gli fu impedito di realizzare la conquista delle province Cristiane. Dopo di lui suo cugino Monka che ebbe a regnare rea il 1251 ed 1259, rimise in efficienza l’amministrazione dell’Impero, senza però rinunciare ad impedire la divisione che avvenne dopo la sua morte. Suo fratello Qubilai, continuò la sua opera, portò a termine la lotta contro i Song, ma non usò più i metodi cari ai Mongoli, cioè sterminio e distruzione, ma cedettero il posto ad una organizzazione sistematica, dove veniva promosso lo sviluppo dell’agricoltura e lo studio di problemi amministrativi e sociali. Nel 1279, dopo il crollo definitivo dei Song in Cina, fu Qubilai, il primo capo straniero a dominare su di un Impero, quindici volte centenario ed a fondare la dinastia dei Yuan. Egli pretese che gli antichi vassalli di questo paese, fossero a lui soggetti, rinsaldò la sovranità Mongola sulla Corea e tentò a parecchie riprese di conquistare il Giappone, ma dovette rinunciarvi quando nell’anno 1281, un intero Corpo di spedizione venne distrutto da un temporale. Con questa ed altra disfatta in una spedizione contro Giava, avvenuta nel 1293, nel corso della quale il re di Kadivi riuscì a rigettare gli assalitori in mare, l’Impero Mongolo, aveva chiaramente raggiunto i suoi limiti. D’altronde lotte intestine turbavano la stessa Mongolia e Qubilai dovette prendere le armi contro i propri parenti per ricondurli all’ordine. Sotto il suo regno, Pechino, era  divenuta la capitale di un immenso dominio che si estendeva fino al Danubio e all’Eufrate e l’Impero restava sotto la suprema autorità del Gran Khan. Questa è la storia di quello Impero tanto grandioso che Genghiz- Khan riuscì a consolidare.

Ora, la domanda che si pone è questa: come fece Genghiz- Khan ad unificare quel suo popolo diviso, rissoso e sanguinario, abituato a vivere in un paese stepposo, dove il clima brutale tempra una salute di ferro per chi sopravvive ed è la condanna dei deboli? Sicuramente perché nelle  regioni settentrionali della Mongolia, probabilmente a seguito di un forte aumento della popolazione che andava formandosi nel corso del XII secolo, sorgeva un nuovo fattore di espansione ed avveniva che le  popolazioni dei Mongoli propriamente dette,contraddistinte da una rigida divisione tra aristocrazia, plebei e schiavi era solidamente organizzata in squadre di cavalleria e di arcieri che premevano sulle terre più fertili ed iniziavano una serie di spostamenti che le avrebbe portate a costituire da un capo all’altro dell’Asia il più vasto, ma più effimero Impero della storia mondiale. Benché le tappe imperiali per l’affermazione dei Mongoli fossero avvenute, con alterne vicende, attorno alla metà del XII secolo, fu soltanto a cavallo tra il XII ed il XIII secolo che la grande espansione si delineò. Ed essa fu legata a Genghiz-Khan, che seppe intuire istintivamente e preventivamente, ma certo con grande precisione, quali fossero gli elementi capaci di porre le tribù nomadi dei cavalieri e degli arcieri Mongoli in vantaggio rispetto alle più ricche e sviluppate civiltà sedentarie dei Paesi vicini e di conseguenza seppe elaborare una tattica di guerra veloce e mobile ed una strategia a largo raggio per trarre vantaggio da questi elementi.

Dopo la morte di Genghiz-Khan, l’esercito ed il territorio originario della famiglia furono divisi tra i quattro figli, mentre le terre conquistate furono considerate indiviso possesso familiare ed affidate ai vari componenti in provvisorio appannaggio, mentre l’amministrazione di questi territori veniva però affidata in prevalenza alla burocrazia originaria dei popoli vinti. Tuttavia le forze motrici sociali che avevano provocato la grande a subitanea espansione Mongola ne causarono il ripiegamento. L’Unità della famiglia di Genghiz-Khan non sopravvisse alla prima generazione e le lotte accanite tra gruppo e gruppo portarono al frazionamento del potere; le ricchezze apportate all’aristocrazia Mongola dal sistematico saccheggio  non potevano bastare alla gestione stabile di un Impero continentale arretrato, mentre l’economia dei più sviluppati Paesi sottomessi soggiaceva alle rovine della conquista distruttrice e quando accennava a riprendersi si poneva in netto contrasto con le esigenze del popolo delle steppe. Dopo il 1294, alla morte di Genghiz-Khan, l’Impero Mongolo, dal Kazan alla Corea, si avviò alla sua sorte naturale di frazionamento feudale, di lotte di tribù e di assorbimento delle forze etniche e politiche dei Mongoli nelle unità statali, sorte nei vari luoghi sulle rovine dell’Impero di Genghiz-Khan e di tutte le regioni controllate da questo ultimo, fu proprio la sua primitiva patria d’origine ad avere la peggio, soprattutto dopo la vittoria della rivolta popolare che cacciò i Mongoli dalla Cina nel 1368 e si insediò la dinastia dei Ming.

Tra gli abitanti della Mongolia Orientale, sopravvive ancora il culto di Genghiz-Khan. La dinastia da lui fondata ebbe meno di un secolo di grandezza, ma il ricordo ed il culto del condottiero sono rimasti vivi tra i Mongoli. Ogni anno affluiscono in gran numero dinanzi alla sua tomba, a Ectingoro, per celebrare il loro eroe nazionale. Il mito di Genghiz- Khan ha radici profondissime tra i Mongoli. Come per Omero, numerose città si attribuiscono il vanto di avergli dato i natali. Nel territorio di Ordos esistono otto località consacrate a Genghiz- Khan, nelle quali si conservano rispettivamente le ossa, le selle e le briglie del cavallo,  la spada, l’arco e le trombe dell’eroe.

Leggende meravigliose, fiorirono dopo la sua morte. Si disse, ad esempio, che non fu possibile trascinare il carro che conteneva le sue spoglie al paese di origine, perché le ruote affondavano nella sabbia e non era possibile liberarle. Allorché si volle comporre il corpo in un prezioso feretro, si scoprì che la cassa era troppo piccola. Ne fu fatta costruire un'altra più grande, l’effetto fu il medesimo. Si pensò allora di cremare la salma, ma spento il rogo, il corpo del condottiero riprese le primitive sembianze. Allora si dovette decidere al seppellimento in Ectingoro. Cinquecento nobili famiglie vennero designate a custodire la sua tomba e ad occuparsi del suo culto e delle reliquie. Ancora oggi, i discendenti di quelle famiglie vivono a Ectingoro, attorno alla tenda ed attendono al culto dell’eroe. Essa sorge su di una altura elevata nel deserto ed è costituita da due semplici tende protette da un rozzo steccato di legno. Come si vede i Mongoli, hanno sempre manifestato il loro disinteresse per le case in muratura, perché la tenda è il simbolo della loro vita. Nel fondo della seconda tenda si scorge un grande quadro che riproduce l’immagine barbuta di Genghiz-Khan e davanti ad essa vi è una cassa di legno con dentro le ossa dell’eroe, avvolte in cinque drappi di seta di diversi colori. Nessuno può vederle. Si racconta in proposito che un re Mongolo volle un giorno aprire la cassa e fu colpito da cecità ed i Musulmani che durante una insurrezione penetrarono nella tenda sacra si tramanda che furono colpiti da paralisi. Un'altra leggenda vuole che quando saranno scomparsi dalla terra lo Zar bianco ed il Figlio del cielo, sorgerà un novello Genghiz-Khan per dar vita ad un nuovo glorioso Impero mondiale Mongolo. Impiegati così nei loro sogni di grandezza, i Mongoli non hanno ne il tempo e ne la voglia di dedicarsi ad attività manuali.

Ora allo scopo di maggiormente lumeggiare la figura del grande condottiero Genghiz-Khan, ritengo necessario descrivere la vita, le usanze ed i costumi del suo popolo di quel periodo e che in parte tutto oggi continua a praticare.

Le tribù Mongole sono formate in maggior parte da pastori, poi vi sono i cacciatori delle foreste, ancora meno civilizzati dei pastori, che non possiedono né bestiame e né cavalli e vivono esclusivamente dei prodotti della caccia e di qualche mestiere artigiano: carpentieri e fabbri. Le tribù dedite alla pastorizia sono costrette a migrazioni periodiche ed alla vita nomade. D’inverno le mandrie vengono condotte nella steppa, dove fa meno freddo e vi rimangono durante la primavera, durante la quale l’erba è migliore; d’estate, essi risalgono sulle montagne per trovarvi un po’ di fresco ed entrano così in contatto con gli abitanti delle foreste. In previsione di questo percorso, tutto è concepito per essere trasportato facilmente. Una volta giunti sul posto, i carri vengono disposti in circolo, in maniera da formare una specie di cinta. Le tende che rimangono sui carri completamente montate sono di due tipi: le prime ( ger ) impropriamente chiamate  “yarte”, fatte di  feltro nero, di forma  rotonda vengono montate su di una armatura mobile di pertiche e di correnti, intorno ad una pertica centrale considerata sacra; un piccolo tubo, fissato al feltro, serve alla fuoriuscita del fumo ed alla ventilazione. Le altre (maikhan), larghe e basse, sono coperte di lana, mentre la tenda del capo si distingue per il suo colore bianco o “ tutto dorato “. Nei loro carri di legno, vi sono i membri della famiglia, pigiati gli uni contro gli altri ed i piccoli della mandria, troppo deboli per camminare a lungo. Seguono le mandrie  inquadrate dagli uomini montati sui loro piccoli cavalli dalla criniera arruffata, muniti di una sella di cuoio e focosi come i loro cavalieri. Nelle mandrie si mescolano cavalli di rimonta, giumente, tori, buoi e vacche,capre, montoni e pecore e talvolta anche cammelli. Al pari di tutti i nomadi, i Mongoli passano dalla carestia alla crapula. Ogni festa, ogni avvenimento è buono per banchettare. Si nutrono di carne di cavallo e di montone, bollite od arrostite, di latte cagliato, di aglio e cipolle e di una specie di burro battuto in tinozze per mezzo di un bastone guarnito in parte di cuoio. In tempo di carestia, essi si saziano di sorbe, di bacche selvatiche e di radici commestibili. Si ubriacano di latte di giumenta fermentato, che portano con se anche quando si allontanano per qualche giorno. Nell’approssimarsi dell’inverno macellano un certo numero di montoni, con le cui carni costituiscono le riserve di carne congelata, come pure conservano latte disidratato e ridotto in polvere.

Quando vengono piantate le tende per la sosta stagionale, l’accampamento si trasforma in “ città “; viene costituito da una moltitudine di carri disposti in cerchio su parecchie file; le tende vengono fissate al suolo ed orientate verso il Sud, quelle del capo  e delle sue donne, in disparte dalle altre,compongono un palazzo rudimentale al quale sono ammessi ai numerosi servi e schiavi, una mandria e dei pascoli particolari. Sempre all’erta per proteggersi contro le bestie feroci e le tribù vicine, questi ardimentosi guerrieri spiano i movimenti del nemico, di cui scoprono l’avvicinarsi al comparire di una nuvola di polvere all’orizzonte e ponendo l’orecchio al suolo, alla maniera degli Indiani. Raccolti attorno al vessillo di guerra, che essi venerano con un culto particolare e che li segue in tutti i combattimenti, essi sono dei cavalieri ammirevoli che fanno corpo unico con le loro cavalcature, delle quali hanno la massima cura, alle quali, servendosi della frusta, sanno richiedere il massimo sforzo. Il cavallo è il compagno dell’uomo, ed i racconti Mongoli, gli conferiscono una vera personalità. Coperti, sul piede di guerra, di una armature di cuoio bollito, essi si scagliano come fulmini sul nemico, non risparmiando la vita umana. Essi sono dei formidabili arcieri, i “ migliori che si conoscono al mondo “, secondo Marco Polo. Le loro truppe, perdute nell’immensità del deserto, sono capaci di una resistenza  inaudita, accontentandosi di latte di giumenta, che essi ingeriscono da otri sospesi alla sella, di bacche selvatiche e della selvaggina abbattuta per caso lungo il percorso, dormendo e vegliando a cavallo, coprendo immense distanze a briglia sciolta. Se mancano i viveri, essi possono sussistere per dieci giorni succhiando il sangue dei loro cavalli, dopo averne forata una vena, colmata poi con della stoppa. In caso di attacco fulmineo, essi si barricano dietro i loro carri dissimulati tra i cespugli o si danno alla fuga continuando a scoccare delle frecce, perché sanno rigirarsi verso la groppa del loro cavallo lanciato al galoppo; tattica questa, già usata dagli Sciti e dai Parti.  I  prigionieri vengono sottoposti a supplizi efferati, solo quelli che essi ritengono degni di particolare considerazione hanno diritto alla morte per soffocamento, senza spargimento di sangue, perché essi credono che l’anima risieda nel sangue. Ladri, saccheggiatori e briganti come tutti i nomadi, essi praticano tra loro vendette inespiabili, sterminando senza rimorso intere famiglie, impadronendosi del bestiame, bruciando inesorabilmente i pascoli dei clan sconfitti.  Come per la selvaggina uccisa nella caccia, il bottino di guerra viene diviso tra i capi, gli ufficiali ed i guerrieri. Essi pertanto sono soggetti alla gerarchia. In seno alle tribù del clan la gerarchia ne è l’elemento base, raggruppando le famiglie che discendono da uno stesso capostipite e tutti i membri dei quali si considerano apparentati. E’ proibito prendere in moglie una donna appartenente allo stesso clan, per cui sono costretti a cercare la sposa in clan con i quali non hanno nessun antenato in comune. Tra i Mongoli nomadi, la società si compone di quattro classi, divise gradualmente: l’aristocrazia al potere, gli uomini liberi o guerrieri, gli uomini del volgo, gli schiavi ai quali si riallacciano in certa misura i domestici e gli artigiani. Dal momento in cui Genghiz-Khan venne innalzato alla dignità di Khan supremo, la gerarchia sociale si consolidò, assumendo nello stesso  tempo un aspetto feudale. Così l’Impero divenne “ l’ulus “ Mongolo, il “ Popolo – Stato “, e cosi pure il patrimonio del clan Imperiale. Gli uomini appartenenti a detto clan, sono diventati Principi Imperiali a cui spetta il compito di eleggere il Khan supremo e nessuno estraneo al loro rango, può essere designato come successore all’Imperatore. Essi diventano i grandi vassalli dell’Impero, assoggettandosi , al momento dell’investitura, ad una specie di omaggio che li costringe a prosternarsi per nove volte con la fronte al suolo. Agli stessi vengono concessi vesti territori, chiamati  “qubi”, per i quali non si tiene conto di alcun raggruppamento geografico, perché, secondo la mentalità nomade, l’Impero rimane indiviso. A loro volta, i servi fedeli ed i compagni dell’Imperatore, gli aristocratici ed i guerrieri che fanno parte della corte dei Principi Imperiali, ricevono pure in dotazione dei feudi, un certo numero di nuclei familiari con i loro territori, e se la concessione  si estende, essa può formare un “ulus”. I titolari di questi benefici risiedono in mezzo alla loro gente, ma continuano a servire il loro capo. Essi dispongono di pieni poteri sui loro amministrati, dispensano la giustizia, spartiscono i pascoli, hanno il comando ereditario delle truppe, divise secondo l’importanza in gruppi di cento, di mille uomini fino a diecimila, hanno diritto al posto migliore  durante le battute, si attribuiscono i più bei capi di selvaggina, riscuotono le tasse ed impongono “ courves” alle famiglie dei loro dipendenti. In cambio essi sono soggetti in vasta misura all’Imperatore ed al loro Signore, non potendo per nessuna ragione abbandonare il servizio e tanto meno alienare il feudo, del quale il loro Signore può spogliarli per assegnarlo ad altri e può privarli, senza possibilità  di ricorso del loro comando militare. La loro qualità è decretata ufficialmente da una lettera di investitura, da certi titoli onorifici, come quello di “porta feretra”, decretato da Genghiz- Khan e da tavolette, delle quali Marco Polo ci spiega la gradazione: una signoria di 100 uomini, cioè che può fornire un contingente di 100 soldati, da diritto ad una tavoletta d’oro o d’argento dorato, per 1000 uomini essa sempre d’oro, decorata inoltre di una testa di leone. Sulla stessa, una iscrizione incisa vi benedice il Khan supremo a profusione, delle imprecazioni contro coloro che lo disobbediranno. Tutti i possessori di tavolette, hanno diritto al parasole durante i loro spostamenti, a un trono d’argento quando tengono udienza. I più alti in grado possono disporre di cavalli di posta senza un ordine espresso da parte dell’Imperatore. Beneficiano pure di generose donazioni Imperiali; stoviglie di argento, gioielli, pietre preziose, cavalli, vestimenta ed altro. L’avvento di Genghiz- Khan al trono non muta nulla all’apparenza, circa le antiche procedure Mongole per la designazione del capo da parte del consiglio del clan, senza passaggio ereditario del potere. Divenuto “quriltai Imperiale”, il clan del conquistatore, elegge l’Imperatore che non può venir scelto al di fuori di esso. Quindi l’ereditarietà si impone, dato che l’Imperatore designa nel testamento il suo successore nel minore dei suoi figli, secondo la tradizione degli accampamenti, scelta alla quale il “quriltai” generalmente si adegua.. In tale occasione, l’assemblea del clan assume una particolare solennità, della quale il monaco italiano Giovanni di Pian del Carpine, ha potuto ammirare l’ordinamento del 1246, nella designazione di Cuyuk, durante la quale egli ha potuto assistere che mentre nell’interno del padiglione Imperiale si procedeva alla deliberazione, i grandi ed i dignitari si radunavano nell’interno della cinta del palazzo, mentre al di fuori di essa, l’esercito, raccolto intorno ai loro stendardi ed una folla incalcolabile di persone attendevano l’evento. Non appena veniva raggiunto l’accordo, i membri del clan compiono i rituali gesti che si tramandano di generazione in generazione e che accompagna tutte le solennità civili e religiose: si tolgono il berretto, si sfibbiano la cintura che gettano sulle spalle, installano il Sovrano sul trono dorato che rimpiazza l’antico tappeto di feltro e lo salutano con il suo nuovo titolo. Poi gli rendono omaggio, prosternandosi nove volte fino a terra, gesto rispettato dall’intera folla di coloro che aspettano fuori. Dopo giuramenti solenni e sacrifici di animali ( stalloni e giumente ), il Sovrano inaugura il suo regno con la distribuzione di titoli, cariche ed onori ai migliori servitori dell’Impero.

Prima che Genghiz- Khan avesse organizzato un esercito Imperiale, la guerra tra i Mongoli era fatta dal popolo in armi con l’ausilio di soldati mercenari. Gli uomini del clan, ripartiti tra corpi di battaglia e corpi ausiliari, sotto la direzione dei rispettivi capi  e con l’aggiunta  di un corpo scelto che poteva raggiungere un migliaio di persone, che stava a protezione del capo assoluto, andavano a combattere. Genghiz- Khan all’inizio si circondò di un corpo di guardia modesto, soltanto settanta uomini, pur assumendo il comando supremo di tutto l’esercito Mongolo. Poi, con l’estendersi dell’Impero, con il moltiplicarsi delle conquiste, condotte in territori molto distanti, si impose una organizzazione più salda. Così la guardia Imperiale venne portata a 10.000 (diecimila) uomini, reclutati tra i figli dei signori e, gli uomini liberi famosi per il loro valore, mentre ai fini del reclutamento, tutta la popolazione maschile, venne divisa in gruppi di dieci, cento e mille uomini. Per i volontari che aspiravano a prestare servizio nella guardia Imperiale, essi venivano scelti dal gran Khan in persona in ragione delle loro qualità fisiche e del loro ardimento. Questi volontari venivano forniti dai vassalli: un fratello e dieci uomini per il Signore dei mille uomini (chiliarca); un fratello e cinque uomini per il Signore di cento uomini, un fratello e tre uomini per il Signore di dieci uomini; ognuno di questi gruppi, doveva fornire in più i cavalli, l’equipaggiamento bellico ed i finimenti del suo contingente. A questo corpo scelto, i cui mille uomini migliori formavano durante la battaglia l’avanguardia dell’esercito, spettavano in pace ed in guerra gli obblighi più rigorosi. Essi si suddividevano in mille guardie di notte, mille “porta feretre”,  mentre il resto comprendeva guardie di giorno, guardie della mensa, guardie della tenda e scudieri di scuderia. Prestavano servizio per tre giorni e tre notti consecutivi. Nessuno poteva avere l’accesso alla tenda Imperiale senza essere accompagnato dagli uomini della guardia ed avevano l’obbligo di arrestare qualsiasi persona che tentava di avvicinarsi. Vigeva fra le truppe incaricate, una forte disciplina, ma al contempo venivano compensati da forti privilegi. Si pensi che una semplice guardia aveva la precedenza su un chiliarca, cioè su un comandante di 10.000 uomini, ed in caso di contesa, era sempre questo ultimo che veniva punito. In uno Stato prettamente militare e nomade, tutte le cure del governo erano rivolte all’esercito ed alla guerra. Per cui le fonti letterarie sono piene di consigli e di avvertimenti diretti ai soldati, dei quali rivelano i metodi al combattimento. Vi si insiste sulla manutenzione dei tamburo, delle lance, sulla custodia degli stendardi, sulla sicurezza dei carri e delle tende. Si sottolinea la necessità di economizzare i viveri durante la campagna, di provvedere soltanto a quello che è indispensabile all’approvvigionamento delle truppe, di non partire con dei cavalli smagriti e perciò incapaci di arrampicarsi sulle montagne e di attraversare i grandi fiumi, di evitare di portare al seguito quei finimenti dei cavalli che risulterebbero ingombranti o pesanti ed altri accorgimenti che potessero alleviare la fatica alle cavalcature. Poi passa alla descrizione della partenza per la guerra che viene decisa dall’Imperatore su consiglio degli astrologi. Due giorni prima, essa è preceduta da qualche centinaio di cavalieri inviati in perlustrazione. Hanno un equipaggiamento molto leggero, in quanto ogni uomo, porta con se appesi alla sella due otri pieni di latte di giumenta fermentato ed un vaso di terra per la cottura della selvaggina che si potrà abbattere lungo il percorso, più una piccola tenda individuale per proteggersi dalla pioggia. Tutto è dunque previsto per assicurare la maggiore rapidità di movimento dell’esercito, in quanto è proprio la celerità del movimento a costituire la superiorità dei Mongoli sui loro avversari, che provoca una rivoluzione dell’arte della guerra, uguale a quella che nell’Alto Medioevo aveva dato la preponderanza ai pesanti squadroni di cavalieri, tanto in Occidente che nel vicino Oriente. Ed è proprio sulla rapidità dei loro attacchi di sorpresa che il nemico si trovava disorientato, credendo di essere attaccato non da pochi uomini, quali essi erano, ma da innumerevoli nemici. Poi con il trascorrere del tempo, anche i Mongoli si abituarono ai metodi di guerra dei loro avversari e che abbiano accettato la battaglia tra i due eserciti schierati. Passarono quindi al comune modo di guerreggiare  e così si ebbe il Khan che dall’alto di una altura sorveglia i movimenti degli eserciti. Egli divide le sue forze in tre corpi. Il più ridotto è posto sotto il suo personale comando ed è composto dai soldati più resistenti e valorosi che occupa il centro. Gli altri due corpi  si dispongono l’uno a destra e l’altro a sinistra dello schieramento. Prima del combattimento, i combattenti cantano e  suonano uno strumento a due corde molto gradevole all’udito, come riferisce nelle sue Storie, Marco Polo. Combattevano dal levare del sole sino al calar della notte ed adottavano delle macchine belliche simili a delle bertesche, costruite in legno e trasportate a dorso di elefante. Sembra che tali congegni di guerra siano stati introdotti da ingegneri Musulmani venuti dalla Mesopotania. Poiché le loro conquiste li misero in contatto con uomini molto più civilizzati ed i cui  insegnanti ebbero talvolta la saggezza di ascoltare, così Genghiz- Khan nel 1204, incontrò uno scriba Turco, che parlava e scriveva lo “Uigur” e che era alle dipendenze del capo dei Naimati, fatto prigioniero con il sigillo del suo padrone, egli venne ingaggiato da Genghiz-Khan e da quel giorno i suoi atti ufficiali vennero redatti in “ Turco Uigur “. Egli ebbe pure l’incarico di istruire i figli dell’Imperatore e di insegnare loro a scrivere in questa scrittura “ Uigur” che derivata essa stessa dal Siriano, doveva originare i caratteri Mongoli.

Sembra che Genghiz-Khan fosse interessato al Taoismo, in ragione dei poteri soprannaturali attribuiti ai suoi monaci e che egli assimilava ad una forma superiore di Sciamanismo. Egli fece venire nel suo campo un celebre monaco dello Ho-pei, Kim Tah’ang-teh’nen, dal quale sperava di ottenere la ricetta della droga dell’immortalità. Partito nel marzo del 1221, il vecchio monaco, costretto per l’insicurezza delle strade ad una lunga deviazione, poté raggiungere soltanto il 15 maggio 1222, l’Ordos Imperiale, insediato allora in paese Afgano e, vi rimase circa un anno. Dalla relazione redatta dal suo compagno di viaggio, appare interessante, per la conoscenza dei paesi attraversati, ma non nasconde il fallimento della missione religiosa. Genghiz-Khan  deluso di non trovare nel suo ospite il taumaturgo capace di assicurargli l’immortalità, ascoltò con cortesia il saggio monaco, fece finta di seguire il suo insegnamento e, con un decreto provvisto del sigillo Imperiale, sancì l’esenzione delle imposte di tutti i maestri Taoisti. Successivamente alla morte di Genghiz-Khan i suoi successori adottarono a religione di Stato il Cristianesimo Nestoriano.

La sorprendente avventura Mongola, culminata nella creazione di un immenso Impero Asiatico, conteneva però nel suo seno,gli stessi germi del suo disfacimento. Una volta che il regime della conquista si era dimostrato anacronistico, era stato necessario organizzare ed amministrare l’intero territorio. Però, rimaneva troppo grande lo squilibrio tra il vivere barbaro dei Mongoli e la raffinatezza dei popoli sedentari conquistati e che essi pretendevano di dirigere. La struttura feudale instaurata, non riuscì a porre un freno alle barbarie  ed alla profonda anarchia dei Mongoli, in quanto essa scavò una netta scissione in seno al popolo Mongolo, tra i grandi Signori facoltosi, inebriati di potenza e di lusso, ed i guerrieri nomadi rimasti con la loro miseria nella steppa. Così, gli ultimi rappresentanti energici della dinastia Gengiscanide, Qubilai e suo nipote Timur ( 1294-1307 ) ebbero più un carattere di Imperatori Cinesi che di Khan Mongoli. Ed immediatamente le turbolenze dei Mongoli della Mongolia, privati dai profitti del potere, fecero sentire  i propri effetti, cosi avvenne che una vasta regione dell’Alta Asia, il Khanato di Persia, fondato da Qaidu. si distaccò praticamente dall’Impero e ciò formò uno schermo tra la Cina, alla quale era limitata l’autorità del gran Khan e la Persia, dove continuava a sussistere la casata di Hulugu. Questo costituì un fattore essenziale dello smembramento. Altro fenomeno della rapida  Iranizzazione del predetto Khanato, fu la crescente maggioranza degli elementi Turchi nei domini Occidentali dell’Impero Gemgiscanide  che riuscì a cancellare nel corso di qualche generazione, se non il nome Mongolo, ma la sua originarietà.

E’ essenziale ricordare che il crollo rapido e repentino della dominazione Mongola in Cina, venne facilitata tanto dalla debolezza degli ultimi Imperatori, dei degenerati in balia ai loro favoriti e dal risveglio del Nazionalismo Cinese. Questo ultimo movimento nato in seno a società segrete, il cui sviluppo fu favorito dalla tolleranza religiosa dimostrata da Genghiz-Khan e dai suoi discendenti, estesa tanto alle religioni ufficiali che alle sette, perseguitata in passato dai Song, fra le quali quella del “ Loto Bianco “,  che in un primo tempo era alleata al regime Mongolo, successivamente, quando l’anarchia nel paese divenne generale, diede un tale vigore alla causa del movimento rivoluzionario che dalla regione di Canton, nel 1352, si propagò ben presto per tutta la Cina del Sud. Così, uno dei capibanda, l’ex monaco Bonzo Tehu Yuan-tehang, si mise alla testa del movimento di liberazione e divenuto padrone della Cina del Sud, si impadronì nel 1368 di Pechino, massacrando senza pietà tutti i Mongoli che erano rimasti e che non avevano seguito il loro Imperatore nella sua fuga verso le steppe avite.

La rivoluzione nazionale aveva così liberato la Cina, da più di un secolo di giogo Mongolo. Ma cosa restava della grande avventura Mongola intrapresa più di un secolo prima da Genghiz-Khan? Restava solo una traccia, restavano solo dei ricordi, maledetti dalla nuova Cina, ma nei nostri musei si conservano tuttora gli ammirevoli disegni di cavalieri e di animali, frutti di un breve periodo di vita vissuta assieme tra la grazia Cinese ed il realismo Mongolo. Nell’Asia Occidentale, il ricordo dell’epopea Gengiscanide doveva perpetuarsi per un tempo più lungo e sotto un aspetto più glorioso. Sintomatico è il fatto che il Turcomanno Timur-Lenk, il nostro Tamerlano, secoli dopo la morte di Genghiz-Khan, poco dopo l’ascesa al potere  in Cina della dinastia Ming, avrebbe lanciato i suoi guerrieri compatrioti di Transoxania all’assalto di tutto il vicino Oriente, lo si potrà vedere farsi parte di una pretesa discendenza Mongola, proclamandosi il continuatore ed il restauratore dell’opera di Genghiz-Khan.

Come tutte le epopee, anche quella di Genghiz-Khan, ebbe un inizio ed una fine, come tutte le cose di questo nostro mondo, circondata come le altre da un alone di gloria e di mistero, ma che rimane per l’umanità, al pari di una stella luminosa, che brilla e brillerà per l’eternità nella nostra volta del cielo, in quanto oltre ad attribuirgli il merito di essere stato capace di unificare in un solo popolo, numerose tribù e clan di pastori, disseminate nelle vaste steppe dell’Euroasia, portandole alla conquista di immensi territori, egli fu anche uno dei tanti precursori di quella politica di integrazione dei popoli di diversa origine, tanto auspicata oggi giorno.

Brindisi, 5 dicembre 2011.

 

Antonio TRONO