Pellegrinaggio 27 aprile 2011

    Giovedì 7 aprile, siamo stati in casa di Teresa Brandi, una signora dallo spirito ancora giovane, che porta benissimo i suoi 89 anni.

Teresa nasconde, per un senso di umiltà, di essere stata tra il 1963 e il 1978 ed oltre, “la prima donna di Jaddico”.

Scherzosamente la chiamavano così, perchè aveva una limpida voce da soprano che durante la Messa, a Jaddico, incantava l'assemblea. Mi dicono che Teresa si commuoveva sino al pianto, quando cantava l'Ave Maria.

All'armonio il maestro Raffaele Marzo, accompagnato anche dalle voci di Consiglia Picoco, Pierina Calasso, Anna Brandi, e Antonia Lamarina.

A sinistra: Teresa Brandi, Consiglia Picoco, Anna Brandi, Aida Gaito (moglie di Mario Consales), di spalle Antonio Consales, il maestro Raffaele Marzo, Giuseppina Cassano (moglie di Teodoro D'Amici).
A sinistra: Teresa Brandi, Consiglia Picoco, Anna Brandi, Aida Gaito (moglie di Mario Consales), di spalle Antonio Consales, il maestro Raffaele Marzo, Giuseppina Cassano (moglie di Teodoro D'Amici).

Periodicamente, come ormai da tanto facciamo, andiamo a trovare Teresa nella sua casa, per farle compagnia, alleviare la sua solitudine e i mali fisici, recitare insieme il rosario.

     Con una punta di orgoglio ci ha detto che il mattino di quella giornata era uscita sul pianerottolo di casa, e aveva percorso i cinque scalini che la separavano dal portone, e poi daccapo gli stessi cinque per salire e rientrare in casa.

“Devo muovermi”, ci ha detto, “per abituare di nuovo le mie gambe a camminare, voglio andare in chiesa.” Ma alla fine del rosario, proprio quando dedicava le ultimissime preghiere all'intera umanità, è scoppiata in un pianto dirotto. Pregava e piangeva, e non si fermava, e continuava a pregare e durante quel pianto, a voce alta, tra i singhiozi, in nostra presenza, si rivolgeva al Signore, per raccontarGli e raccomandare a Lui questa umanità, dilaniata da molte brutture, e dalla malvagità.

“Dio mio, dove sei?”, Gli chiedeva, “io non ho più figli (è vero, un male inguaribile glieli ha tolti tutti e due in soli sei mesi), ma questi ragazzi che si muovono in questa società, in questo rione, in queste strade, che futuro avranno?”, e così, mentre pronunciava queste parole, io cercavo di capire cosa il Signore stesse facendo lassù, e mi dicevo che, quando accendo il televisore, proprio mentre l’audio precede il video, già ascolto le notizie di questi giorni: Giappone: ventimila dispersi. - Centrali: rischio sempre altissimo - Libia: i rivoltosi avanzano verso Sirte – Raid su Tripoli: piovono bombe e appelli – Migranti: il mare se li prende, e noi?

L'elenco è lungo, lunghissimo, non finisce quì.

Soffiano venti di guerra, ma fino a quando?

     Se di venti si parla, mi illudo di sentir parlare di quel vento gagliardo, accompagnato da lingue di fuoco, che è preludio al dialogo, alla comunione tra gli uomini, e poiché io per primo mi lamento che sono sempre le notizie di violenza a prevalere nel telegiornale e nelle informazioni, ecco che la mia mente si sforza di far affiorare una memoria quasi antica, su una breve conversazione fatta con Pino, un mio amico.

Tutti quei ricordi scorrono veloci, e allora decido. Nella stessa giornata lo chiamo al telefono per chiedergli se posso incontrarlo.

Finalmente, quando sono a casa sua, gli chiedo di ripetermi quanto lui stesso mi aveva raccontato anni prima, perchè attraverso quel racconto, anche io vorrei sperare di poter iniziare a cambiare le regole, e fare in modo che la gente possa capire che esistono anche le notizie buone, che purtroppo non vengono raccontate durante un telegiornale, che Dio segue da lassù con animo trepidante la storia degli uomini, che esistono situazioni dove anche il Bene trionfa. E, quando del bene si parla, si può anche piangere, come è successo a Teresa, ma di gioia, perchè ci possono essere episodi di vita vissuta dove la fraternità emerge e si fa presente. Episodi come quello che vi propongo, dove possiamo toccare con mano la presenza del Signore.

 

Questa la storia vissuta in guerra dal mio amico Pino, anzi dal mio amico Giuseppe Donativo. Ve la propongo:

 

 

Babushka (nonna) possiamo entrare nella tua casa?

 

     -   Hai fatto la guerra?, ho chiesto a Pino. In Russia?

     - Si, e ho incontrato un soldato nemico che mi ha dato da mangiare.

     - Ma, quando vi siete visti, avete avuto paura uno dell’altro?

     - No, no, aspetta, partiamo dall'inizio.

Noi ci trovavamo a Yalta, in Crimea, che era la base del nostro comando dei mezzi veloci siluranti, quelli che andavano sotto il nome di MAS (Motoscafi d'attacco/armati siluranti). Quella era la base del nostro gruppo d'assalto.

     Dovemmo lasciare quella città: la sorte avversa ci aveva messo in condizione di rientrare. Prendemmo il treno diretto verso il nord ovest del Paese. Lungo il tragitto spesso trovavamo i binari interrotti, perché alcuni partigiani li toglievano per bloccare la corsa dei convogli.

Per poter proseguire, eravamo costretti a togliere i binari posti dietro il treno e spostarli avanti, ma sempre col timore che qualche cecchino potesse spararci addosso. Abbiamo usato anche mezzi di fortuna per proseguire il viaggio, ed anche a piedi, fino a raggiungere un posto di accoglienza che ci facesse sentire al sicuro, perchè protetti dalle nostre forze.

   -   Quanti anni avevi”, ho chiesto a Pino, “durante questa esperienza fatta in Russia?”

   -   In quel 1943 avevo diciannove anni.

Con me c'erano altri marinai italiani, eravamo disperati, stanchi e privi di ogni riferimento, dispersi. Eravamo stremati, avevamo fame.

Alzai gli occhi al cielo per chiedere aiuto al Signore e la risposta mi venne la sera di quello stesso giorno.

Era una sera così fredda, che di notte non era consigliabile dormire, per non correre il rischio di morire assiderati.

In lontananza vidi un lumicino che proveniva da una casupola di campagna, sistemata in una di quelle lande desolate, amplissime e sperdute.

La rangiungemmo, e dopo aver bussato, si affacciò una vecchia donna, una babushka che ha chiesto: “Chi è?”

Ed io risposi: “Babushka mozhet priĭti v vash dom?”, che vuol dire: ”Nonna, possiamo entrare nella tua casa?”

La nonna esordì con queste parole: “Bozhe moi, Bozhe moi”, che vuoi dire: “Dio mio, Dio mio”, “bednye mal'chiki”, che vuol dire: “Poveri ragazzi”, e in quel momento, dall'interno sentimmo arrivare una voce tuonante: “Chi èèè?”

Quando l'uscio si aprì comparvero due soldati russi ben incappottati: uno era giovane, l'altro aveva circa cinquant’anni ed aveva i baffi.

Il soldato giovane subito mi puntò il mitra sul petto, l'altro, invece, volle subito sapere se fossimo tedeschi o italiani, perché dalle divise militari che indossavamo, ormai logore e sgualcite, non si capiva. Con la sua mano cercò le mie mostrine, all'interno del bavero del cappotto, ed io gli dissi che eravamo marinai italiani. A quel punto quell'anziano soldato mise la sua mano sulla canna del mitra, spingendola verso il basso, e disse al suo giovane compagno: “ Chto vy delaete?, eti deti Bozh'i, rassyeyany kak my", che vuol dire: “Cosa fai?, anche questi sono figli di Dio, dispersi come noi”, e rivolgendosi a noi: “Entrate, italiani sono bravi ragazzi!”

Aveva una voce robusta, austera, incuteva timore, rispetto.

     Al centro di quella stanza, scaldata dal fuoco di un caminetto, sulla tavola, c'era un piatto con un bel pezzo di polenta. Era fredda quella polenta, ma era sempre un bel pezzo, perchè la fame la faceva apparire tale. Aveva la forma di un pezzo di pane, era tonda.

Ci sedemmo. Quel vecchio prese il suo pugnale, e con un solo colpo secco la spaccò, la infilzò e la mise sulla fiamma del camino.

Non c'era legna nel camino, sarebbe stato un lusso. La fiamma era alimentata dallo sterco secco delle vacche, ultimo residuo dell’antico benessere.

La polenta si affumicò, non importava se puzzava a causa di quel fumo. La mangiammo tutta anche se era dura come la pietra, perché la fame, che avevamo addosso, ci diceva che era buona.

A questo punto ho di nuovo interrotto Pino e gli ho chiesto: “Ma della babushka non me ne hai più parlato!”

- Era una brava donna, se ne stava rannicchiata in un angolo della stanza della sua casa. La sofferenza della guerra l'avevano resa taciturna, ogni tanto si muoveva intorno a noi per riordinare e pulire.

Intanto la stanchezza accumulata si faceva sentire sempre più insistente, e gli occhi erano diventati pesanti, avevamo necessità di dormire, era stata una lunga giornata.

Ci portarono nella stalla dove trovammo sterco, paglia, ramaglie verdi come giaciglio. Non c'erano animali: a quel tempo la fame li faceva scomparire. Ci addormentammo e dormimmo fino al mattino presto quando il vecchio venne, e col calcio del fulice ci toccò sul braccio e ci svegliò.

Andammo nella casa e ci chiese se volevamo ripartire.

“Conoscete la geografia?, chi di voi si sa orientare?", chiese.

Il II capo Giuseppe Donativo, con il suo papà Cosimo a Piazza Vittoria. Foto scattata nell'anno 1945, a conclusione della fase bellica.
Il II capo Giuseppe Donativo, con il suo papà Cosimo a Piazza Vittoria. Foto scattata nell'anno 1945, a conclusione della fase bellica.

Quando risposi in maniera affermativa, ci indicò la direzione.

“Ogni mattina dovete tenere la luce sempre alle spalle, (si, perchè il sole lì si vedeva raramente), andate avanti così fino a trovare altre case, altre persone a cui chiedere."

Prima di andar via, ci abbracciammo. Ai nostri occhi, quel vecchio soldato aveva assunto i tratti di una figura paterna. Abbracciammo anche il giovane e la babushka.

 Non portavamo armi con noi. Non avevo nemmeno più la pistola che per qualche tempo avevo portato con me per difenderci dai lupi. Inoltre era pericoloso avere un'arma addosso, perché, se fossimo stati fatti prigionieri, avremmo potuto essere fucilati.

   C'eravamo già incamminati quando lui ci chiamò.

“Dove andate?”

Ci fece fermare, e ci disse di toglierci le scarpe. Al solo pensiero c'era da rabbrividire. Non sapevamo cosa avesse in mente.

Quell'uomo andò nella stalla, e, dopo aver scavato con un attrezzo nel letamaio, prese dello sterco e lo mise nelle nostre scarpe, ce le fece calzare, e poi ci consigliò di avvolgerle con degli stracci, che abbiamo bloccato alle caviglie con del filo di ferro.

“Adesso potete andare”, ci disse.

     Lungo il percorso le persone che incrociavamo ci aiutavano, ci davano un po' di pane o qualsiasi cosa potessimo mettere sotto i denti, fino ad arrivare così nella zona dove avremmo trovato le forze alleate.

 

     Spesso, continua Pino senza nascondere l'emozione di quei ricordi, nonostante siano passati tanti, tantissimi anni, penso a quell'uomo, e mi chiedo se sia ancora vivo. Forse sarà già nell'altra vita, e poi ancora mi dice: “Ce l'ho nelle mie preghiere.”

 

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E adesso, cara Teresa Brandi, questa è la storia dove due nemici si scoprono fratelli. Tutto questo in nome di quel comune Dio che unisce e non divide. Ed ora, cara Teresa, anche io assieme a te vorrei piangere come hai fatto tu, ma per la gioia.

 

                                                                                                                                     u.p.

 

 

 

 

Lo scorso mese abbiamo parlato degli albanesi arrivati a Brindisi venti anni fa, lo facciamo anche questo mese, attraverso le parole di Pino Donativo, il quale assieme alla moglie Cristina ci offre un esempio tangibile di concretezza dell'amore.

 

 

 

     Nasceva l'alba del 6 marzo 1991, un giorno come tanti in Brindisi; la città si svegliò scoprendo le strade invase da una valanga umana di creature stanche, allucinate e smarrite, come perdute nel vuoto: erano albanesi.

     Se ne contarono 25.000 circa in quel periodo.

   Quel giorno, i brindisini lessero nell'evento ciò che descrive la parabola del Signore che indica gli affamati, gli ignudi e gli assetati; e risposero generosamente alla prova evangelica, illuminando se stessi e testimoniando al mondo intero il senso dell'amore e della solidarietà.

     Fra i tanti derelitti e senza meta, una coppia di giovani, Mimosa (24 anni) e Alfredo (26 anni), mano nella mano, stretti e intimiditi, cercavano con occhi supplici uno sguardo amico.

     Incontrarono quello di Pino e Cristina e fu per loro come una carezza; invitati, andarono con loro e si ritrovarono in famiglia.

     Pian piano ripresero a sorridere, ritrovando la loro dignità offesa e ringraziando ripetutamente quel Dio oscurato e sconosciuto che avevano riscoperto ai piedi della grande croce nella cappella della parrocchia S. Vito.

     Mai, come in quella occasione, Pino e Cristina ebbero tanti commossi abbracci e videro allo stesso tempo lacrime e sorrisi insieme.

     Scattò allora l'idea dell'adozione morale e così Cristina propose di ospitarli in una casetta al proprio paese natale (territorio di Gallipoli), e lì furono alloggiati.

     Oggi sono una famiglia serena allietata dalla nascita di Gaspar Giuseppe, che hanno voluto battezzare fra le braccia di papà Pino e mamma Cristina.

     Alfredo lavora, Mimosa cura la casa e fa la mamma: hanno ripreso i contatti con le loro famiglie e spesso vanno a visitarle in Tirana, portando laggiù note di speranza tangibili e consegnando anche la speranza di tempi migliori.

     Questa esperienza che Pino e Cristina continuano a vivere con vera gioia, la offrono come testimonianza della “concretezza dell'amore” come segno del disegno di Dio a cui rinnovano la commossa gratitudine perchè i figli che sono loro mancati, glieli ha mandati dall'altra sponda del mare, da un paese lontano, per sentirsi chiamare ora: Mamma e Papà.

     Gaspar compie un anno, prova i primi passi, e qualche volta balbetta: Nonna !! Mamma!!  

Al fratellino Gaspar Giuseppe si è accompagnata Cristina la nuova nata.

Appena arrivati in Italia, Alfredo era di religione ortodossa, e lei musulmana. Ora sono una famiglia praticante, bene inserite in parrocchia che partecipa regolarmente alla Messa.

 

Questa la testimonianza di Pino e Cristina Donativo - Brindisi

In basso il file audio della testimonianza

 

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