Pellegrinaggio al Santuario di Jaddico - 27 Maggio 2011

 

 

“Sono stato mandato”, mi disse.

Il suo nome era Dario Amodio

 

 

     Dall’altra parte del telefono mi giunge la voce di un amico che mi chiama dalla biblioteca provinciale, perché è in compagnia di una persona, il cui nome è Dario Amodio, che vorrebbe avere qualche notizia sul Santuario di Jaddico e su Teodoro D’Amici. È un cognome che non ho mai sentito, mi dico, e quando me lo passa al telefono, decidiamo di vederci la sera del giorno successivo a casa di mia madre.

     Sapevo che l'incontro fatto alla presenza di mia madre non avrebbe potuto che fare piacere al signor Dario, poiché sull'argomento avrebbe sentito direttamente la moglie di Teodoro, inoltre in questo modo avrei accontentato questa persona e al tempo stesso alla fine di una giornata di lavoro sarei riuscito a passare da casa di mia madre per poterle chiedere “come stai?”.

     Ci incontrammo alle 18.15, un orario che lui stesso aveva proposto. Pur non conoscendolo, gli diedi subito del tu, del resto faccio così con tutti, conservando però il massimo rispetto per chi mi sta di fronte.

     Dario ci ha subito detto che stava scrivendo un libro con il quale avrebbe presentato il profilo biografico di una dozzina di personaggi brindisini, tra cui compariva anche Teodoro D'Amici. Ma prima ancora di farci qualsiasi domanda ci ha parlato di se stesso, del suo incontro con il Signore, della sua storia, perché, aggiungeva, solo quando si sa con chi si sta parlando, solo allora, si è disposti a parlare di sé.

     Ci raccontava che era stato un non credente e che i primi passi verso Dio li aveva fatti proprio a San Giovanni Rotondo, dove aveva sentito un profumo vivace e delicato, che gli aveva dato motivo di riflettere. Si era trattato di un profumo, inseguendo il quale, si era lasciato condurre dapprima sulla tomba di Padre Pio, e poi fino alla cella del frate. Ma questo era stato solo l’inizio.

     Aveva poi dovuto confrontarsi con tutte le persone con le quali aveva per tanti anni lavorato e alle quali aveva sempre detto che Dio non esiste. Almeno non per lui.

     Portava con sé un libro che lui stesso aveva scritto, al quale aveva dato il titolo di “Il segreto del Re”, nel quale parlava della sua conversione, ma soprattutto di Padre Pio. Quel libro, ci diceva, era stato scelto tra altri cento, ed aveva contribuito alla beatificazione di Padre Pio.

     Quell’uomo ci aveva conquistato, aveva catturato la nostra attenzione, si era reso interessante. Era uno che sapeva parlare, ma sapeva anche scrivere, mi ero detto pensando a papà, e quel libro che aveva in mano e che ci stava lasciando, era la sua garanzia.

     Io rimasi ad ascoltare, parlai pochissimo come sempre preferisco fare, chi parlò sui fatti di Jaddico fu la mamma, che non risparmiò nessun dettaglio. Gli parlò di Teodoro che già da piccolo conosceva quel luogo, e spesso si sedeva su un muretto che stava quasi di fronte all’affresco della Madonna, e da lì La guardava e Le rivolgeva una breve preghiera, e anche dei suoi progetti per quando sarebbe diventato adulto, gli parlò dei sogni di Teodoro e della Luce della Madonna.

     Gli chiedemmo se era nelle sue intenzioni scrivere un libro che parlasse di Jaddico e di quanto vi era accaduto negli anni 1962-63. Lui subito cordialmente ci rispose che una famiglia, legata ad un personaggio inserito in quell’elenco di una dozzina di nomi, un politico brindisino, gli aveva chiesto la stessa cosa, ma aveva risposto che non pensava di scrivere di un solo personaggio, ma voleva legare le sorti di quel libro alla storia di più persone che avevano lasciato un solco nella storia brindisina.

     Quella sera, dopo quella lunga chiacchierata, ci accordammo di rivederci a parlare dell'argomento.

     Dopo quel primo incontro ci siamo tenuti in contatto, anche se in maniera discontinua, finché una sera gli dissi che avrei avuto un impegno non lontano dalla casa di sua cognata, dove lui, come sempre faceva, avrebbe accompagnato la moglie, in piazza Sapri, al rione Santa Chiara. Se voleva, potevamo incontrarci lì, poiché avevo da dargli qualcosa che poteva interessargli.

     Gli portai le fotocopie di 142 pagine di giornali e altro materiale, praticamente un libro, che parlavano di quanto era accaduto a Jaddico.

     Diedi tempo a Dario di poterle leggere, sentivo in lui un interessamento nuovo, diverso. Iniziava a darmi delle idee su come muoversi, su cosa fare, anche se ancora non intendeva calarsi in prima persona in questo impegno.

     Mi fece leggere una testimonianza su Padre Pio, rilasciata da un signore. La lessi a voce alta mentre eravamo nella sua macchina.

     “Ecco, è in questo modo che si raccolgono le testimonianze”, mi disse, giacché per Jaddico erano tanti i testimoni della luce che potevano raccontare la loro esperienza personale.

     Stava maturando l'idea di raccogliere le testimonianze di chi era ancora in vita, e non erano pochi, ma bisognava fare in fretta, perché quelle persone erano ormai avanti negli anni, e dicevo a Dario: “Il Signore li sta tenendo in vita, proprio perché devono testimoniare quanto hanno visto, ma bisogna farlo in fretta, prima che sia troppo tardi.” (Dal momento in cui è stata pronunciata questa frase, ad oggi, sono morti: Cassano Giuseppina, Piscopiello Luigi, Del Sordo Alberto, Prato Natalina, Mele Liliana, Stasi Vittorio, Perchinenna Salvatore, e lo stesso Amodio Dario del quale si parla.)

     Il suo entusiasmo sui fatti di Jaddico cresceva sempre più, finché una sera, quando ci incontrammo, mi fece una domanda precisa:

- “Tu hai visto la luce a Jaddico, eri presente in quel momento?”

- “Si, gli risposi.”

- “E perché non me lo hai detto?”

- “Perché non me lo avevi ancora chiesto, gli risposi.”

     Capivo che tra le carte che gli avevo consegnato, aveva letto la testimonianza di Alberto Del Sordo, dove è riportato anche questo particolare. In quel momento ci trovavamo sul marciapiede di via Carnaro, accanto al muro di cinta della scuola media Giulio Cesare.

     Più di una volta, Dario mi disse che aveva sempre sentito parlare di Jaddico, ma la sua fonte non gli dava motivo di credere che quei fatti fossero realmente accaduti; parecchi anni prima aveva pure visto Teodoro, in chiesa, a Jaddico, ma non aveva sentito la necessità di avvicinarlo; che aveva seguito i fatti di Jaddico, tenendosi sempre lontano, ma adesso c'era qualcosa che lo spingeva ad interessarsi di quanto era accaduto in quel 1962, e di quel muro.

     Nonostante tutto io lo sentivo ancora indagatore, come se, trovandosi adesso davanti ad un fatto compiuto, facesse sue le parole di quell'apostolo: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mano nel suo costato, non crederò.” Del resto, nel suo libro, a pag. 227, a proposito del profumo di Padre Pio che lui in quel momento sentiva, scrive: “Volevo scoprire il mistero”, e ancora “è il profumo di qualche donna che c'è qui intorno alla statua?”, e ancora: “ A me non la si fa!”.

     Ma sempre quello stesso apostolo, come anche Dario, si rivela essere un personaggio generoso, e davanti alla richiesta di Gesù di andare a Betania, da Lazzaro che era morto, lì dove i suoi obiettano: “Rabbi, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”, lui dice: “Andiamo anche noi, a morire con lui”, e Dario se pur tra tante difficoltà, mi dice: “Andiamo nelle case dei testimoni della luce, e raccogliamo le loro testimonianze.”

     Avevamo delle difficoltà da superare e ci sembravano tanto grandi, più grandi di noi. Si voleva iniziare questo lavoro, e sapevamo che non si sarebbe risolto in poco tempo e che prima o poi, tutto questo si sarebbe saputo in giro. E qualcuno avrebbe potuto chiederci: “Ma voi, cosa state facendo?, e chi vi ha autorizzato?”

     Queste erano le paure che frullavano nelle nostre menti.

     Tra tanti dubbi un giorno, mentre stavamo andando a Jaddico, e proprio nel punto in cui si lascia la superstrada per imboccare lo svincolo, poiché Dario mi vedeva particolarmente perplesso, mi disse: “Ma come ti devo dire che io sono stato mandato!”

     Non gli risposi, rimasi in silenzio, ma condividevo quello che mi aveva appena detto.

     Fu lui a suggerirmi con chi avremmo fatto uno dei primissimi incontri, e mi propose di andare da D'amici Salvatore, che io e le mie sorelle chiamiamo “zio Salvatore”, ma che in realtà è il cugino del mio papà.

     Il cognome gli dava ampie garanzie, e inoltre in questo modo poteva calarsi subito nell'argomento.

     Ci andammo: zio Salvatore gli parlò ampiamente di Jaddico e di Teodoro, ma non poté parlargli della luce perché non era stato presente a quelle manifestazioni. Ma era di questo che Dario voleva sentir parlare, per questo motivo fu lui stesso a lasciarmi decidere con chi prendere i successivi appuntamenti e da chi andare.

     La prima persona alla quale pensai, fu Rino Rescio. Ci andammo il 18 febbraio 2003 e il suo fu un racconto minuzioso, in cui con fervore ci diceva come era arrivato a Jaddico e ci dava, nei dettagli, la sua testimonianza della luce.

     Registrammo tutto: avevamo portato con noi due registratori.

Come l’Apostolo Tommaso aveva avuto bisogno di un segno per credere, così anche Dario, da questo momento, per quanto riguardava Jaddico, non era più incredulo ma credente.

     In quella casa, alla presenza di Rino Rescio e di Dario, liberai tutto quello che avevo dentro con un pianto soffocato, ma visibile, perché finalmente qualcuno che non fosse un membro della famiglia poteva dare testimonianza di quanto a Jaddico era realmente accaduto. Finalmente questa storia poteva diventare realtà. Si correva il rischio che lasciando andare le cose così come fino a quel momento, (e per quarant'anni), era accaduto, si perdessero nel tempo e tra cento anni la storia di Jaddico si sarebbe ridotta ad una serie di ricordi sempre più sbiaditi.

     Fu un lavoro incalzante, che per quattro sere di ogni settimana, ci portava nelle case dei testimoni della luce. Io mi sentivo stanco, perchè tutto questo accadeva dopo una giornata di lavoro, e lui mi disse: “Vuoi che ci fermiamo?”, “No”, gli risposi. Non potevo sciupare una occasione così importante, avevo con me la persona che avevo da sempre aspettato, e adesso non era il momento di tirarmi indietro.

     Ma tutto quello che avevamo iniziato a fare era sicuramente una cosa voluta da Dio. I “Servi della Madonna”, da lassù, chissà quanto avevano pregato perché tutto questo accadesse, e così il 27 maggio 2003 il nostro Vescovo, Mons. Rocco Talucci, durante l'omelia, dall'altare di Jaddico, disse: “Io mi permetto in questa occasione di dire a chi, se ancora c'è qualcuno, a chi è più anziano tra voi, chi quarant'anni fa, ha potuto seguire da vicino i fatti di Jaddico, o chi ha conosciuto Teodoro, di lasciare la propria testimonianza ai Padri.”

     Il nostro lavoro continuò per molto tempo benché avessimo pensato di dedicarci solo pochi mesi. Dopo la registrazione era necessario sbobinare: Dario si incaricò di scrivere le testimonianze di ognuno, ma occorreva ritornare dalle stesse persone per chiedere conferma a ciò che era stato trascritto, e poi infine a Jaddico, dove il testimone, alla presenza del Superiore del Santuario, firmava, e con lui anche la firma del Superiore di Jaddico e di due testimoni laici presenti alla lettura.

     In questa ultima fase del lavoro sono stato sempre presente, anzi ho letto personalmente la testimonianza prima che venisse firmata, ma ho preferito non comparire ufficialmente, perché come figlio di Teodoro, non potevo essere garante di quanto veniva scritto, perché di parte.

     Ancora a Dario devo il rosario del sabato notte di cui il Signore lo ha reso strumento. Dopo essersi reso conto che la Madonna a Jaddico aveva chiesto una preghiera notturna, lui mi propose di recitare un rosario assieme, a Jaddico, alla tarda ora. Avrei tanto voluto dirgli di no, mi ero sempre guardato bene dall'arrivare a Jaddico prima della messa delle 18.30, per non correre il rischio di incappare nel Rosario, ma questa parola, questo “no”, non ha mai fatto parte del mio vocabolario, per cui dopo forse un paio di mesi, un sabato sera ci fu quel primo rosario.

     Era il mese di gennaio o febbraio del 2003. E da allora, in maniera spontanea, senza che fosse nelle nostre intenzioni, quel rosario è continuato tutti i sabato notte, dalle 23.00 alle 24.00.

     Ma pensate quanto hanno pregato quei “Servi” perché tutto questo accadesse, e ci fosse continuità con quanto loro avevano iniziato a fare tutte le sere, sotto un cielo stellato.

     Dario è garanzia per tutti, perché, prima di iniziare a usare la sua penna, ha voluto essere certo di quanto accaduto a Jaddico. Il suo non è stato solo un racconto appassionato, ma anche una indagine.

     Tutto questo ci dà due motivi per credere che la Madonna si sia fermata a Jaddico: i testimoni da una parte, e dall'altra chi scrive di loro, perché non ha creduto ciecamente.

     Dario rimase affascinato dalla vivace testimonianza fatta da Carla Codutti, la moglie di Ugo Consales, la quale, alla domanda che lui stesso le fece, da dove provenisse quella luce, rispose che quella luce non partiva dal muro e né raggiungeva il muro, ma che quel muro era diventato un muro di luce. La sostanza chimico-fisica del muro era cambiata, in quel muro non c'era più il tufo, non c'erano più le pietre, e nemmeno la malta e il cemento, ma era “un muro di luce”.

     Del resto, se da quel 1962 ci allontaniamo di altri 45 anni e ci trasferiamo in Portogallo, ci troviamo di fronte tre pastorelli che per sei volte hanno visto una Signora che “era fatta tutta di luce” e che si posava sopra un albero e parlava loro.

     Negli ultimi tempi, finito questo lavoro, le nostre strade si sono separate. Ci siamo visti nella chiesa di Jaddico, finché Ada, una signora nella cui casa andavamo a pregare (perché allettata), mi ha detto che Dario stava male, e che era necessario pregare per lui.

     E appena due mesi più tardi mi arriva una telefonata, con cui vengo a sapere che Dario è morto. Avevo quasi paura di riferirlo alle persone che lo conoscevano, perché non mi sembrava vero e non volevo mettere in giro notizie false. Cercavo di persuadermi che ci fosse stato un errore, continuavo a dirmi che non poteva essere accaduto, ma altre telefonate, compresa quella di Paolo Cesareo, me ne davano conferma.

     Paolo mi disse che Dario stava nella camera mortuaria dell'ospedale Perrino, e che alle 17.00 di quella stessa giornata assieme ad altre persone, sarebbero andati da lui, per salutarlo e per pregare vicino a lui.

     Tante di quelle persone erano cresciute nella fede, perché periodicamente attraverso Dario avevano avuto un momento di preghiera e di riflessione.

     Rimasi addolorato di non aver avuto la possibilità di essere presente a quell'ora, perché poco dopo quell'orario avevamo preghiera nella casa di un ammalato.

     Parlando di tutto questo, qualcuno, alla mia domanda, mi rispose che la sala mortuaria la avrei trovata aperta già dalle 7.00 del mattino successivo.

     Quella informazione era esatta e alle 7.10 del mattino io ero lì, in quella sala mortuaria. Fuori due persone parlavano tra di loro, ma dentro non c’era nessuno.

     Avevo già visto in giro i necrologi, e, se pure entrando lì non lo avessi trovato, non sarei rimasto sorpreso, perché rifiutavo di saperlo morto. Invece Dario era lì, con due corone fra le mani, e io desideravo che fosse in Paradiso.

     Un mio amico leccese, pochi anni fa, mi aveva insegnato una cosa semplice, che da subito avevo messo in pratica, per cui, stando lì, davanti a lui, e, poggiando la mia mano sulla sua, gli ho detto: “Io non ho nulla da perdonarti, ma, se avessi qualcosa da perdonarti, allora io ti perdono, perché voglio che la tua anima possa raggiungere al più presto il Paradiso. Il passaggio per il Paradiso è attraverso il Purgatorio, ma tu, come tutti coloro che hanno vissuto su questa terra, lo hai già fatto, e questo basta.”

     Per un breve tempo durante quella preghiera, sono stato in ginocchio davanti a lui, perché era un'anima santa. Dovevamo stare soli, e parlarci da soli, forse per questo motivo un impegno mi ha impedito di andare il giorno prima, quando gli altri si sono messi in preghiera intorno a lui.

     Quel pomeriggio, alla chiesa dell'Ave Maria Stella, il suo amico Padre Mario Marafioti, ha celebrato la messa del suo funerale, e di lui ha ricordato la figura di marito, di padre, e di figlio obbediente al Padre. Mi sono accostato al sacramento della Comunione, offrendoLa per la sua anima. Così ho detto a Dio.

     Il Signore lo ha scelto per usare la sua penna, e per renderlo strumento di una preghiera iniziata da quei “Servi” quasi cinquanta anni fa e poi interrotta, e poi grazie a lui, ripresa.

 

                                                                                                                                    tonino