Un niente di buono.

Cappello di lana calato sugli occhi.

Meglio tenerlo alla larga, mi sono detto.

 

     In quel fine gennaio del 2005, quando il direttore chiuse la porta dietro le mie spalle, senza mezzi termini, mi disse che dalla settimana successiva dovevo lasciare la Filiale di corso Garibaldi per andare a lavorare in quella di viale Commenda. Lo fece senza molti preliminari.

“Serve a qualcosa far sapere che non gradisco questo spostamento?”, immediatamente replicai. Ero arrabbiatissimo.

Non servì a nulla, pochi giorni dopo, per la prima volta andai a lavorare a viale Commenda, in una banca che fino a poco tempo prima era stata nostra concorrente e che ora era a noi incorporata.

     I miei nuovi colleghi erano stupiti, perchè conoscevo la maggior parte della loro clientela, li salutavo per nome e venivo ricambiato con un bel sorriso. Semplice, perchè nel 1953, quando avevo due anni, mia madre mi mise nella mia carrozzina e così lasciammo via Nicolò Taccone, per raggiungere la nuova casa di via Calabria, appunto al rione Commenda, vicino la mia Parrocchia San Vito.

Per questo motivo gli abitanti di questo rione mi conoscevano, perchè, come si usa dire a Brindisi, mi avevano “cresciuto”.

     Non avevo ancora capito che il mio direttore, in questo modo, mi aveva fatto un favore. Non solo ero stato avvicinato a tre isolati da casa mia, ma anche a brevissima distanza dalla casa paterna, dove viveva la mia vecchia mamma.

Per fare un solo esempio, tutto questo mi consentì di passare da lei una mattina, prima di andare a lavoro, per vedere come stava, e la trovai nella sua stanza da letto, seduta per terra. Era caduta la sera del giorno prima e non era riuscita ad alzarsi, per cui aveva passato lì tutta la notte.

     Ormai lavoravo in quell'ufficio del viale Commenda già da un paio di settimane. Un mattino, tra una nutrita schiera di clienti, per la seconda volta, vedo un uomo che non mi sembrava proprio niente di buono. Un tipo tarchiato, non alto, cappello di lana tondo e scuro calato fin quasi sopra gli occhi. Giubbotto di pelle nera.

Meglio tenerlo alla larga, mi sono detto. Speriamo non capiti proprio a me.

Dopo qualche minuto, quando ancora una volta premo il pulsante per chiamare il nuovo numero e quindi il nuovo cliente, mi si presenta proprio lui, e così, mentre in maniera glaciale, preparo al computer la sua operazione, mi dice: “Ma sono le mie orecchie, o sento la radio accesa?”.

Era riuscito a sentire che la mia radio era accesa, sebbene in maniera non visibile la tenessi proprio accanto a me, e il volume mi consentiva di sentire appena un filo di voce.

Non volevo alimentare nessuna conversazione con quel tipo, per cui in maniera secca e decisa rispondo:

-“Si, ho la radio accesa. Lavoro con la radio accesa. Questo rumore, mi fa lavorare bene.”

Pensavo di avere così chiuso la conversazione.

Con quel mio tono, mi accorgo di averlo messo un po' in difficoltà e, sebbene lo vedo un po' smarrito, ed era questo il risultato che volevo ottenere, dopo pochi secondi, lui incalza, e mi dice: “Anche io, quando lavoro, mentre guido il camion, sono sintonizzato su radio Maria. A mezzanotte partecipo al rosario registrato e, alle due del mattino, sempre mentre sono in viaggio, la replica dell'ora di spiritualità condotta da Padre Livio.”

Caspita, mi dico, questo ne sa più di me.

Mi rendo conto che i termini del discorso sono cambiati. A quel punto, alla fine dell'operazione, mi alzo dalla mia sedia, e raggiungo il bancone in un punto dove non ho l'ostacolo dei vetri, e lo invito a raggiungermi.

Lui mi dice delle trasmissioni che ascolta durante la giornata, e il nome dei Padri e dei sacerdoti che animano radio Maria, ed io gli parlo della preghiera che facciamo nelle case degli ammalati, e della preghiera che ogni sabato recitiamo a Jaddico alle 23.00, lasciandogli intendere un sottile invito a partecipare anche lui al nostro rosario.

Antonio O., questo il suo nome, mi dice che il sabato successivo verrà a Jaddico per unirsi in preghiera con noi.

Non do peso a quelle parole. Promesse da marinaio, mi dico. Ma prima di lasciarci, abbozzando un lieve sorriso, incalzo, e gli dico: “Se un sabato notte dovessi soffrire d'insonnia, vieni a Jaddico che mi trovi. Siamo pochi, forse dieci o venti persone, dalle 23,00 alle 24,00. Io sarò a Jaddico.”

     Il sabato successivo, chiaramente lui non c'era, ma non ci penso più di tanto.

Venti minuti dopo le 23.00, lo vedo entrare in chiesa e quando mi vede, gli faccio segno che la sedia accanto a me è libera.

Antonio prende la sua corona, e prega con noi. Alla fine del rosario, quando eravamo ancora tutti seduti, ho raccontato a coloro che erano presenti, di questa mia esperienza fatta in ufficio con Antonio.

E’ stato bello notare che se anche gli altri lo vedevano per la prima volta, gli si erano avvicinati per parlargli e per chiedergli del suo lavoro. Era già uno di noi.

     Il sabato successivo, alle 23.00, abbiamo iniziato a pregare con il rosario. Antonio non c'era. Mi dico che non era venuto perchè aveva appagato la sua curiosità. Alle 23,10, a rosario iniziato, si presenta, viene a sedersi accanto a me, mi chiede ancora una volta a che ora inizia il Rosario, tira fuori la sua corona e prega con noi.

Il sabato che ancora segue, Antonio è puntuale, viene con fiori e ceri, con le sue preghiere, con la sua corona e con suo figlio.

 

     Questo è un invito rivolto a tutti coloro che il sabato notte vogliono venire a Jaddico, per rivolgersi in preghiera alla Madonna, negli orari che Lei stessa ha suggerito.

 

 

                                                                                                                            tonino