27 marzo 2011

 

      Domenica. Quell'aria che sa di primavera, e il sole, sotto il quale stai bene.

Centocinquanta, anzi parecchi di più, e in preghiera e fra i canti, abbiamo raggiunto a piedi, in pellegrinaggio, il Santuario di Jaddico.

      Oggi c'è stato il cambio di orario. Lo scorso mese ci siamo scordati di comunicare che la partenza del pellegrinaggio di marzo viene posticipata di un'ora. Abbiamo fatto il passaparola, nella speranza di raggiungere tutti, e forse ci siamo riusciti.

Abbiamo pregato per un giovane che sta perdendo la vista, per una mamma in attesa che ha perso il primo dei due gemelli e sta al quarto mese di gravidanza, per tutte le mamme in attesa, e per Benedetta Karole Muri che nascerà martedì prossimo.

Ci piace ricordare le date dei nostri appuntamenti: 

Ogni primo sabato di giugno: pellegrinaggio notturno a piedi a Jaddico.

Ogni ventisette del mese: pellegrinaggio mensile a piedi a Jaddico.

Ogni sabato notte: rosario dalle 23.00, alle 24.00.

Ogni giorno della settimana: rosario nelle case degli ammalati.

(Per maggiori informazioni potete chiamare Tonino al 349 – 169 69 63.)

 

      Nel mese trascorso, qui a Brindisi, si è ricordato quanto è accaduto venti anni fa nella nostra città, si è fatto memoria di quanto accaduto nel marzo 1991.

“Brindisi aprì le braccia al popolo albanese” - “Una città che fece stupire l'Italia” - “La città ospitale” - “Accoglienza, convivenza, reciprocità” - “L'esodo degli Albanesi” - “Italia e Albania unite da un mare di pace”. Questi i titoli che abbiamo letto sui giornali, e che scorrevano sulle reti locali.

      La Parrocchia San Vito, l'Amministrazione Comunale, e non solo, hanno ricordato questi eventi con testimonianze e fotografie, lo facciamo anche noi, attraverso la testimonianza di uno di noi, che ogni ventisette partecipa al nostro pellegrinaggio, per raggiungere il Santuario di Jaddico.

 

                                                                                                                                        u.p.

 

 

 

 

Albanesi: i miei ricordi, venti anni dopo

 

      Quella mattina appena sveglio, come sempre faccio, ho aperto la finestra della mia stanza, ed immediatamente ho notato per strada, la presenza di un grande numero di persone.

Erano volti nuovi, lo capivi subito: i capelli per lo più arruffati, barba lunga di giorni, volti che portavano i segni della stanchezza. Avevano passato la notte per strada, non sapevano dove andare, erano in gruppi, disseminati qua e là.

Ne parlai con mia moglie, accendemmo subito il televisore per capire. Francesco e Chiara, i nostri figli, ancora dormivano.

Erano sbarcati. Erano ventimila, si diceva anche venticinquemila. Erano albanesi in fuga che avevano utilizzato qualsiasi cosa potesse galleggiare per raggiungere le nostre coste.

Il clima che si respirava in Albania, anzi in Albània, come loro dicevano appena arrivati a Brindisi, era diventato pesante, irrespirabile, ed erano fuggiti, ma erano stati anche fatti fuggire. Il regime si liberava così di presenze scomode.

     L'Albania per molti anni era rimasta isolata da tutti gli altri Stati con i quali confinava, e anche con quelli più lontani. Quasi ci fosse un muro tra l'Albania e tutto il resto, ma questo muro, questo steccato, non aveva costituito una barriera per le nostre emittenti, per la nostra televisione.

Gli albanesi non si stancavano e non si saziavano mai di vedere (di nascosto, perchè il regime non lo permetteva) i nostri programmi, per questo motivo, alcuni albanesi, appena arrivati, già sapevano parlare pittosto bene l'italiano.

      Uscii di casa con la mia famiglia, ma ancora non ci rendevamo conto di quello che accadeva. Era il mio ultimo giorno di riposo per malattia, avevamo subito un tamponamento in città, mentre svoltavo ad un incrocio e la mia macchina era schizzata in avanti con violenza, superando l'ostacolo del marciapiede e fermandosi d’impatto contro la saracinesca di un locale commerciale. Meno male che non passava nessuno, altrimenti avremmo amputato le gambe.

      Quel sabato mattina andai subito in parrocchia. Volevo rendermi utile. C'era un grande movimento. Nel cortile della parrocchia San Vito, furono piazzate tre o quattro grandi tende, dove gli albanesi, a turno, potevano entrare per lavarsi, per fare una doccia. Appena fuori al cortile, lungo il marciapiede, c'era una doppia fila di persone in attesa. Veniva anche assicurato un cambio di abiti.

La parrocchia San Vito era collegata con la scuola media Giulio Cesare, che io ben conoscevo, per averla frequentata per quattro anni. Non che allora la media fosse di quattro anni, ma io avevo la testa dura, e fui bocciato, e dovetti ripetere un anno.

Qualcuno, in parrocchia, mi disse che sarei stato più utile nella scuola. Ci andai.

Tutte le aule erano piene di albanesi: erano state trasformate in dormitori, anche la palestra era piena. Dappertutto c'erano materassini militari e sacchi a pelo per dormire.

C'era da distribuire da mangiare a tutta quella gente: scatolette, biscotti, bottigliette. Mancava il cibo caldo.

Io cercavo qualcuno a cui aggrapparmi, cercavo qualcuno che mi dicesse cosa fare, (avevo bisogno che qualcuno mi dicesse fai questo, oppure fai quello) ed io l'avrei fatto. Tutto era lasciato all'improvvisazione. C'erano anche persone più grandi di me, c'era anche una insegnante, una persona abituata più di me a gestire le situazioni, ma mancavano gli organizzatori, e, contro la mia natura, dovetti improvvisarmi tale.

Al pomeriggio ci preoccupammo del vestiario.

Rimasi sorpreso quando, mentre consegnavo un jeans, quell'albanese, che ne aveva proprio bisogno, lo rifiutò, non lo volle perchè non era di marca.

Colpa della televisione, colpa della nostra pubblicità, della quale per tanto tempo si erano nutriti: quella pubblicità li aveva convinti che noi italiani vivessimo vicino al Paradiso.

      A sera quando tornavo a casa, mi confrontavo con mia moglie, e ci raccontavamo la nostra giornata. Ivana che in quel tempo, faceva volontariato presso i Vds (Volontari del soccorso) della C.R.I., mi diceva che con l'ambulanza sulla quale prestava servizio, avevano fatto la spola tra il piazzale Sant'Apollinare (il piazzale che ci ha visti in sessantamila alla presenza del Papa Ratzinger) e l'ospedale Di Summa, dove venivano portati coloro che a causa del viaggio si erano sentite male.

Sulla sponda di quel piazzale attraccò una nave, carica di albanesi fino all'inverosimile. Per 24 ore non fu fatto scendere nessuno, giravano voci che tra quelle persone ci fossero degli infiltrati, persone poco raccomandabili, magari in debito con la giustizia albanese. Si temeva anche questo dagli sbarchi.

Intanto alla Croce Rossa arrivò vestiario nuovo e anche in questo caso qualcuno rifiutò il vestiario, perchè non di marca.

      A pomeriggio inoltrato, presi coscienza di un problema grande, enorme: i bagni della scuola erano tutti intasati. Non c'era l'acqua e non si poteva nemmeno tirare lo scarico.

Riuscimmo a chiedere l'intervento di un autospurgo, ma non era possibile introdurlo nel cortile della scuola, perchè il cancello era chiuso con una catena e un lucchetto di cui non avevamo la chiave.

Ci procurammo un seghetto per il ferro, e, mentre ero per strada e tagliavo la catena, mi si avvicinò un poliziotto al quale spiegai cosa stavo facendo, e lui mi lasciò fare. Arrivò l'autospurgo.

Intanto scoprimmo che al piano terra c'era un lavabo, con tre o quattro rubinetti, da dove usciva un filo d'acqua. Trovammo i secchi, li sistemammo sotto i rubinetti e lentamente i secchi si riempivano per essere svuotati nei gabinetti e liberarli.

Non ho mai visto tanti gabinetti nella mia vita, erano tanti, tantissimi, non finivano mai. Il piano terra, il primo piano, con nelle mani il peso di quell'acqua, erano diventati immensi, i corridoi di quella scuola mi sembrava fossero diventati più lunghi. Un amico brindisino mi aiutò in questo lavoro. E loro, gli albanesi, lì a guardarci senza muovere un dito, ma nemmeno un'unghia.

Passai un sabato ed una domenica in quella scuola.

     Li chiamai, li chiamai tutti quegli albanesi. Con le sedie facemmo un gran cerchio, in un atrio molto grande e parlai. Dissi che avevo fatto tutto quello che potevo fare. Dissi che lo avevo fatto per loro, che nessuno mi aveva pagato, dissi che il giorno dopo sarei dovuto andare a lavorare, e per questo motivo non sarei potuto stare in quella scuola, per cui era necessario che loro stessi pensassero a loro.

Non ce la facevo più. Ero stremato, sconfortato, deluso. Piansi.

Uno di loro si alzò da quel cerchio, e venne dietro la mia sedia, e stando in piedi poggiò le sue mani sulle mie spalle, e si mise a stofinare. E stofinava, e strofinava, e lo faceva con sempre maggiore pressione, sempre più forte, fino a farmi male.

Che dolore! Non dissi nulla.

Era il suo modo di accarezzarmi e di dirmi: “Grazie, ti voglio bene.”

      Intanto quasi senza accorgermene, iniziavo a notare che mi girava intorno un albanese, sembrava volesse chiedermi aiuto, anche se in maniera silenziosa. Lui mancava dalla scuola tutto il giorno, andava alla ricerca della sua famiglia, rientrava solo all'ora del pranzo per mangiare qualcosa e a serata inoltrata, stanco passava lì la notte.

      All'arrivo a Brindisi, dopo lo sbarco, gli uomini furono divisi dalle donne, per cui le famiglie degli albanesi furono separate. Donne, mamme e bambini da una parte, uomini dall'altra.

Non ricordo chi dei due si avvicinò per primo all'altro. Parlammo, ma io non capivo niente, finchè qualcuno mi disse qual era il suo problema. Era venuto in Italia con la moglie e due figli piccoli.

      Quando finalmente a tarda sera ne parlai con mia moglie, lei mi disse che se volevo aiutarlo, dovevo fare in fretta, senza pensarci più.

Il giorno dopo all'uscita dall'ufficio, Dedin mi aspettava, ci mettemmo in macchina alla ricerca della sua famiglia. Entrammo in tante scuole, raggiungemmo anche l'Istituto Margiotta, in fondo alla Sciaia, ma senza successo. Il giorno successivo in un corridoio stretto e lungo, situato alla fine di una scalinata della Chiesa di Santa Teresa, trovammo una lunga fila di elenchi con i nomi degli albanesi, e in quali scuole erano stati sistemati. Tante persone stavano lì a cercare.

Fu lo stesso Dedin a notare i nomi della moglie e dei figli. Stavano in una scuola elementare del rione Sant'Elia, dalla parte opposta della città. Corremmo con la macchina, per raggiungere quella scuola, ma la famiglia di Dedin, non c'era. Qualcuno disse a Dedin che Antoneto, il figliolo più piccolo, si era sentito male, e lo avevano ricoverato in ospedale e con lui c'era anche la mamma.

Al “Di Summa” parcheggiammo in divieto, proprio vicino alla statua di Padre Pio, e raggiungemmo il reparto pediatrico.

     Quì avvenne l'incontro.

Dedin e Ina, in quella stanza di ospedale, si videro, e si abbracciarono. I loro occhi erano rigati da lacrime, ed io, ancora una volta, piansi.

Ina naturalmente non prevedeva in quel momento quella visita. Per Antoneto, nulla di grave, solo un malessere, invece Mary, la figlia di cinque anni, stava dal “vichingo”, che abitava in fondo al rione Sant'Elia, nelle campagne.

Andammo a trovare quel signore che “commerciava” in sigarette.

Era proprio un vichingo: capelli lunghi, biondi. A Brindisi, tutti avevano un cuore.

Tutta la famiglia finalmente si era ritrovata, era al completo.

     Un paio di giorni dopo, anche quella scuola fu liberata, i pullman portavano le persone in altre città d'Italia. Lasciai loro il numero del telefono di casa, e, quando arrivarono a destinazione, poterono chiamarci per dirci che si trovavano nel campeggio di Policoro, in Basilicata.

 

      Se chi mi legge, si sta chiedendo se ci sia poi stato in me un cambiamento, rispondo che non ho notato nulla, del resto il giorno successivo a quel lontano incontro di venti anni fa non mi sono sentito diverso.

Un seme però rimane dentro, è un seme che si può aprire dopo una stagione, o forse ci vuole anche più tempo.

La mia è stata una motivazione religiosa, si è trattato di un movimento del cuore.

Forse l'ho fatto perchè so che mi troverò nella stessa situazione di quegli albanesi arrivati a Brindisi, i quali hanno portato con sè solo gli abiti che indossavano.

Anche io, quando arriverà il momento, quando mi presenterò davanti a Dio, lo farò, proprio come quegli albanesi, senza portare con me le mie sicurezze. Non porterò la mia macchina, la mia casa, il mio titolo di studio. Mi presenterò davanti a Lui soltanto con i miei peccati, e avrò bisogno di essere aiutato, avrò bisogno della sua clemenza, del suo perdono, della sua misericordia.

 

Ciao, Dedin Vlashi.

                                                                                                                                                                                                                                                                                           tonino

 

Ancora una annotazione:

Accade che qualcuno dopo aver letto quanto pubblicato, mi faccia i complimenti perchè è piaciuto e sta scritto bene.

Vorrei sfatare questo alone che circonda le mie pagine, perchè non ho alcun merito, in quanto, prima di pubblicarle le faccio correggere. Se meriti ci sono, appartengono a coloro che hanno la pazienza di eliminare i miei numerosi errori, persone queste che rimangono nell'ombra.

                                                                                                                                                                                                                                                                                 tonino d'amici

27 marzo 2011